Cancul – I demoni dell’amore

On 15/06/2015 by alecascio

11251734_10153300146371217_8822188241128529940_n

CANCUL

Me ne stavo seduto scomodo sullo sgabello del bancone del Seven Point a chiedermi perché lo scotch non mi facesse più l’effetto di un tempo.
“Una volta che ti faceva?”, mi domandò Castro.
“Si miscelava ai pensieri, li assorbiva, li dissolveva come zucchero di canna in un Mojito”
Ma adesso, invece, c’avevo un demone in testa e uno nel bicchiere.
“Potresti sempre smettere di bere”.
E io gli risposi che se non ci fosse stato l’alcol avrei vissuto il doppio ma mi sarei divertito la metà.
Castro lanciò un criceto che rimbalzò sulle pareti forate della teca in vetro del boa. Finì in un angolo, freddo, immobile e con un principio di rogna.
“I serpenti non mangiano animali morti” gli dissi e sorseggiai quel grog africano che mi aveva allungato gratuitamente perché, disse, cambiare alcol mi avrebbe aiutato a sbronzarmi come un tempo.
“Costano meno se ne compri dieci. Li surgelo per risparmiare”.
“Devi tenerli in una gabbia e ingrassarli. Devi permettere a Contessa di ucciderlo, devi lasciarle almeno un briciolo della sua natura”.
Strattonò la teca e si lamentò con bestemmie indicibili, si sfogò un po’ giacché eravamo rimasti solo io , lui e l’aura alcolica di derelitti che aleggiava per le sedie del locale avvolgendo i tavoli ancora sporchi.
“Ma ti pare che uno deve dare da mangiare anche al cibo?”.
“Anche ai porci che mangi danno da mangiare, non nascono già cotechini”.
Il demone che avevo nella testa lo chiamavo Mindelo, l’avevo battezzato così perché era lì che l’avevo preso, mentre stavo ballando con una puttana capoverdiana.
La conobbi, le sorrisi, ballai quel ballo erotico che ballano loro per farti venire nelle mutande e al primo coito me ne innamorai. Mi innamorai perché rideva sempre mentre io, dell’arte di ridere avevo perso le istruzioni. Le chiesi di sposarmi e rispose che non vedeva l’ora di fuggire via con me in questa stronza Italia, lavorare e mettere su famiglia. Quando la sposai capii che al suo confronto l’Italia era una vergine appena uscita dal seminario. Da quel giorno tremavo, da quel giorno avevo un feroce mal di testa che non andava via. I medici mi dissero che era solo stress, che avevo bisogno di riposo. Non facevo nulla oltre a bighellonare da quando avevo tredici anni, non m’era mai mancato il riposo.
“E il nervosismo, sarà San Valentino”
“Che c’entra San Valentino?”
“Sa, per quella storia di sua moglie che mi ha raccontato!” rispose il dottore.
Un messicano mi stava aspettando fuori dall’ambulatorio. Lo avevo già intravisto un paio di volte. Mi chiese due secondi per parlarmi.
“Amico”, risposi, “in due secondi tu non riusciresti a dirmi neanche il tuo nome col pessimo italiano che ti ritrovi”.
Mentre m’incamminavo verso l’uscita mi misi a contare e quello ne approfittò per dirmi che avevo un demone in testa. Due secondi netti, ci mise. Aveva ragione lui. Saltò articoli e coniugazioni e al terzo secondo era già ritornato silenzioso.
“Cosa ne sai tu di cos’ho in testa? Vuoi vendermi merda come fate voi messicani?”
“No”, disse, “voglio solo sapere come lo sconfiggerai, se ci riuscirai”.
Allungò la mano e mi diede un biglietto da visita: “Questo è il mio numero”.
Pensai che se gli avessi telefonato mi avrebbe di certo clonato il cellulare.
“Cos’è, vuoi clonarmi il cellulare, mezzonegro?”
Presi il suo numero, era scritto s’un biglietto da visita da avvocato. Pensai che i distributori di quella della Standa avessero finito le carte glitterate e quelle con l’effige dei Rolling Stones. No, non era un avvocato.
Quando Cesaria mi lasciò non ne capii il motivo, così la seguii mentre con la “mia” auto si muoveva per le strade della “mia” città fino ad arrivare alla pasticceria dove “io” le avevo trovato lavoro. Stava facendo carriera insomma.
