Muse, puttane e patè: il nuovo sensazionevole post dell’Estate

On 24/06/2013 by alecascio

 

Ecco il nuovo spot della collana Damien. La mia prima uscita con Marsili “Tango-I’m the ressurrection” è stata seguita da quelle di Evangelisti, Lupi, Virgilio Pineira, Guerri, Gianluca Morozzi e altri ancora.
Li trovate in libreria, su ibs e altri store on line, anche in eBook.

 

 

La vita di uno scrittore non è fatta nè di problemi e difficoltà, nè di inezie e bei momenti, sapete? La vita di uno scrittore è solo fatta di spunti e io di spunti ne ho a sufficienza per scrivere per altri cinquant’anni, ma non bastano quelli, devi anche metterti seduto a lavorare per una miseria, alcuni lo chiamano “dreamwork”, altri lo chiamano “maddai, non prendermi per il culo”, ma per me è solo un compito, una cosa che faccio da quando ero piccolo e che è ormai uno stile di vita. Ci sono state ottime presentazioni a Milano, cose che mi hanno fatto sperare per il futuro, la gente in Lombardia e in Toscana compra alla grande, specie quelli di Livorno.
Che ora tra le ragazze cool di Milano e Roma c’è sta nuova moda dei capelli all’indietro stile anni 80 col gel o la luxina massiccia. Dico, a me va bene, mi piace, perchè se trovi un’occasione nel doposbronza e hai bisogno di un po’ d’olio perchè lei ha le mestruazioni, almeno sai dove prenderlo senza andare in giro a cercare i distributori. Devo consegnare l’ultimo lavoro e poi posso andare in vacanza per un paio di mesi con la mia musa ispiratrice, una splendida barbie freak di Viareggio che vive a Copenaghen e che sembra uscita da un cartone animato per adulti. Poi finirò Tango, tutto, 350 pagine di puro spasso e poi non so, chissà dove finirò.  


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Io e Martin c’eravamo accampati per un’intera nottata all’ombra di un ulivo morente. Dovevamo attraversare il campo nemico, ma gli alleati tardavano e noi eravamo rimasti senza viveri. Decidemmo di proseguire, ma i cecchini avevano già preso posto.
Martin venne colpito alla gola. Con una mano cercò di tamponare la ferita e con l’altra mi strinse il polso e mi disse, con quel po’ di fiato che un buco in gola ti permette di esalare: “Vai avanti senza di me, amico mio”.
“Non posso, Martin” gli risposi.
Mi strattonò come un padre, anche se era più piccolo di me di due mesi e undici giorni.
“Ho detto vai, fratello, vai avanti senza di me”.
“Cristo Dio, Martin, come faccio?”
“Fallo e basta”.
“Lo farei, cazzo, ma se non mi lasci il braccio non ho dove andare”.
Lo scrollai. Semmai dovevo tornare indietro, avanti c’erano i crucchi armati di schioppi, ma forse lo disse perchè era messo di spalle o non so, avevo capito male io per via del sangue che gli gorgogliava in bocca che lo faceva sembrare un tacchino.
Per un attimo risi: è vero, sembrava un tacchino.
“Cosa cazzo ridi? Sto morendo” disse, ma io sentivo “glugluglu” e quello fu uno dei momenti più divertenti della giornata. Me lo portai appresso trascinandomelo come un sacco di patate perchè era pur sempre mio amico e arrivai a una piccola casa di campagna isolata abitata da una giovane coppia di parigini nei pressi di Millau.
“Vive la France, cerco cibo e riparo” gridai mentre Martin si lamentava per il dolore.
“Non abbiamo nulla da mangiare” risposero, ma aprirono così repentinamente che sembrava stessero tenendo una festa e aspettassero me per il bagno in piscina.
Sgranarono gli occhi: “Ha un tacchino con sè per caso?”
Sbottai, ma giurai a me stesso che quella sarebbe stata l’ultima volta: “E’ vero? Sembra un tacchino. Lo avevo detto io”.
Poi corressi la smorfia di gioia in una più cupa: “E’ il mio compagno ferito, chiediamo riparo, brava gente”.
Martin però s’era spento un attimo prima, cercai di rianimarlo come potevo, ma ormai non c’era nulla da fare, lo capii quando non rise a nessuna delle mie barzellette anche se erano dei pezzi forti, mica battutine da oratorio.
Era un brav’uomo, Martin, era buono, certo sapeva di bue più che di tacchino, ma il brodo di carote della donna di casa gli aveva conferito un gusto delicato. Del resto del corpo ne facemmo un patè che l’indomani portai via con me in viaggio verso la salvezza.
Al primo accampamento militare mi perquisirono e tirarono fuori le latte che avevo nella borsa.
“Cos’è questo?” mi chiese il generale Fedair.
“Patè del soldato semplice Martin Reanard” risposi.
“E il soldato, che fine ha fatto?”
Indicai le latte e faci così con le spalle: “Beh, è evidente che sia morto”.
Il generale guardò intorno, prima alla mia destra, poi alla mia sinistra, poi alle mie spalle e rispose che sì, era evidente che fosse morto, che domanda stupida.
La sera al banchetto con i militari rimasti vivi Fedair si mise in piedi e brindò alzando il calice verso il cielo: “Al soldato semplice Martin Renard, gli rendiamo grazie per averci donato questo splendido patè prima di andarsene anche se non è chiaro dove abbia trovato il tempo di farlo tra un attacco crucco e un altro”.
Io volevo dirgliela la verità, pensavo mi avesse capito, ma avevo la bocca piena e loro facevano troppa baldoria per potermi sentire: non mangiavano da giorni e li lasciai festeggiare tranquilli evitando di guastare l’unico giorno felice dei loro ultimi sei mesi.
A.Cascio – Tango ep 3, Patè di Martin

