Un’ora con Shovinskij e il suo nuovo megalopost di Luglio (UT il desiderio, racconti, vignette, musica, sketch e battute)
La frase del mese: “Da quando è uscita la notizia sul Crack della Parmalat, al supermercato è sempre pieno di tossici che scrutano tra gli scaffali.”
AC
C’è questa rivista della Ediland Edizioni, UT, che voi che mi seguite da anni conoscete e voi che non mi seguite non conoscerete mai perchè è una rivista che vende ogni copia che stampa ma rimane volutamente di nicchia. Tiratura limitata, copie eleganti, rilegate, con illustrazioni di grandi artisti viventi firmate una a una. Ogni uscita è a tema, raccolte a fine anno in lussuosi cofanetti da collezione. Non so perchè non ne abbiano mai fatto un business, ma credo che il motivo sia che “a quelli di UT non gliene frega niente”, ci fanno le presentazioni con bravi Jazzisti in particolari locali d’altri tempi, ci fanno le mostre e le fiere internazionali, ma non aspirano a vendere una sola copia in più di quelle che stampano.
Ci scriviamo io, Sacha Naspini, Ascanio Celestini, Carlo Delle Piane, Massimo Consorti, Salvatore Borsellino, Francesco Scarabicchi, Del Zompo, Maria Lenti, Lisa Ponti, Pino Guzzonato, ci scrive gente nota e anche gente meno nota, basta che raggiunga il livello, che non si valuta da quante copie hai venduto, da quanti romanzi hai pubblicato o da quante volte sei andato in TV e sui giornali, ma dalla passione del momento.
Nel numero di Luglio, un mio racconto sul Desiderio, con le illustrazioni di Miriam Ravasio. L’ho scritto per una ragazza che ho visto una volta sola, la guardavo al fine letterario e non solo a dire il vero, ma mi ha colpito così tanto che quando l’editore mi ha chiesto di scrivere qualcosa sul Desiderio, l’ho fatto di getto.
Il tesoro di Wright
Federica, non posso accarezzarla né conquistarla neppure con l’impavidità di mille agguerriti sumeri che mi ritrovo addosso e mi rendono l’uomo rabbioso con le spalle pesanti che sono diventato dopo anni di scellerati scuotimenti da un capo e l’altro della terra. Nessuno però può vietarmi di guardarla, di celare in lei ogni mio fievole desiderio, esile come la bontà che ancora m’è rimasta e che nascondo per non essere bersaglio facile di predoni e canaglie. Proteggo dietro la sua immagine le mie più pure fantasie e le mie più sincere angosce come da sempre l’uomo fa con l’ignoto. Il Paradiso in cielo, l’Inferno nel rovente nucleo della terra e i forzieri negli arcani abissi dell’oceano, a ogni luogo va il suo inviolato cosmo perché se solo fuoco e luce s’incontrassero davvero, se solo diavoli e angeli potessero abbracciarsi, scoprirebbero d’essere gli uni identici agli altri, diversi nell’aspetto ma con anime gemelle e si ritroverebbero mano nella mano senza più distinguere il bene dal male.
E senza bene e male non c’è tristezza, pentimento, bisogno, dolore tale da desiderare un Dio.
Il tempo che passa mi ha allontanato da lei come s’allontanano i ricordi di chi cresce e s’è lasciato dietro il bianco e il nero delle foto da bambino e dei vecchi film di Capra, ma nonostante tutto mi ha ridato fiato ricontrarla prima di partire, m’ha svelato che se tutto è fatto per dolersi è solo per la sete di potere di un maligno Sovrano che separa alla nascita demoni e spiriti celesti purché restino ottusi a tal punto da cadere in ginocchio ad ogni intralcio sulla strada per nessun posto, il luogo dove giace il luccichio delle nostre ambizioni e delle ingannevoli promesse, il luogo in cui io e i miei uomini siamo diretti.
Ci chiamano Diggers anche se andiamo per mare. Nessuno di noi ha mai scavato più di una fossa alta la distanza di un piede da una rotula, ma dietro alla parola scavatori spero ci sia qualcosa di più profondo di un atto da contadini assetati di vecchi tesori nascosti.