Ogni giorno mi sbarbavo ed entravo a fare colazione. Salutavo il mio amico Graziano e mi sedevo a leggere il giornale. Lei era visibilmente a disagio i primi tempi, ma poi ci fece l’abitudine e cominciò a far finta che non ci fossi e a darmi anche del lei.
“Ho 35 anni, non mi dare del lei”.
“Ai clienti si dà del lei, è la regola!”
“E a quelle come te si dà della puttana, anche questa è una regola”.
Quando il mio amico Graziano mi prese a schiaffi come si prende a schiaffi un bambino, quale fosse quella nuova vita che stava cercando lontana da me. Era piccola e tozza e traballava nelle mutande di Graziano. Da quel giorno le cose peggiorarono e la testa cominciò a farmi sempre più male, ad ogni pensiero, ad ogni attacco d’ansia, ad ogni minimo accenno di gelosia.
I primi tempi cercai di circondarmi di amici, non perché fossi un compagnone, ero un misantropo fin da piccolo, semplicemente mi piaceva pensare che qualcuno sarebbe venuto al mio funerale.
Ma l’unico numero che avevo in tasca era quello di un messicano che si fingeva avvocato.
“Pronto, sono il tizio a cui hai dato il numero.”
“Scusami” sentii, aveva la voce fievole e strozzata da conati di vomito.
“Ti senti bene, amico?”
“Per nulla” rispose, “la mia ex ha chiesto l’affidamento dei bambini e il demone mi sta crescendo dentro. Aiutami”.
Ero io ad aver chiamato per un aiuto, ma adesso dovevo recarmi da uno sconosciuto per tenergli la fronte e ascoltare i suoli lamenti. Lo raggiunsi, forse almeno sarei morto in compagnia.
Viveva in un ricco quartiere, doveva smerciare qualcosa di costoso per potersi permettere un appartamento lì.
La ragazza che camminava a testa china fumava nervosamente la sua sigaretta a pieni sospiri come se arrivando in fretta al filtro avesse trovato una sorpresa. Mi scontrai con lei che non guardava altro che i suoi piedi annebbiati dal fumo.
“Scusami” disse, ma mentiva. Non aveva proprio la faccia di una sbadata pentita.
“Sai dove vive l’avvocato messicano?”
“Perché lo cerchi? Non sa provare amore quello!” e mi accarezzò il viso con mano leggera scorticandosi i palmi sulle mie guance barbute.
“Mica mi ci devo innamorare! Sai dirmi dov’è?”
“Perché lo cerca?”, mi chiese uno sbirro che aveva assistito alla scena dalla sua auto.
“E’ un amico”, risposi.
“Che genere di amico?”.
Iniziai a pensare che il messicano fosse una specie di travestito.
“Di quel genere che non sai neanche dove abita e come cazzo si chiama e da cui non vorresti mai farti inculare”.
Lo sbirro mi prese per un braccio, chiamò un altro porco della sua razza e mi spinse ad andare con lui. Disse al collega un po’ di cose su di me che nemmeno io sapevo: “Porti quest’uomo all’ospedale, è un intimo amico della vittima, sarà in grado di riconoscere Herrera. Poi fagli mettere una firma e possiamo andarcene a casa a dormire. Ma prima gli dia un calmante, è in stato confusionale”.
“Sono cosa?”
Avrei volentieri cercato di spiegare al giovane che io il messicano non l’avevo visto che una sola volta, ma poi chi glielo diceva, a quello, che mi aveva parlato di un demone che aveva in testa, che mi aveva detto che l’avevo anch’io, che l’avevo scambiato per uno che voleva clonarmi il cellulare, che gli avevo telefonato perché non avevo amici. Mi inventai che il messicano lo incontravo spesso al supermarket di fronte e che col tempo si era creata una specie di amicizia alla lontana.
“Lei vive qui vicino?”, mi chiese lo sbirro.
“No”, risposi, “vivo dall’altra parte della città, ma dove sto io non hanno le patatine Crunchy”
Mi sedetti sul sedile posteriore e risposi al suo quiz durante il tragitto.
“Lei l’ha mai visto nudo?” fu una delle domande da ventimila euro.
“Sono eterosessuale, io” alludetti a una sua presunta omosessualità, ma non capì l’ironia.
“Al calcetto, nelle docce, durante una pisciata per strada, ci sarà qualcosa che conosce di lui oltre alla sua faccia”.
