L’urlo di Praga e il silenzio di Monaco

On 20/10/2012 by alecascio

A volte si parla di chi vende come dei raccomandati, si parla di casta, si parla appoggi politici e pressione mediatica. La realtà, che è un punto di vista, è che alcuni scrittori vendono perchè alla gente piacciono e non importa se scrivono ovvietà che altri neanche a pagarli oro scriverebbero, piacciono e basta, ma non vuol dire che ciò che piace alla gente è buono, perchè alla gente piace fumare
catrame, farsi d’eroina, abbattere gli alberi, gettare immondizie per strada, fare la guerra, tradire, bestemmiare, cacciare, uccidere, stuprare, offendere, alla gente piace il fascismo, il nazismo, il secessionismo, piace scoparsi i bambini, piace adorare il diavolo, piacciono le storielle bibliche, i cinepanettoni, le battute di Striscia la notizia, alla gente piace maltrattare le mogli, inquinare l’aria, piace il nonnismo, il mobing, piace rubare, profanare tombe, rapire, imbrattare i muri, danneggiare il patrimonio pubblico, correre ubriaca in auto. Per vendere devi piacere e quando cominci a piacere alla gente, forse c’è qualcosa che non va in te, forse stai perdendo il tuo estro e la tua vena creativa, perchè alla gente piace ballare l’House imbottita di acido, alla gente piace urlare cori razzisti allo stadio, alla gente piace il gossip, Gigi D’Alessio ed Emma Marrone.