“Tu” chiedo a Terek, “cos’è che speri di trovare?”
Mi guarda come si guarda una sirena mezza cieca che fuma un sigaro a un tavolo da poker di un locale hard a Lowestoft con in testa un cappello di piume e sul naso una libellula, lo fa perché non ho mai scambiato più di una bestemmia con i miei marinai da quando li conosco.
“Io, capitano?”
“Ci siamo solo noi in questa cabina, se non mi riferissi a te starei parlando da solo e sai cosa vuol dire quando un uomo parla da solo, ragazzo?”
“Che ha trovato un ottimo interlocutore”.
Li pensavo tutti mungitori di vacche magre, i tunisini e invece questo sembra avere letto qualche libro nella sua miserabile vita.
“Che è pazzo, ragazzo e nessun pazzo potrebbe mai guidare un’imbarcazione decadente sotto la pioggia alla ricerca di scrigni sommersi pieni di dobloni con un manipolo di criminali in cerca di fortuna, non ti pare?”
Ancora quello sguardo un’altra volta e giuro che virerò di colpo sbattendolo tra le scogliere di qualunque luogo siamo.
Guardo la mappa e “due miglia dalle coste di Mandal, capitano” mi dice Terek, preciso come l’orologio del Tristo Mietitore.
Balbetta, poi mi rivela di volere solo i soldi per sposare la sua donna e prendere una casa in campagna, magari con qualche vacca magra da mungere quando la moglie si sarà stancata delle sue mani ruvide.
“Perché voi musulmani ve le scopate, le vostre vacche, non è così? Ne ho sentito parlare, non c’è nessuna legge nelle vostre bibbie pagane che vi vieta di scoparvele”.
Non risponde, credo di averlo offeso: “L’ho solo sentito da un tizio, ma non era affidabile, nessuno lo è dietro le sbarre”.
“E voi, signore, perché siete qui?”
Sono saliti a bordo senza neanche chiedermi chi fossi, poco di buono con una taglia sulla testa per aver ammazzato in nome di un Dio psicotico.
“Per raggiungere la donna della mia vita che potrebbe essere mia figlia. Perché dicono che in mare il tempo si ferma. Perché ho un compito da portare a termine. Perché un uomo che non può amare non ha nulla da perdere”.
Gli scogli di Lindesnes sono acuminati come sciabole e devastanti come fulmini, li scanso con accortezza per non sbagliare il colpo grosso.
“Lei, signore, scambia il desiderio con il possesso”.
Terek, come gli altri suoi amici pagani, ha ricevuto asilo da paesi inermi, ostili solo per il piacere di valere qualcosa nella politica delle scelte, ma non mi avevano detto che anche gli assassini hanno sogni.
Banderas, il mio piccolo Dogue de Bordeaux l’ho portato con me con un cancro alla lingua inoperabile che lo avrebbe fatto agonizzare per giorni. Mi osserva come se sentisse il peso delle mie esitazioni.
“Come pensa che la sua donna possa raggiungere la sua età, se un secondo dura un secondo per tutti, signore?”
Un giorno, nella mia lapide verrà scalfito per sempre un momento, non avrò altra età che quella. Per un attimo io e Federica avremo la stessa età, finalmente. Questo è il solo modo che conosco per raggiungerla e non credo che qualcuno avrà il tempo per rivelarmene un altro ancora.
“Lo scoglio, signore”.
“Chiamami Sergente Wright, eretico terrorista del cazzo, voglio sentirtelo dire almeno una volta!”
Cerca di togliermi dal timone, ma lo afferro per la gola e le sue urla svegliano l’intera ciurma di bombaroli che non fanno in tempo ad apprezzare gl’ingegnosi criteri escogitati dalla marina americana per eliminare la feccia senza cadere in incidenti diplomatici.
“Dillo” grido, ma ho già l’acqua in gola e Terek mi è sfuggito dalle mani per affondare come un sasso ai piedi delle coste buie di Lindesnes.