“Degli uomini mi basta la faccia e a volte è anche troppo” risposi.
Lo sbirro non rise, smisi quindi di essere ironico, una virtù che ha la gente triste come me.
“Gli è scoppiata la testa” disse, “spero che ci siano altri dettagli di lui che le sono rimasti impressi”
Il tremore ritornò. Il mal di stomaco non se n’era mai andato ma si fece più violento. Herrera diceva di avere il mio stesso problema e per un attimo mi immaginai esplodere spargendo di cervella uno sbirro e la sua auto. Sorrisi, avevo paura ma sorrisi. Era il terzo sorriso quell’anno.
“La donna che è uscita dal palazzo, quella con cui parlavo prima, lei lo conosceva. Potreste chiedere a lei” balbettai e mi improvvisai detective: “Mi ha detto che il messicano non sapeva amare. Potrebbe averlo ucciso lei. Omicidio passionale!”
“Nessuna donna è uscita dal palazzo, è da ore che lo teniamo d’occhio.”
“Stavo parlando …” dissi, ma non mi fece finire.
“Da solo. E’ in stato confusionale. Ha preso qualcosa prima di venire qui?”
“Nessuno si droga prima di andare da un messicano, sarebbe come andare all’Oktober Fest già ubriaco”.
Chiesi allo sbirro di accostare, che non avrei mai potuto riconoscere nessuno che non avesse una faccia. Lo fece, voleva liberarsi di me in qualche modo e mi lasciò libero di andare senza neanche chiedermi se volessi un passaggio a casa. Avrei risposto di no, ma è il gesto che conta.
Mi precipitai da Castro e mi abbassai i pantaloni.
“Guardalo, Castro, guardalo bene”.
Mi tirò un pugno sul naso e caddi in terra tramortito. Affogai la testa nel piscio che Castro non lavava mai via perché, diceva: “Lavare un cesso per ubriaconi che non centrerebbero il buco del culo di una troia è stupido come dare da mangiare a un sorcio”.
“E’ per riconoscermi in caso mi scoppiasse la testa”, dissi, “non sono frocio”.
“Non fa nulla”, mi rispose, “te lo meriti lo stesso per un motivo o per un altro”.
Mentre cercavo di raggiungere casa sua, Herrera mi urlava al telefono che un demone stava crescendo nella sua testa, un demone vero, non quelli astratti che usavo immaginare quando le fitte diventavano insopportabili e che io per gioco avevo chiamato Mindelo.
Il demone si chiamava Cancul e nasceva dentro tutti coloro che non riuscivano a smettere di pensare alla propria donna, era un virus del mal d’amore.
Piccolo e marrone, si cibava di gelosia e di compianti, di solitudine.
“Sei sicuro di non aver bisogno di un medico?”
“Non possono farci nulla, non si mostra ad altri che alle vittime”.
Non gli credetti, ma per un paio di chilometri ascoltai una storia interessante su un ragazzo azteco e la sua sgualdrina.
“Cancul si chiamava, il rampollo di una tribù destinato a diventare un grande capo. Disperato per aver perso la propria donna, si ritrovò faccia a faccia con Xochipilli che stava per inebriarlo del fumo della passione. Il Dio azteco dell’amore era un oppiomane, si faceva di tutto, ed era così che faceva innamorare la gente, offrendo droghe. Nella statua di Tlamanalco, il Dio azteco è seduto in un tempio circondato da funghi allucinogeni, tabacco e altre piante dalle proprietà eccitanti. La figura è seduta sul piedistallo a gambe incrociate, la testa leggermente sollevata, gli occhi aperti, la mascella inferiore protesa e la bocca semiaperta.”
“Devi presentare il tuo Dio al mio” risposi, “ha bisogno di rilassarsi un po’”.
Di sottofondo un campanello suonava ininterrottamente, una colonna sonora irritante per un racconto così coinvolgente. Gli chiesi di aprire la porta prima di continuare.
“Non posso, ti spiegherò quando arrivi”
La storia di Cancul continuò tra un marciapiede e un altro.
“Il giovane azteco fermò Xochipilli, gli disse di non voler più provare quel sentimento, non voleva mai più amare. Il Dio dell’amore, che mai nessuno l’aveva visto in faccia, chiese perché e quello rispose che l’amore faceva star male gli uomini.”