Spesso la mente ha così premura di viaggiare da rimanere attaccata al corpo e inevitabilmente si finisce per avverare i propri sogni. Io fin da bambino ho messo in conto di visitare più mondo possibile, così eccomi a Monaco a mangiare un grosso panino al pesce comprato solo per poter scambiare due soldi e fare il biglietto automatico per Marienplatz. La città è silenziosa come i suoi abitanti, sembra un folle placato dall’effetto stordente del Litio, con i suoi punkettari che non contestano nessun potere e i vecchi in bicicletta che non rimpiangono la propria infanzia sputando su quella altrui. Oltre ai poster della finale di Champions che colorano a festa la città del calcio, sui cartelloni va di moda una esagerata pubblicità della sigarette Marlboro che sostiene che senza di esse le più grandi canzoni al mondo non sarebbero mai state scritte. Lennon fumava le Gaulois, molti ai suoi tempi fumavano le Gaulois, quindi che dire Mr American Cancer, avremmo fatto volentieri a meno delle pessime canzoni di Pete Doherty e di Julian Casablancas, ma non del catarro di Tom Waits che prima di smettere col fumo e con l’alcol si riempiva i polmoni di Lucky Strike. Monaco è piena di chiese e strade in cui camminare lentamente, il limite di velocità è “retromarcia”. E’ facile amare Monaco, se sei un novantenne e guidi la macchina del Papa. Il ragazzo del taxi che mi ha dato un passaggio a pagamento mi fa girare un po’, il mio aereo parte alle sette e il suo orologio punta le 6. Così ce ne andiamo in giro per le villette della Baviera costruite dai nazisti ma abitate da cacciatori di stambecchi col cappello verde e i baffi lunghi e arricciati. Le piccole chiese sono più affascinanti delle monumentali cattedrali perché in quelle si percepisce la malata devozione di alcune piccole comunità nei dintorni di Monaco. C’è un grosso orologio che punta le 6 e 40, ma noi facciamo le 6 e un quarto, così guardo il conducente e gli dico una cosa che suona pressappoco così: “Hey man, your fucking watch is out and i lost my damned airplane if you dont run, now!”.
Io parlo inglese come lo parlano i tizi dei film sottotitolati che scarico dal web, è così che ho imparato, è così che mi piace parlare. Arrivo al gate che mi hanno chiamato già tre volte. Chiedo scusa, chiedo se posso entrare a seconda ora e mi accordano il permesso, così barcollando in una mezza tempesta, il mio aereo atterra a Praga con me sopra.
Il mio covo praghese con palestra e sauna è saltato, così Adam mi ha detto di recarmi da due amici suoi. Io però ho perso il foglio con il nome della via, così non ho idea di dove andare. E’ notte, piove e l’aeroporto è pieno di gente che guarda il vuoto per non scontrarsi con i miei occhi bisognosi d’informazioni.
“Hey, dico a voi, qualcuno può farmi usare internet che mi si è scaricata la batteria del portatile e non so come fare?”
All’ufficio informazioni c’è un’insignificante ventenne, magra, bianca, naso aquilino, ricoperta di veleno. Stava contrattando una scopata su Facebook, ma io le ho rovinato il party. Mi guarda come si guarda un cane per strada, non sa dirmi nulla di concreto. “Giù forse possono aiutarti”. Femmine così sono maledizioni su due gambe che cercano di mangiare l’anima del primo morto di figa che baratterà la propria vita per sapere cosa si prova a tenere il cazzo al caldo. Le dovrebbero perseguitare come le streghe ai tempi della peste. Loro sono la peste dei tempi moderni, loro e i tassisti praghesi che non parlano l’inglese. Un uomo col viso giallo quanto il suo veicolo mi chiede dove devo andare e io gli spiego che deve accompagnarmi in un internet point, deve darmi il tempo di recuperare il nome della via in cui dovevo presentarmi già da qualche ora e poi può accompagnarmi. Non gli ho detto che lo voglio fottere, gli ho detto che l’avrei pagato anche a veicolo fermo, ma ha l’aria di un ex militare con una gran voglia di imbracciare di nuovo il suo fucile e sparare sui civili per le strade. Nei miei romanzi, nei miei racconti, parlo sempre di uomini che si credono guerrieri e che finiscono per essere salvati dalle stesse donne che prima disprezzano e infine osannano. Odio il fatto che molte femmine si rispecchiano in quegli esseri che io chiamo donne, così come fanno in molti. Io in quella parola racchiudo la potenza di un arsenale nucleare, il coraggio di un intero esercito e nulla c’entrano le femmine “non so cosa fare della mia vita”, le divine succiacazzi senza personalità con quella magnifica parola. La donna che questa volta mi salva la giocata è una splendida bionda con un sorriso felice e il petto in fuori come se avesse allattato cento marmocchi e fosse pronta ad allattare anche un italiano di settantacinque chili se ce ne fosse bisogno. “Ci penso io a te” mi dice, lei che da quel momento in poi sarà mia e di nessun altro, mi sistemerà la nottata e mi porterà a destinazione. Le dico che non ricordo la via, che il ceco è una lingua difficile, ma quando mi porge il suo Pc e mi dice di cercare come si dice a un servo di ripulire la cucina, scopro che la via si chiamava semplicemente “500”.
“Non ricordavi 500?”
“Non è che non ricordavo, è che non ho proprio guardato forse, sono preso da mille pensieri”.
“E scommetto che li ricordi tutti”
Le chiedo come si chiama. Ride e mi risponde che se non ricordo un numero, non ricorderò mai un nome ceco come il suo. Me lo dice e in qualunque modo si chiamasse, so come ringraziarla per avermi accudito, messo su un taxi e abbracciato alla mia partenza dopo solo quindici minuti di conversazione: la terrò vivida nei miei ricordi.
“Non scordarti che io lavoro qui se hai bisogno di me, 500” mi urla dietro.
La piccola mami bianca che mi ha accolto in via 500 mi ha cucinato l’insalata ricca con una salsa piccante che sa fare solo lei. Non riesco a capire s’è bella o se è la bellezza che crea quando parla e sorride a farmela vedere splendida di riflesso.
“Domani a colazione faccio una buona torta”.
“Penso che dormirò fino a tardi”.
Ma non si transige, la colazione è il pasto più importante della mattina tanto quanto il pranzo lo è del pomeriggio e la cena della sera, minaccia di svegliarmi alle sette se non assaggerò la sua torta.
“Alle dieci?” le domando.
“Come dici tu, italiano, come dici tu”.

Monaco, 2012
Alessandro Cascio

S’è perso forse quel suono delle parole che aveva Allen Ginsberg, il Carlo Marx di On the road. La leggerezza di parole pesanti che ti davano il tempo e tu ballavi, ascoltavi e ballavi mentre la mente vagava per luoghi oscuri che a stare fermi saremmo impazziti. S’è perso il valore di un rigo, in mano a editori contorti, redattori irrisolti, scrittori bramosi anche di un misero successo di quartiere.

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