Ho lasciato la mia foto più bella per lei, che la possa apprezzare assieme al fatto d’essere stata immensamente amata da un eroe, seppur vecchio e senza più alcun desiderio realizzabile.
Il tesoro di Wright – Alessandro Cascio
Per UT Magazine “Il desiderio” di Giugno
Nella foto: UT il desiderio presentazione allo Chalet La Bussola.
Esiste una sola forma di follia al mondo: credere che esista la normalità.
Non appena varco la soglia dello chalet, Mitreskij mi accoglie con la sua solita enfasi teatrale.
“Benvenuto in mio umile regno in Los Angeles di California, mio amico americano”, poi apre le braccia e indica col dito il tavolo della roulette: “Tu punta tuoi soldi e tenta fortuna, gioco di azzardo è come vita, si arricchisce solo chi rischia!”
Prendo cinquecento dollari e li punto tutti sul nero.
Vinco e lascio: “Ancora sul nero”.
Vinco ancora, per cinque volte di seguito. Ritiro il malloppo e mi siedi all’angolo bar con sedicimila dollari in contanti. Ne spendo cento in whisky di qualità e brindo a Mitreskij e la sua mignotta russa.
“Tu fortunato, amico americano, il nero su cui ha puntato tuoi soldi si è appena fatto saltare le cervella!”
Si chiamava Sunny, quand’era tutto intero.
Una delle tre donne in piedi di fronte a me si avvicina con un passo così leggero che il pavimento sembra solo un luccicoso ornamento per ricchi immigrati.
“Sei con la tua auto?” chiede.
“No”.
E’ liscia, soda, perfetta in ogni rotondità, come una statua di marmo è fredda e senza un briciolo d’anima.
“Posso accompagnarti a casa per cento dollari, se vuoi!”
Arrivati al Banana Chic le indico di fermarsi, che siamo arrivati.
Mi scrollo di dosso un po’ di tensione e le dico: “Cristo Dio, sei bellissima, perchè lo fai?”
“Per soldi, baby”
“Una come te potrebbe fare l’attrice, perchè hai scelto di fare la puttana?”.
“Puttana sarà tua madre” risponde alzando la mano destra, “io faccio l’autista”.
A.Cascio – Stereotipi e azzardi – Da: Tutta la maledetta verità su Escobar
Poor Richard (storia di un uomo che sfidò il mare)
Tramonto, lo chiamavano così l’imbroglio creato dal mare per far sì che noi altri voltassimo lo sguardo altrove, ma quel gioco di luci fioche e rifrazioni rincoglioniva gl’innamorati d’amore fragile, svigorito, bisognoso e carente di passione e non era il mio caso: Cristo Dio, no che non era il mio caso. Solo chi stava dalla parte del sole poteva vedere con chiarezza il vero splendore, che è qualcosa che irraggia, ma del quale si riconoscono le forme, non è il bagliore in sé, non è il Sole quindi, ma ciò che esso illumina.
Solo lui poteva sbattersela e l’avrebbe fatto per l’eternità, ubriaco degli scarichi illegali di una distilleria vicina, da mattina a sera ne abusava fino a consumarla. Una volta il povero Richard ci aveva provato a strappargliela dalle mani, ma lui lo colse debole, lo prese a schiaffi e lo scaraventò tra i sassi, là dove lo trovarono morto appena due giorni dopo, gonfio come i piedi di un pellegrino.
Mi dissero: “Non puoi sfidare il mare”.
Sì che potevo, semmai non potevo vincere, ma tutti possono sfidare l’invincibile, altrimenti non si spiegherebbe come gli uomini continuino a campare nonostante la morte e allora dicevo loro che ne sarei uscito vivo e che avrei guardato la nuda costa dalla parte giusta e lei avrebbe guardato me, l’avrei accarezzata da capo a piedi e lei avrebbe accarezzato me e avrei arginato la follia dei folli a braccia larghe senza paura. Il povero Richard s’era dimenticato di dimenticare. Se sfidi le avversità devi scordarti di stare combattendo, devi farlo come se non ci fosse altra possibile esistenza oltre alla lotta, come se la fatica fosse naturale quanto il riposo e allora la stessa ti sembrerà riposo e niente potrà farti del male, neanche la brutalità delle onde. Mentre cercavo di respirare, quelle mi tappavano la bocca e mi spingevano lontano il più possibile, mi accecavano per non permettermi di osservare ciò che avevano deciso fosse di loro proprietà.