“Non aveva tutti i torti, non credi?”
“Xochipilli però sosteneva il contrario e ne venne fuori una scommessa”.
Chiesi una sigaretta a un passante, un tipo allegro disposto anche ad accendermela.
Dissi grazie, ma mentivo.
“Senti, cantastorie, è da mezz’ora che giro in tondo. Dov’è che vivi di preciso?”
Ma lui finse di non sentirmi.
“Cancul, amico mio, si impossessa delle persone che hanno perso l’amore. Capisci?”
“Oppure quella roba che smerci è tagliata male, avvocato!”
“Stanno giocando con noi, amico, capisci cosa intendo?”
Il giovane azteco chiese al suo Dio tossico le menti di tutti gli uomini che lui aveva fatto innamorare col fumo della passione e che per quello avevano sofferto. Xochipilli, in preda a un fungo allucinogeno, rispose che chi sa amare torna sempre ad amare. Insomma, il Dio dei figli dei fiori esisteva, ma a volte gli sfuggivano piccoli scorci di vita elementari. Accettò la scommessa sicuro che nessuno sarebbe mai morto d’amore e così adesso mi ritrovavo con l’incarnazione di un cornuto arrabbiato infilato in testa, almeno secondo le storie del messicano.
Il finale della favola, la parte più interessante, saltò perché ad certo punto sentii un lamento e a quanto pare la testa di Herrera esplose nella doccia.
Il campanello suonò ancora un paio di volte e poi più nulla.
L’ansia mi assaliva, la capacità dell’alcol di stordirmi si era ridotta notevolmente. Non avrei voluto fare la stessa morte del messicano, ma a quanto pareva non avevo scampo. Avrei dovuto smettere di pensare alla mia ex moglie e farlo morire di fame proprio come il boa di Castro costretto a mordicchiare topi surgelati.
“Tu li hai studiati gli Dei, Castro?”
“Sono ateo”.
“Ma che c’entra”, risposi, “parlo dei vecchi Dei”.
“L’ateismo non ha età, amico mio”.
Spiegai a Castro di questo tipo messicano a cui era scoppiata la testa e di tutta la storia che mi aveva raccontato, ma lui se ne stava impalato di fronte a me facendomi notare che una cosa marrone stava uscendomi dal naso.
Presi un fazzoletto e cercai di pulirmi.
“Che cazzo è?” urlò Castro allontanandosi e puntandomi contro le gambe in legno di una sgabello da bancone.
Dal mio naso penzolava una squamoso prolungamento del posteriore di Cancul, che quieto se ne stava nella mia testa ad aspettare che con le mie paranoie mi facessi scoppiare il cervello, che lo alimentassi tanto da farlo diventare grande e grosso e farmelo spuntare fuori dal cranio come una ballerina da una torta a sorpresa. Chissà dove se ne sarebbe andato dopo.
Per la prima volta gli parlai. Gli chiesi con garbo se potesse rientrare quella coda orribile perché mi stava bloccando il respiro. Scoprii che i Cancul ascoltano le loro vittime. Castro invece corse via e mi lasciò solo nel locale. Mai lasciare un ubriacone morente solo in un locale.
Mi avvicinai alla porta d’entrata per assicurarmi che non tornasse in tempo per beccarmi a bere il suo bourbon e vidi a pochi passi da me una ragazza sui venticinque che stava tenendosi la testa come se stesse per caderle. Con voce rauca mi disse: “Tieni” e mi allungò uno di quei fogliettini che ti dicono che il negozio di mobili all’angolo vende mobili, che il negozio di vestiti sulla piazza vende vestiti e quello di elettrodomestici vende elettrodomestici.
“No” le dissi, “so dove comprare un mobile se mi serve”.
“E anche dove cercare l’amore?”
Sembrava sola e spaventata. Al buio a spartire volantini per un’agenzia “amica cerca amico”. Le dissi che pagare per trovare un amico è stupido e lei ammise di essere d’accordo.
“Ma guadagnare venti euro l’ora per convincere gli altri che non lo è, lo trovo scaltro”.
La sua ironia mi colpì. L’ironia è la più grande dote dei tristi.