 

Quand’ero piccolo, succedeva anche a voi, mi costringevano a mangiare broccoli e lenticchie perchè contenevano ferro. A me piaceva la pizza, io volevo quello splendido pane, salsa e mozzarella, paradiso per lo stomaco che si chiamava pizza Margherita, Cristo Dio se lo volevo. Ma mio padre, che allora era ancora tossico e si faceva di coca perchè allora si stava bene, mi diceva: “Pensa ai bambini africani, devi ritenerti fortunato”.
No, loro erano fortunati, perchè non erano costretti a mangiare i legumi pensando a me che passavo la maggior parte del mio tempo in bagno perchè con le fibre è così, sai quando cominci ma non sai quando finisci. Mio padre, che idDio lo meledica, sosteneva che sarei diventato grande e forte, che tutte quelle vitamine mi avrebbero fatto vivere di più, ma che senso aveva, insomma, vivere cinque anni in più se quei cinque anni li avevo passati a defecare, a cosa serve riempirsi di fibre per passare cinque anni di merda, meglio la pizza, vivi meno ma almeno te ne vai in sala giochi, al calcetto, te la godi. Io li odiavo i bambini africani, ero razzista, avevo bisogno sì di ferro, ma di un ferro 44 da scaricare addosso a uno di quei piccoli bastardi che per colpa loro c’avevo la pancia piena di verdure che sapevano d’acqua e sale, sapevano di scoreggie. In fondo, chi ha vissuto gli anni 80 in Sicilia, sa benissimo che qui non c’erano bambini neri in pizzeria. Sfido chiunque a dire il contrario. Avete mai visto un bimbo africano in pizzeria quando siete andati con gli amici a mangiare la pizza al sabato sera? Forse nelle grandi città del nordo, ma sarei pronto a dare dieci euro a testa a chi riesce a smentirmi: qui, i bambini neri in pizzeria non esistevano. Così mangiavo i broccoli e tutti i loro parenti. Poi ieri viene mio padre, che c’ha tipo 75 anni e si fa di colla e benzina perchè non c’ha un soldo e mi chiede di prestargli 100 euro perchè di pensione ne prende 200 e non ce la fa ad andare avanti, vecchio com’è.
E io “Cristo Dio, pensa ai vecchi del Burundi e del Ruanda, che muoino di dissenteria e campano con 5 franchi al mese” gli ho detto. E l’ho mandato via a meditare.
E voi tutti, anziani e adulti, che vi lamentate della crisi. Se prendete la Svizzera come esempio, è logico che state male, che vi sentite in difetto, come se qualcuno vi dovesse qualcosa. Cos’è, il vostro insegnante di matematica forse soffriva di complessi d’inferiorità perchè non era riuscito a prendere il Nobel? Cazzo, pensate al Burundi, sentitevi fortunati, pensate ai bambini africani. Del resto, ce lo avete insegnato voi. O no?
AC – status lunghi

 