Figlio di puttana, non avrei mangiato il suo pesce malsano neanche se mi si fosse gonfiato lo stomaco d’aria, neanche se avesse curato il cancro.
“Cos’è? Ti vedo barcollante più del solito oggi. La distilleria ti ha dato la tua dose come sempre, non è così? Ti hanno lasciato solo i tuoi scagnozzi, niente squali, niente meduse, niente forti venti, da solo vali quanto il bagnetto della Domenica nella vasca del cesso”.
Io non avevo niente a che fare con tutte quelle donne che facevano poesia, nessuno scrittore scriverebbe di una donna che ha l’imprudenza di spiegargli la vita, quello lo facciamo fare alle nostre madri quando ne abbiamo una che non ci abbia abbandonato nel pieno dei nostri giorni migliori. Ci piace sollevare dalle sofferenze o darne in quantità sufficiente da riempirci l’esistenza di concetti. Le donne che ispirano, le muse, non insegnano nulla di loro volontà, lo fanno per vie traverse e non se ne accorgono, neanche noi ce ne accorgiamo ed è per questo, solo per questo, che impariamo, perché un uomo che ascolta una donna è una bestia castrata d’allevamento, buono per le polpette e per lucidare i vetri.
La costa era diversa, lei mi aveva allevato, mi aveva donato per la prima volta un legame, quel sentimento che non ti permette mai di perderti, che ti dice chi sei, cosa vuoi e dov’è il tuo posto al mondo.
“Te lo ricordi il povero Richard? Ancora oggi porta con sé l’immortale nomea d’idiota perché ha osato sfidare l’impossibile. Beh, amico mio, se tu sei l’impossibile, domani mi vedrai volare con gli uccelli allora, perché sono a metà dell’opera e non sento un accenno di fatica”.
Portare il nemico all’estrema aggressività è scaricarlo dell’energia che gli serve per sconfiggerti, perché al culmine della violenza perdiamo il senno e senza senno sei solo una macchina senza conducente, vai forte, sempre più forte e sbam, arriva che sbatti prima o poi.
Il vento si alzò forte nei pressi dell’estrema punta di Piano Inferno, era lì che viveva, per rendere la vita difficile ai piloti d’aerei. Era il suo passatempo da tirapiedi, come per i bambini grassi picchiare i bambini magri, per i bambini alti dare manate in testa ai bambini bassi.
“Con chi sto lottando, fratello, con te o con i tuoi amici? Non hai abbastanza palle per una gara alla pari? Queste sono le mie braccia” dissi colpendolo con forza, “quelle le mie gambe e ho due polmoni seccati dal tabacco, eppure non ho nessuna barca con me e non ce n’è una nell’arco di un miglio”.
Codardi, mi spinsero sulla scogliera che mi fece un enorme buco sulla coscia sinistra che ancora porto con me, anche se ormai è un solo la scia della ferita che era. Con una gamba nuotai fino alla riva più vicina, sulla spiaggia in cui il povero Richard era stato posato con delicatezza, privo di vita e accudito per trentasei ore dalla sua amata costa.
“Ah, cazzo, potevo farcela Cristo Iddio, potevo farcela” gridai mentre il sale mi seccava la carne. Poi mi alzai, ritornai a riva e vidi che ancora la meta era distante. Mi accasciai al suolo e sentii una fitta al petto.
“Sconfitto”.
“No, Shov, sei vivo nella terra dei morti” sentii una voce femminile sussurrarmi in un orecchio.
Mi voltai, la spiaggia del povero Richard non l’aveva calpestata nessuno dal giorno del suo annegamento, era terribile e splendida come la desolazione.
Ci avrei riprovato presto, ripetei a me stesso, ed è per questo che oggi sono in piedi su questo piccolo scoglio umido.