“Visto che è ancora San Valentino, che io sono solo e anche tu lo sei, visto che a quanto pare per stanotte sono il nuovo gestore di un bar poco frequentato… che ne dici di bere qualcosa assieme?”
Prese lo zaino viola, ci infilò dentro i volantini e mi disse che non mi sarebbe convenuto pagare.
“Di quella roba ne berrei a litri per ora”.
“Pene di San Valentino?”
“Odio questo giorno più di qualunque altro”.
Le mostrai il locale e le dissi che aveva solo l’imbarazzo della scelta.
Aveva un bel viso, ma lo nascondeva dietro alle smorfie di dolore, alla testa china e ai capelli ricci e folti. Bevemmo del grog parlando dei nostri amori falliti.
“Ti conosco?” le chiesi.
“No” rispose, “sono argentina, sono qui da poco”
“Sei sicura?”
“Sì” ribatté, “ricordo di essere nata lì!”
La portai a letto dopo un paio d’ore. Non era proprio un letto, ma un materasso nel retrobottega di Castro adagiato sul pavimento per la pausa pomeridiana. Feci l’amore con lei tutta la notte, la baciai e dopo esserle venuto in faccia come se l’amassi le dissi:
“Buon San Valentino”.
Lei di contro mi passò una mano tra i capelli e rise. Mi disse che a volte i demoni, quando vanno via, sono più silenziosi degli angeli. Il mio Cancul era scomparso, aveva lasciato la mia testa, forse divenuto troppo piccolo, ed era uscito dalle narici senza che me ne fossi accorto.
Lo vidi seduto alla nostra destra. Non era male, non aveva quell’aspetto orribile che gli avevo attribuito. Si alzò e cominciò a giocare con Contessa. Decisi che l’avrei tenuto con me, i suoi occhioni grandi mi davano l’impressione di un cucciolo smarrito.
Scattata la mezzanotte la sveglia suonò “Make the Knife”. Mi ripulii gli occhi dalla merda che c’era dentro e chiesi alla giovane argentina di cui non conoscevo neanche il nome se vedesse anche lei quello che vedevo io.
“E’ carino, non credi?”
“Carino un cazzo” rispose, “questo figlio di puttana mi renderà la vita difficile per l’eternità!”.
Nuda con in dosso un solo stivale, prese un coltello e si avvicinò al cucciolo.
“Aspetta, cosa intendi fare?”
“Non so, magari ammazzarlo come ha fatto con il messicano”
Cancul mi guardò, aveva le squame, ma somigliava più a un cane su due zampe e con le unghia finte.
Non era feroce, era solo la vittima dei nostri pensieri e di un Dio drogato che li aveva rinchiusi dentro le teste dei cuori infranti.
La giovane si accese due sigarette e le mise in bocca entrambe. Tirò e poi si rivolse al piccolo mostriciattolo:
“Anche per questo San Valentino mi hai dato del filo da torcere tenera testa di cazzo!” e lo schiacciò col tacco dello stivale senza curarsi delle sue urla. In pochi secondi il parquet si era riempito di budella e sangue.
Guardai sbigottito. Da piccola e docile era diventata una bestia feroce.
Si grattò il sedere, si voltò verso di me e disse: “E tu, sfigato, vedi di innamorarti presto e di aiutare i tuoi amici a trovare una donna, che non posso venire a scoparvi tutti quanti ogni 14 Febbraio!”
M’aveva fatto innamorare per liberarmi dal demone, ma un altro me ne sarebbe entrato in testa appena varcata la soglia del bar.
“Sei Cupido?” le domandai.
“Non dire stronzate, sono solo un Dio che ha esagerato con l’oppio!”
Mi fece ciao ciao con la mano e se ne andò.
“Aspetta Xochipilli” gridai, ma si era già incamminata per non so dove, barcollante e strafatta a urlare contro un certo figlio di puttana indefinito.
Volevo solo dirle di rivestirsi, prima di uscire.

Alessandro Cascio

Potete acquistare i miei romanzi in libreria, su www.ebay.it, su www.ibs.it, www.lafeltrinelli.it, www.inmondadori.it o su www.libreriauniversitaria.it

Trovate TUTTI i miei libri editi e inediti solo su:

Touch and splat, il fumetto, edizioni ESC/Il Foglio con la prefazione del maestro del cinema Ernesto Gastaldi (sceneggiatore di C’era una volta in America e Pizza Connection) ora anche su:

Comments are closed.