Mi hanno fermato gli sbirri e m’hanno riempito la testa di domande per un bicchiere di vino di troppo.
“Gesù Cristo” gli ho detto, “beveva vino, perchè io non dovrei?”
“Sì, ma lui ubriaco riusciva a camminare sulle acque, tu non sai mettere un piede davanti l’altro su una linea immaginaria”.
“L’ho immaginata a zig zag” ho risposto.
Mentre trascrivevano le mie generalità mi sono messo a parlare d’amore con una prostituta che sognava di tornare in Africa e trovare l’amore. Le ho parlato dei miei nonni che se ne sono andati che c’avevano novant’anni, hanno vissuto in povertà, ma sono rimasti innamorati fino alla morte. Per la maggior parte della loro esistenza hanno fatto cenette a lume di candela, ma solo perchè non avevano i soldi per le bollette. Non avevano neanche i soldi per il cibo, così usavano candele profumate: ne ho ancora una alla zuppa di pollo così come me l’hanno lasciata.
“Che vuoi dirmi?” mi ha chiesto la ragazza.
“Voglio dirti che l’amore, puttana, non dipende da quanti soldi hai, ma dalla qualità della luce che lo circonda”.
“Io mi chiamo Ashley, non puttana!”
“Che vuol dire? Il mio dottore si chiama Paolo, ma lo chiamo Dottore”.
Il caramba si è avvicinato e mi ha detto di andare, che per quella volta non mi avrebbero fatto nulla.
“Quindi, dici che posso trovare anch’io l’amore?” ha chiesto supplichevole l’africana.
“Cristo Dio no” le ho gridato da dentro la macchina, “mia nonna mica si scopava mezza provincia”.
Poi sono partito e ho urtato un palo in pieno trovando così la seconda morale della mia storia: la prima è “meglio povera che troia”, la seconda è “nè io nè Cristo reggiamo l’alcol, a me hanno ritirato la patente per guida in stato di ubriachezza, a lui lo hanno crocifisso per vilipendio, blasfemia e diffamazione”.
AC – Status lunghi 2

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“Ti vedo triste. Sei uscito con lei?”
“Sì”
“E come scopava?”
“Come Moana Pozzi”.
“Dovresti essere felice, no?”
“Cristo Dio, perchè non cogli? Moana Pozzi è morta!”
A.Cascio

Mi commuovo sempre quando vedo gli occhi spalancati e lucidi di un piccolo e tenero idiota di periferia che viene a contatto, per la prima volta, con l’avvolgente bagliore dell’intelligenza.
A.Cascio – Citazioni pericolose

 

Pochi di voi ricordano i tempi in cui avevo 16 anni, facevo la pop star e mi chiamavo Shovinskij. Ero più famoso in America è vero, in fondo è lì che sono nato, ma qui arrivò la mia “I wanna gonna where Anna wanna gonna”. Non ditelo a me, mi ci è voluto un mese per impararla senza sbagliare. Non vuol dire fondamentalmente un cazzo, tipo “voglio andare dove Anna vuole andare”, ma il mio produttore, Sid Stevens, sì, sì, proprio quel Sid, mi disse: “Cristo Dio amico, cosa vuoi che importi? I tuoi capelli sono perfetti. Tu stai attento a non scombinarteli mentre balli, incartati pure con le parole che tanto le ragazzine che urlano non sentono una nota di quello che canti, ma non spostare di una virgola quel ciuffo.”
Con lui era tutto un “fratello”, “ciao sorella”, “ciao zio come butta”, era uno slang che lui e i neri che gli ronzavano attorno usavano ai tempi e lo usavo anch’io, almeno fin quando non capii che la sua etichetta era a conduzione familiare, da allora mi limitai a chiamarlo Sid e basta. Con i ragazzi ci facevamo le foto con le minorenni e ci spaccavamo di sesso, Dio solo sa quante seghe ci siamo fatti con quelle foto. Mi avevano detto che scopare le minorenni era illegale, altrimenti avrei fatto loro un paio di ditalini, sempre usando le dovute precauzioni, tipo tagliarsi le unghie, lavarsi le mani dopo, non sbagliare buco, tipo.
Le fans mi fermavano per strada e mi dicevano: “Hey, Shov, hai dei capelli fantastici, ho comprato il tuo LP”.
“E ti è piaciuto?”
“Sì, una gran foto”
“No, il disco”
“Maddai, c’è un disco in omaggio con la foto?”
“Ma no, quella è la copertina”.
Facevamo musica come ci veniva, prendevamo pillole come cioccolatini, ci sballavamo con una cosa chiamata acido, mangiavamo limoni, latte, nutella, wurstel e peperoni e quando ci saliva l’acido stramazzavamo in terra in preda alla febbre e alle visioni, vomitavamo di brutto e cazzo, ma quanta musica ci veniva. Poi veniva in camera il nostro spacciatore, il Dott Feelgood e ci dava le pasticche di Buscopan.
Poi tutto finì, io persi tutti i miei soldi perchè Sid venne ucciso dalla malavita organizzata per un brutto affare di droga, almeno così mi disse per telefono, anche se non si sentiva nulla con tutta quella musica caraibica, quelle risate e quegli ansimi di sottofondo.
E tutto finì, per sempre.

FINE

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Touch and splat, il fumetto, edizioni ESC/Il Foglio con la prefazione del maestro del cinema Ernesto Gastaldi (sceneggiatore di C’era una volta in America e Pizza Connection) ora anche su:

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