Mi tufferò tra un attimo, il tempo di dimenticare che sto sfidando l’impossibile ancora una volta.
A.C – Poor Richard
- Sicilia: svolte sul caso Snowden
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A differenza del resto del mondo, i siciliani non vedono di buon occhio chi ottiene il massimo risultato col minimo sforzo, ma è celebrato piuttosto, chi col massimo sforzo, ottiene il minimo risultato.
Un ragazzo, visibilmente invecchiato dal sole, si vanta durante una rasata, di lavorare ben dodici ore al giorno in campagna per ottocento euro al mese.
“A me il lavoro non ha mai fatto paura” (*Io ru travagghiu un m’haiu scantatu mai) dice fiero e i dipendenti in coro lo riempiono di elogi come fosse un capitano coraggioso uscito indenne da una sanguinaria battaglia. Poco distante, un muratore che sta accorciandosi il ciuffo, risponde che lui, da muratore, ne prende 800 sì, ma si fa anche le Domeniche e di certo fatica di più. Neanche a dirlo, il campagnolo ribatte con un secco: “Tu sei pisciabrodo, lavori due mesi e quattro stai fermo, ti conosciamo tutti in paese”. Pisciabrodo (*pisciabroro), nel dizionario di lingua siciliana occidentale, vuol dire perdigiorno. Me ne sto seduto in disparte come un gattino durante una rissa tra Bulldog ammirando le meraviglie della mente umana quando il capomastro, vedendo i miei tatuaggi, i miei orecchini e la mia cresta mi chiede io che lavoro faccio. Spiazzato da tanta maestosità lavorativa, non posso certamente rivelare di aver studiato tre anni come sceneggiatore e di lavorare come scrittore e curatore per editori e riviste, ma sopratutto non potrei mettere in piazza il fatto di esseremi inventato un’attività a vent’anni per ottenere senza fatica, quello che loro ottengono con 372 ore di lavoro mensile, con una semplice ma efficace idea.
“Faccio il boscaiolo” rispondo, “ci alziamo alle cinque del mattino, cominciamo a dare colpi d’ascia agli alberi e finiamo quando tramonta il sole. Non ci pagano, ma possiamo portarci il cinque per cento della legna e rivenderla la notte”.
Stupito, il campagnolo si volta a guardarmi rischiando di farsi mozzare un orecchio. Ho i tatuaggi, ho le spalle larghe e il petto in fuori: perchè mai non dovrebbe credermi?
“E dove lavori?” chiede.
“Ovunque. Questi maledetti bonsai giganti crescono dall’oggi al domani come le zecche sul pelo di un cane, fosse per me abbatterei l’intera Amazzonia e ne fare un enorme posteggio per chi deve recarsi in Argentina”.
Meravigliati dalla mia dedizione alla fatica e dal mio disprezzo per il denaro, m’invitano a sedermi sulla poltrona per il taglio e io mi adagio come un Re per la prima volta sul trono del regno.
“Lavorando fedelmente otto ore al giorno” Timothy Ferris cita Robert Frost nel suo libro, “potresti riuscire a diventare un capo e lavorare dodici ore”.
Il principio è semplice: si lavora per vivere non si vive per lavorare.
Il pisciabrodo, a mio parere, è un aggettivo inventato dai latifondisti per ottenere il massimo dai propri contadini. Quando un capo vi celebra, vi riempie di complimenti, non lo fa per farvi un piacere ma lo fa per garantirsi un servo fedele disposto a tutto per quell’infantile voglia di apprezzamento e considerazione che c’è in ognuno di noi.
Il poliziotto è pisciabrodo, chi lavora alla posta lo è perchè notoriamente raccomandato, lo sono gli universitari che studiano invece di andare a lavorare …
“Io mi sono ritirato a 13 anni dalla scuola media” dice il campagnolo, “per andare a lavorare”.
Un applauso emerge dai cuori dei barbieri in divisa che non battono le mani solo perchè impegnate dalle forbici.
