Sedici anni

On 01/12/2012 by alecascio

A sedici anni ero una specie di giovane promessa della musica, della poesia, del disegno, di qualunque cosa di artistico facessi. C’era di certo gente più brava di me nella chitarra, a frotte, ma mi distinguevo in creatività e in tenacia, inventavo delle scale e le chiamavo con nomi di personaggi famosi, Bourroughs, Altman, De Niro. Davo alle cover il giusto significato: versione rivisitata e personale di un brano. Così i riff di Black dei Pearl Jam divenivano chicche da registrare e riascoltare e gli assoli dei Nirvana venivano ripuliti per esaltarne la melodia prima ancora che Cobain con Unplugged dimostrasse la tesi sostenuta da me tempo prima: ovvero che quella era musica pop. Probabilmente ero creativo perché non ero un vero chitarrista: nonostante studiassi musica classica non sapevo cosa fosse una scala ionica, anche se sapevo riprodurla perfettamente. Ci dormivo con la mia Charvel, l’avevo sempre con me, passavo tutto il mio tempo a muovere le dita sulle corde in modo ossessivo. Se qualcuno veniva a trovarmi prendevo l’elettrica tra le mani e poi intavolavo la conversazione, era un succedaneo affettivo, uno scudo, ne ero del tutto dipendente. Venivo da una cultura musicale mista tra grunge e rock anni ’50 e nonostante vivessi nel buco del culo del mondo tra mafiosi e contadini, dalle mie parti c’era un fermento musicale degno di Seattle. C’erano i professionisti come Virga, Baretta, Viviano, i Dragon e poi c’eravamo noi che inciampavamo nelle note e che pensavamo più alle stronzate da divi che alla qualità della musica. Per noi un buono spettacolo era fatto d’alcol, era una rappresentazione scenica del delirio per questo venivamo confinati in cantine, concerti per feste di compleanno, feste di piazza o scolastiche. Nonostante tutto eravamo più apprezzati di chi sapeva suonare sul serio.
Io mezzo nudo col casco, il batterista a vomitare sulla gran cassa, il cantante a bestemmiare e il bassista così fatto da scordare i giri di basso e suonare per una mezz’ora intera improvvisando: se questo non era rock, ragazzi. Se oggi vi dicessi che nelle cantine di Brooklyn gli spettacoli sono spesso così, voi che siete abituati alla perfezione dei piano bar e della musica da pub non mi credereste, a meno che non siate stati allo Smash o al Kabala.
Un giorno venne a casa mia un amico, portò con sé un ricco ragazzotto italiano che viveva a New York e che si chiamava con un nome che non restava in mente perché lui era così vistoso ed elegante e aveva così tante cose da raccontare che non avevi tempo per attaccarti al nome. Gli chiesi (lo chiedevo a tutti a quei tempi) se voleva che gli suonassi qualcosa alla chitarra. Rimase stupito perché nessuno mai glielo aveva chiesto e conosceva centinaia di musicisti. Era gay, visibilmente gay, non uno di quelli alla Clooney, ma uno di quelli che si sentono donne intrappolati in corpi di uomo e scimmiottano il mondo femminile con movenze che vorrebbero essere eleganti ma che addosso a loro risultano bizzarre. Suonai More than words, una delle poche canzoni del mio repertorio che non avevano bisogno di distorsione. Ne fu rapito, si alzò in piedi e applaudì, da solo, mi sembrò stupido. Non era un granché quell’esibizione, non c’era neanche l’assolo acustico finale di Nuno Bettencourt, assolo che solo i veri chitarristi erano in grado di suonare. Mi disse che dovevo andare con lui, che dovevo andare oltreoceano e sfondare, perché poche persone aveva visto in lacrime per la musica. Oggi credo che solo chi lacrima suonando ha talento: piangere parlando di musica è amore, nient’altro. La settimana dopo organizzammo una cena da una zia, lui si presentò spavaldo e con un grosso cappello in testa, poi, senza un briciolo di timidezza si presentò a tutti e disse le cose come stavano.
“Vorrei portare il ragazzo con me”, disse: “Ha talento e passione, forse non per la musica e basta, forse ha un mondo dentro che deve sfogare e io ho abbastanza soldi per farlo studiare nelle migliori scuole d’arte di New York e abbastanza amicizie per assicurargli un posto in uno dei locali di Woody Allen”.
Avrei venduto l’anima al diavolo se avessi saputo come si faceva. Ci avevo tentato più volte ma erano tutti riti inventati sul momento e il diavolo è un perfezionista e uno stacanovista, non puoi fartelo amico colorando un fumetto col tuo sangue.
Cobain era morto lo stesso anno. Da tempo era l’unico a darmi sollievo, riuscivo a superare qualsiasi cosa solo ascoltando Serve the servants, avrei potuto farmi operare senza anestesia se avessero messo su il cd di In Utero. Non avevo altro, non sapevo ancora scrivere. Avevo passato l’infanzia a disegnare fumetti e scrivere poesie, ma non esistevano delle star dei fumetti, la poesia di allora stava nella musica, la chiamavano “lyrics”.
Io non ero gay come il ricco americano, non lo sono mai stato.
Una volta scrissi una rappresentazione dell’omosessualità su Love Fitness.
“Potresti venire a casa mia, posso prendermi io cura di te se ti senti così solo e abbandonato”.
“Come vuoi prenderti cura di me?”
“Nel solo modo che mi è possibile, con amore e denaro”.
“Sono più povero che frocio, dici che posso approfittare del pranzo senza prendere anche il dolce?”
“In che senso?”
“Non sono come te, non lo sono mai stato”.
“O forse non hai mai trovato l’uomo della tua vita”.
“Se è così, spero che sia morto”
Come dice l’omosessuale Woody Harrelson in Friends with Benefits: “Io amo le donne, sono stupende, sono esseri magnifici e di molto superiori a noi uomini, in tutto. Se potessi scegliere io sceglierei loro, le donne … ma mi piace il cazzo. Non ho scelta.”
Ecco, io la penso come Woody, ma non mi piace il cazzo, neanche io ho scelta. Credo che se mi fosse piaciuto il cazzo adesso me ne starei a New York con un Apple Martini in mano a suonare Jazz e a discutere di arredamento con qualche ragazzotto di Los Angeles emigrato dal paese delle arance per un po’ di vita al limite. Invece no, me ne sto a casa mia, in uno squallido monotono inferno che è sereno come il paradiso, solo perché a me piace la fica.
Mia madre quel giorno scoppiò in un penoso pianto, mio padre non disse nulla perché era un sogno anche per lui che suo figlio diventasse un grande artista americano, che ci provasse almeno, ma io teenager con quel faccino femmineo e con il testosterone di un trentenne e il ricco americano gay con la chiave per ogni mio sogno non eravamo un bell’assortimento ai loro occhi, forse agli occhi di un regista di Hollywood, ma mio padre girava ancora filmini amatoriali in super 8 e non sarebbe mai andato oltre quelli. Di fronte alla disperazione di mia madre che gridava a chi cercava di farla riflettere “voi non sapete cosa voglia dire perdere un figlio”, decisi di non partire, di non insistere, di provare altre strade.
C’è solo un modo per rinunciare a qualcosa di grande senza pentirtene: aspirare a qualcosa di maestoso.
Il giorno dopo partii per Londra e cominciai a scrivere il mio primo romanzo.
A.Cascio

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