“Io ho fatto le medie serali, fino alle otto ho sempre tagliato legna”.
Mi odia, ma come si odia un presidente.
Poi arriva questo tizio, lo chiamano Zio Ciccio che prende un caffè al distributore, si volta verso il muratore e chiede se ne vuole un goccio.
“E lei, zio Ciccio, che cosa ha fatto nella vita?”
Impassibile come una quercia secolare del Brasile e scavato in viso come la corteccia della stessa, risponde:
“Mi ficcavi i mugghieri ri di curnuti ca passavano i iurnate a travagghiari”.
Mi trombavo, vuol dire, le mogli di quei cornuti che passavano le giornate a lavorare.
Poi lo Zio Ciccio esce e scompare. Mi alzo, lo inseguo perchè voglio stringergli la mano ma si è come volatilizzato.
Forse era solo una splendida proiezione della mia visionaria mente da fantasioso nullafacente, il pisciabrodo che c’è in me, uscito dal mio cuore per un caffè perchè stanco perfino di stare seduto.
A. Cascio – I pisciabroro
La mia Olivetti Studio 45 del 1967
Spazio Fans
Ubriaco di beveroni per pezzenti decido di prendere una bottiglia di Porto in vineria e la pago un sacco di soldi e cinquanta centesimi. La apro e faccio come i sommelier della Borgogna, annuso il tappo, lo bacio e “sa di buon vino” dico al commesso ad alta voce per fargli capire che me la cavo. Poi assaggio quello che doveva essere la mia festa grande e “sa di tappo”, mi lamento e sputo sul bancone.
“Cristo Dio, che razza di Porto è un Porto il cui tappo sa di vino e il vino sa di tappo!”.
Non ha l’aria molto furba, ma l’aria è volatile, cambia in fretta.
“Un vino a rovescio”.
In un glaciale silenzio mi strappa la bottiglia dalle mani, la ritappa e me la ritorna al contrario.
“Ecco signore” dice, “adesso è perfetta”.
E impegnato a non far nulla, fradicio mi reco in nessun posto.
A.C. – Vini a rovescio
That’s all folks baby!
E non dimenticate che un complimento ogni tanto non costa nulla.
Un collezionista è qualcuno che possiede per il semplice gusto di possedere e io da sempre colleziono maschere veneziane e cimeli dei nativi americani come archi, cappelli e altri gingilli. Penserete che sono un tipo strano, ma credetemi, non è per questo che sono strano, ne ho ancora di cose da raccontarvi in questa vita, quelle sì che lo sono …
L’Ara Macao è un grande e coloratissimo pappagallo che vive nei bassopiani dell’America tropicale, decimato per via della caccia e della deforestazione. Adesso ne troviamo alcuni esemplari solo in Bolivia, Panama, Guatemala, Belize, Perù e Honduras. Per gl’Inca era segno di prosperità e ricchezza, la sua assenza era un cattivo presagio.
Gli orecchini che porto ultimamente, difficili da indossare in posti in cui anche solo un brillantino è guardato storto, sono fatti con le sue piume e sono stati importati da un noto cantante peruviano di nome Qary Bastidas, discendente di un’antica dinastia Inca, dinastia decimata, come mi ha spiegato la madre di un’amica, con un metodo che a sentirlo sembra più violento del più crudele degli sgozzamenti. Gli spagnoli semplicemente divisero le donne dagli uomini e così, come tutti gli esseri viventi, gl’Inca si estinsero. Il fatto che ci sia qualche discendente con sangue spagnolo, fa presagire che le donne non furono lasciate totalmente sole.
Sono piume cadute da sole, non tolte appositamente, piume rare fin dagli anni ’60 e che tra cinquantanni non esisteranno più se non alle orecchie di qualche mio nipote. C’erano sette orecchini di piume lunghe di Ara, quattro andati a me, uno andato perso e due spero stiano con chi sa apprezzarlo
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Touch and splat, il fumetto, edizioni ESC/Il Foglio con la prefazione del maestro del cinema Ernesto Gastaldi (sceneggiatore di C’era una volta in America e Pizza Connection) ora anche su: