I’m on fire

On 15/06/2015 by alecascio

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I’M ON FIRE

Di fronte a me, Burton Connelly se ne stava a capo chino a leggere i suoi fascicoli rintronato dai tranquillanti, ammosciato da una brillante carriera prossima alla pensione. Ero stato il suo compagno per dodici anni, poi il vecchio si era beccato una pallottola al ginocchio per salvare una delle tante puttane del sindaco dalle rivoltellate di un tossico. Ed ecco, l’ex agente Burton, a scaldare il trono del Re.
“Ti piace davvero quello che fai?” dissi cercando di smorzare il silenzio.
Quando si è di pattuglia non si sta mai in silenzio, non puoi permettertelo, il tempo passerebbe lento come un novantenne che attraversa sulle strisce e che non puoi investire nonostante il semaforo sia già verde alla metà del suo tragitto. Mi sono già informato, la colpa sarebbe comunque del conducente.
Bisogna stare sempre con la guardia alta, per questo non ci sono muti nel nostro corpo, perché con un muto non puoi parlare di come al Caffè Italia il latte parzialmente scremato sembri acqua mischiata a polvere di gesso, del fatto che gli italiani per mantenersi in forma rinunciano alla magnificenza di un doppio cheeseburger, all’insostenibile fascino di un hot dog e crauti o all’avvenente dovizia di piacere di un sandwich stracolmo di burro d’arachidi. Gli italiani se ne stanno lì, figli dell’alta moda e delle acque termali, seduti a bere il loro latte privato del latte, i loro formaggi privati del formaggio, le loro brioches private dello zucchero a velo e tutto ciò che di unto Dio ha consacrato in questo magnifico paese ma al netto del tocco divino: il grasso.
Per questo, al quartiere spagnolo, gli italiani vengono disprezzati da qualsiasi donna o travestito.
“La vera donna vuole vedere i peli nel petto e la pancia sporgente, non vuole aspettare fuori dal bagno il proprio uomo intento a spuntarsi le sopracciglia” mi disse Jasmine guardandomi con gli occhi di chi sta osservando un vero americano.
Al sesto piano del palazzo vecchio di Tacoma Street, le finestre erano sbarrate da mesi.
L’appartamento di Mouslovack era andato a fuoco, lentamente le fiamme lo avevano inghiottito, poi si erano diramate per tutto il pavimento in legno fino alle scale producendo una fiammata tale che nessuno, in quella corte principesca piena di sgualdrine, si era salvato oltre la bambina di lui: Ilinka.
Se fossi stato il medico di quella povera anima avrei pensato a come strapparle una lacrima.
Non piangeva, Ilinka, nascondeva il viso come fosse una modella sfregiata, come avrebbe fatto ogni donna che ha appena perso la propria bellezza. Stava in piedi a schiaffeggiare chiunque le si avvicinasse, camminava per la stanza come fosse strafatta di eroina afferrando i giocattoli che “I figli dell’alce” l’associazione dei senza famiglia le avevano fatto recapitare. Li prendeva uno ad uno, li osservava attentamente e poi li riponeva nella scatola. Nessun gesto inconsulto, nessuna emozione, eppure aveva visto i corpi carbonizzati di centinaia di persone, aveva visto il fuoco entrare dentro le bocche spalancate dei ricchi imprenditori festaioli che avevano cercato di trarla in salvo e prenderne possesso tanto da deformarli e poi polverizzarli fino alle ossa della colonna, del femore e del cranio le uniche a rimanere visibili, le più forti, anche se inspiegabili erano quei piedi trovati intatti della donna carbonizzata che giaceva accanto alla piccola.
Capelli folti, ricci e lunghi, attaccati ad una piccola cima bombata di teschio e due favolose caviglie con degli esagerati tacchi a spillo. Poi nulla, solo un mucchio di cenere.
Ilinka stava giocando con uno di quegli scheletri di plastica, solo con quello, tra la miriade di bambole.
“Chi sceglie i giocattoli per la bambina?” chiesi a Jasmine dopo essermi avvicinato alla piccola con il volto riparato per via dei violenti schiaffi che, nonostante fosse minuta, indovinavano il colpo al primo tentativo.
“Nessuno, arrivano in scatole blu o rosa a secondo del sesso, è finito lì per caso. Adesso lo tolgo”.
Fermai l’infermiera spagnola amante del macho americano e la spinsi ad osservare Ilinka simulare la scena dell’incidente.
Attraverso il gioco stava finalmente parlando.
La sua manina teneva stretta lo scheletro che barcollando correva verso una bambola. La bambola era lei, lo scheletro suo padre. Ma c’era una seconda bambola, una Barbie senza un braccio che spinse in terra lo scheletro e la portò via.
“Pensi che ci svelerà qualcosa?” chiese Jasmine osservando a braccia conserte come un agente investigativo d’annata. Le mancava un sigaro ed una giubba marrone al posto del camice.
“Mi svelerà! Lo svelerà a me, tu sei solo un’infermiera”
“Cosa vuol dire, solo” chiese Jasmine, “abbiamo lavorato assieme a questo caso, no?”
“Ti ho solo detto di prendere appunti sul suo comportamento”
“Non è compito di un’infermiera, sai?”
Non mi avevano affidato nessuno, Burton se n’era stato seduto evitando di rispondere a quella domanda che io non smisi di porgergli, per farlo incazzare, per fargli un dispetto.
“Allora, Burton, ti piace o no quello che fai?”
“Ho la mia età, Steven, e una rotula d’acciaio, non c’è posto migliore per uno come me.”
Io non avevo alcuna rotula d’acciaio, non avevo nulla d’acciaio oltre la pistola che mi era stata tolta e l’intelaiatura della poltrona in cui ero stato costretto a sedermi dopo il casino combinato al Queen’s.
Mi avevano ordinato di sventare un attentato: un uomo di colore, di religione musulmana, media altezza, capelli scuri e ricci. Siete mai andati nel Queen’s? Non troverete uno che non sia nero, senza togliere il fatto che i neri sono quasi tutti riccioluti e non ci sono biondi, no cazzo, non c’è un nero biondo sull’intero pianeta terra. Così le manganellate passarono anche per le teste di chi con l’attentato non c’entrava nulla. Invece di darmi la medaglia per aver trovato l’ago nel pagliaio, mi tolsero distintivo e pistole e mi misero in archivio per abuso di potere.
“Devi placare questa rabbia, Steven, accidenti a te” mi disse Burton e poi mi mise a spillare le sue pratiche.
Ora mi trovavo senza una rotula d’acciaio a fare quello che fa uno con una rotula d’acciaio.
“Ed io? Sono ancora attivo io, perché cazzo me ne sto seduto a una scrivania?”
Burton leggeva il suo rapporto e non rispondeva, non avrebbe risposto neanche se avessi dato dello stronzo ai suoi figli, eravamo come fratelli, è così che si diventa quando ci si guarda le spalle a vicenda per dodici anni. Ero sicuro che non fosse partita da Burton l’idea di mettermi alla sezione archivi, ma lui poteva rimettermi in strada se avesse voluto. Lo fece con una carezza, dopo avermi dato la pistola, ma mantenne la mano sopra fino a levarla di scatto come se avesse beccato la scossa, forse preso da una scarica di dignità. Ogni tanto anche gli storpi ne hanno una.
Non si accarezzano gli amici, al massimo si dà loro una pacca sulla spalla.
“Cos’è quel pezzo di carta che hai in mano?”
“Quello che mi porta a pensare che tu sia la persona giusta per questo caso”
“E quella faccia triste?”
“E’ la faccia di uno che non sa cosa pensare”
Ottenni la mia arma ma nessuno a pararmi il culo di pattuglia, le indagini erano mie e… adesso anche di Jasmine che si lamentava di non essere abbastanza chiamata in causa e ringraziata per il lavoro che stava svolgendo, gratuitamente, solo per me.
Le diedi un bacio sulla bocca e le dissi di stare in silenzio. Sentii un brivido sulle sue labbra.
La bambina era in piedi di fronte alla scatola dei giochi. Mi osservò come fossi un novellino al suo primo caso: gli occhi di chi ha visto la morte rischiano di rimanere due palle incastonate sulla faccia. Ilinka cominciò a frantumare la Barbie, a farla in mille pezzi, mentre la bambola che la rappresentava nel gioco dei transfer se ne stava da un lato con il sorriso di pezza, come se ormai non contasse più.
Jasmine cercò di farla smettere: “Devo darle un tranquillante”
“Sta simulando quello che ha visto. Se stesse semplicemente giocando non sarebbe stata così accurata nei dettagli”.
“Dici che è stata lei a dar fuoco alla donna che aveva accanto?”
“No, non dico questo, sei tu la dottoressa qui, sei tu che devi capire”
“Non avevi appena detto che sono una semplice infermiera? Può arrivarci da solo, ispettore”
Mi accesi una sigaretta sicuro che ad Ilinka, dopo tutto il fumo inalato, non avrebbe dato alcun fastidio e Jasmine, in realtà meno professionale di me che picchio i neri del Queen’s e non li distinguo come non distinguo i cinesi, non disse nulla.
“Ci arrivi, ispettore?”
“Sappiamo chi rappresenta lo scheletro, la Barbie e la bambola, ma non sappiamo comunque un cazzo di niente sulla vicenda”
La Barbie era ormai in mille pezzi. Era un mio sogno ricorrente eliminare ogni feccia di questo pianeta in quel modo atroce, ma non pensai che la bambina stesse cercando di avverare i miei sogni, piuttosto, di trasferirmi i suoi incubi.
La bambina la rinvennero appollaiata in un angolo, coperta di cenere, con una sola bruciatura al viso, ma nulla più. Il cunicolo in cui fu trovata aveva una spessa lastra di ferro che non permetteva all’aria di uscire e al fumo di entrare. Lungo lo scavo, dei tubi per lo scolo davano sull’esterno facendosi spazio attraverso il cemento. La piccola era lì, con la bocca ancora attaccata ad uno di quei tubi, a respirare lentamente, come qualcuno le aveva detto di fare. Era troppo piccola per salvarsi da sola. La donna che era con lei, la Barbie: quella doveva essere stata la sua salvezza. Ma chi poteva averle dato fuoco in quel modo? Nessun altro uomo poteva essere uscito da lì, nessuno era entrato, non ce n’era traccia né nel cunicolo né nei giochi della bambina.
“Credi che sia stata lei ad ucciderla?”
“Non so, sembra assurdo” dissi: “Non so!”
Ilinka aveva i capelli ondulati e biondi che le scendevano sulla schiena. Un vestitino bianco da notte che le arrivava ai piedi la faceva somigliare davvero a quella bambola portata via dai mostri delle sue fantasie. Io, invece, le mie le stavo passando a Jasmine, durante il mio turno di notte, nel ripostiglio, il luogo dove ogni infermiera del mondo fa sesso, secondo solo alla scrivania di un medico.
Dovevo liberarmi per un po’ da vecchi fraintendimenti, da amici persi in battaglie metropolitane, da inimicizie, solitudini, passati inesplorati ed enigmi irrisolti. Freud inventò la psicanalisi per affrontare tutto quello, ma prima di lui, Dio aveva inventato il sesso. Ed era l’unica psicoanalisi che la mia mente aveva riconosciuto efficace.
“Ti piaccio, Steven?” mi chiese Jasmine mentre le penetravo quel grosso culo spagnolo.
Non ebbi il coraggio di risponderle che in quel momento l’avrei fatto con chiunque mi avesse dimostrato sottomissione. Le dissi di sì, sperando che smettesse di chiedermelo, così da non dover interrompere l’eiaculazione per via dei sensi di colpa.
Sentii una sua esclamazione di dolore.
“Scusami” risposi, “a volte non so contenere la mia veemenza”
“No, non sei tu, devo essermi bruciata da qualche parte”
Il mio animo da macho americano si placò, ma non il mio entusiasmo e cercai di farle ancora più male.

Il palazzo vecchio di Tacoma si trovava di fronte a lampioni che lampeggiavano come se stessero per esplodere. Era nero come la notte, il cielo piovoso aveva tentato di ripulirlo più volte, ma quella fuliggine era rimasta attaccata alle pareti, alle insenature tra un mattone ed un altro, come a voler rivendicare il diritto di proprietà su quei morti, gente colta nel sonno, che in alcuni casi non si era neanche svegliata per osservarsi morire e godersi l’ultimo spettacolo concesso a un essere umano. Immaginavo le fiamme arrivare sui lettini dei bambini dell’appartamento A27 come un’onda marina, attraversandoli per intero, lasciando solo una forma fanciullesca sulla cenere sparsa sulle coperte. Poi immaginavo i miei genitori, bruciati nell’inferno del fienile di Madville e ai piedi di mia madre intatti che giacevano tra la cenere. Se Burton aveva affidato a me il caso perché pensava di farmi così riscattare dal passato, si era sbagliato. Non è ricordando che si affrontano le proprie paure, ma soltanto spalancando gli occhi sul presente, picchiando i cattivi e scopandosi le infermiere. Il mio presente, adesso, si era di colpo tramutato in passato, lì, di fronte al palazzo di Mouslovack. Dietro di me la pioggia sembrava scandire ancora di più il rumore di passi smorzati dalle pozze d’acqua sulla strada malmessa, ma ne confondevano la provenienza.
“C’è qualcuno?” chiesi.
Ma se mi avevano inseguito fin lì, non era di certo per rispondere alle mie stupide domande.
Impugnai la pistola ma non feci in tempo a sparare che un diavolo vestito da angelo mi mandò nel mondo dei sogni con una randellata sulla nuca e un’iniezione. Pensai di morire, vidi il buio e bestemmiai. Se la morte fosse stata quella, non ci sarebbe stato nulla da temere: era come farsi di una forte dose di Valium. Quando aprii gli occhi e scoprii di non essere morto capii che dovevo imparare ancora molte cose sulla morte e sul Valium. Di fronte a me l’angelo che mi aveva addormentato e dietro di lei un gruppo di persone che mi guardarono come fossi un alieno. Ma non lo ero, almeno non sapevo di esserlo, visto che mi era spesso capitato di sentirmi un estraneo tra gli esseri umani.
“Chi siete?” chiesi con la bocca impastata della mia saliva rappresa.
“Non abbiate paura, noi siamo i buoni”
“Se i buoni mi legano le braccia a delle corde, i cattivi allora che fanno?”
“Ti ci legano il collo e ti appendano un una trave, come questa” rispose l’angelo, che iniziò lentamente a slegarmi, sicura delle mie poche forze e del suo bel faccino rassicurante. C’erano taniche di benzina ovunque, la puzza mi sborniava a tal punto da inebriarmi più del Valium, ma quello che più mi faceva incazzare era il modo in cui il tizio senza capelli si presentò:
“Sono il Dottor Gos e siamo qui per aiutarla. Sospettiamo che anche lei come noi abbia il fuoco dentro!”
Ricordarti che sei incazzato dopo una botta in testa, un’iniezione e una corda spessa, non era il genere di aiuto che dovrebbe prestare un medico in America, anche se il sistema sanitario era ormai andato a rotoli fin dai tempi di Reagan.
La gente sorrideva, seduti attorno ad un tavolo sorseggiavano té freddo e mangiavano patatine fritte come fosse una piccola festa tra amici in un serbatoio di un camion di carburante. Io puzzavo, ma anche loro, non mi lamentai quindi.
“Il fuoco dentro?”
“Sappiamo bene chi è e da dove viene, Steven Reeser, e siamo qui per rivelarle tutto ciò a cui non ha mai saputo dare risposta”
“Mi spiegherete come Copperfield è riuscito a far sparire la statua della libertà?”
“Non proprio”
“Allora, dottore, non c’è nient’altro che lei ed i suoi amici incazzati possiate fare per me”
Mi ero sempre chiesto se ci fosse una vita dopo la morte, ma poi le squallide vie del mondo mi avevano portato a domandarmi se ci fosse davvero una vita prima. Mi ero chiesto cosa aveva portato la mia ex compagna a tradirmi, come fa un aerobus di migliaia di chili a levarsi come una piuma e poi, mi ero chiesto cosa porta la gente a credere nella magia, ma avevo trovato la risposta: quel desiderio d’ignoranza, paura della scoperta di una vita matematica e scontata. La magia dava un valore anche alle cose più impensate. Per questo, a Madville, gli incendi erano affidati ai Mescalero venuti fin laggiù dalla riserva del lago Temagami ad esorcizzare il borgo, piuttosto che agli agenti federali. Spostatisi dal freddo Ontario per portare la loro cultura e vendere piccoli tesori fatti d’osso di orso bruno e becchi di aquila, arrivavano coperti di pochi drappi e pelli di bisonte che dovevano aver tramandato da generazioni, vista la puzza.
“Ossi di cane e becchi di uccelli morti, sono” diceva mio padre gettando in terra le loro cianfrusaglie aborigene.
Mia madre diceva di non avere altra scelta oltre loro e raccoglieva da terra i piccoli talismani, assieme alla propria dignità, schiaffata via da un vecchio mezzadro figlio di figli di Irlandesi. A questo, almeno, attribuivamo la focosità di mio padre.
Tutta Madville era sottomessa agli indiani. Compravano, pagavano fior di quattrini e prendevano cataste di opuscoli, offrivano loro da mangiare e al più vecchio, allo sciamano, davano polli interi che lui divorava seduto a gambe incrociate, senza nemmeno ringraziare. Le donne fumavano tabacco e parlavano dei cinematografi e di quanto Dean fosse meglio di quella faccia da fesso di Humphrey Bogart, fino a quasi azzuffarsi tra le riviste che sfogliavano a gambe aperte sui cofani delle loro sbiadite Eldorado. Nonostante quelli non avessero l’aspetto di maghi ma erano più simili ai pescatori di Blasdell, si diceva che avessero la conoscenza della magia e soprattutto di quel fuoco che aveva devastato i raccolti e aveva misteriosamente ridotto in cenere mia nonna e altra povera gente di Madville.
“Troppo alcol e vita sregolata” sosteneva Padre Syracuse, ma nonostante i suoi sforzi di riprendere una cittadina devastata dalle puttane e dalle droghe, nessuno l’ascoltava, ma quel ch’era peggio, avevano preferito alla parola di Dio, quella di puzzolenti aborigeni strafatti di Peyote.
“Lophophora Williamsii” disse il grassone che spolpava polli come fossero zucchero filato appiccicato ad uno stecco da cinque centesimi, “il Peyote ci è stato vietato, adesso usiamo i cactus per i nostri riti” e dopo un rutto, ma senza scuse al seguito, accendeva il fuoco e dava il via alle danze. Mia madre stava vicino a lui, così come i parenti delle vittime degli incendi. Tutti stretti attorno allo sciamano, con quegli occhi trasbordanti e quegli ululati strozzati da un esofago gonfio per il troppo cibo ingurgitato.
Gli uomini guardavano le sgualdrine impiumate ballare attorno al falò, mezze nude e truccate di rosso. Ricevetti in piena nuca una sberla da ventuno centimetri dalla punta del pollice a quella del mignolo, tanto era grossa la mano di mio padre, che mi esortava a guardare lo sciamano: per le danzatrici del fuoco ero ancora troppo giovane.
Io avevo sostenuto il contrario, visto lo squallido spettacolo del grassone.
Sapevo che quella era una razza in via d’estinzione e con un occhio continuai ad osservare. Avrei potuto non vedere mai più cose simili.
“Il fuoco” gridò lo sciamano che aveva appena digerito alitando la sua saggezza sulla testa della gente di Madville disposta in cerchio: “Il grande mistero wakan non può essere tradito, per questo vi esorto al rispetto della vita”.
Gli indiani adoravano il fuoco, per loro era il simbolo della vita, la grazia del Sole, la forza. La danza del fuoco era l’omaggio alla fecondità, ma per noi era solo uno straordinario spettacolo a basso costo. Lo sciamano si faceva di quella roba ottenuta dal suo cactus e non dava nessuna risposta, ma affidava a noi il compito di trovarla, dentro, nel profondo dei nostri cuori.
Il costo della messa in scena fu pagato con piena mancia e in piedi a respirare i fumi delle loro auto con in mano i talismani, avevamo pensato tutti di averci provato. Non eravamo noi a non rispettare il fuoco, era lui a bruciare la nostra gente e i nostri raccolti.
Passarono sei mesi e Madville sprofondò nel torrido, come sempre. I fuochi non cessarono nonostante le magie dei Mescalero, ma si fecero più intensi e feroci, fino ad uccidere anche mia madre.
La mia pistola, ventuno anni dopo, non avrebbe potuto vendicare nessuna morte, ma l’alcol avrebbe potuto annacquare ogni focolaio dentro di me, nonostante mi si dicesse di non bere in servizio. Ma chi è di pattuglia sa bene che tutti gli agenti lo fanno, specie se in borghese. La giustificazione? Non si può pedinare la gente nei locali senza bere un sorso, verresti scoperto. Era una scusa adeguata, anche se mi ritrovavo a dover raccontare di aver pedinato preti nei Pub e sedicenni negli strip bar.
E adesso, quale risposte mi avrebbero dato quegli uomini? Lo chiesi, ma prima mi fecero una domanda, come se non ne avessi già troppe da pormi.
“Non hai mai pensato che l’omicidio su cui stai indagando sia del tutto simile alla morte della tua famiglia?”
“Cosa ne sa lei della mia famiglia?” mi spinsi in avanti ma fui preso da tre energumeni e sbattuto al muro.
“Non siamo qui per farle del male, ma per aiutarla”
Scrollai la testa: “Potreste uccidermi con tutto questo aiutarmi, andateci piano ragazzi!”
La donna che mi aveva slegato si avvicinò a me chiedendomi se il nome “autocombustione umana” mi dicesse qualcosa.
“E a te? Coccodrilli nelle fogne? Ufo? Zombie? Queste cose ti dicono nulla?”
“Non sono delle leggende” disse il Dottor Gos incamminandosi verso il tavolo e versandosi una tazza di tè: “Il 5 Dicembre 1966 lavoravo per la Coudersport. Allarmato dallo strano odore che proveniva dall’interno della casa di un collega, Irving Bentley, mi avvicinai ad essa e suonai alla porta senza ottenere una risposta e alla fine decisi di entrare. Rovistai in tutte le camere finché non raggiunsi il bagno e lo trovai seduto nel cesso. Ciò che rimaneva del Dr. John Irving Bentley fu un mucchio di cenere alto parecchi centimetri e un piede ancora calzato, che giaceva all’estremità di un area bruciata di 80-120 cm di diametro”.
“Doveva avere mangiato pesante” risi.
Lui non rise, quella battuta dovevano avergliela fatta ogni volta che aveva raccontato la storia, ma era impossibile tenerla dentro.
“1745, la contessa Cornelia di Bandi fu trovata in cenere. I piedi intatti calzavano delle scarpe da ballo. 1815, il becchino di Southampton fu trovato carbonizzato in una delle sue bare. Si era accorto di star bruciando ed ebbe il tempo di infilarsi dentro una sarcofago in mogano. 1916 John Byrne, 1934, Carla Martinez e…”
Mi guardò, disse agli energumeni di trattenermi.
“… Mary Reeser, 1957, Julien Reeser, 1964”.
Mia nonna e mia madre.
“La combustione umana esiste, signor Reeser e proprio lei non può negarne l’esistenza”
Avevo sotterrato i piedi della mia famiglia cospargendoli di cenere, ma non avevo mai pensato ad altro che a sterzare violentemente sulla superstrada a duecento chilometri orari una volta per tutte.
Disse ai suoi scagnozzi di lasciarmi e mi fece sedere. Cominciò a disegnare dei cerchi su un foglio, mi sentii a scuola, potevo ancora sentire l’odore dei fiammiferi accesi sotto il mio culo per farmi saltare dalla sedia. I bambini sanno essere molto cattivi a volte e noi uomini siamo tutti un po’ reduci di quelle cattiverie, per questo bisognerebbe esortare i nostri figli ad essere bulli di classe, piuttosto che vittime.
“In principio si pensava che le morti fossero dovute alle forti correnti telluriche che attraversano la crosta terrestre e che finiscono per prendere in pieno la gente che vi cammina sopra. Poi Harrison ipotizzò che il fenomeno fosse dovuto a forti correnti bioelettriche che attraversano il corpo, menzionando casi di soggetti che risultavano essere vere e proprie batterie viventi. Ma si scoprì in seguito che si trattava di semplice elettricità elettrostatica. La verità la scoprii io stesso, nel ’79, ma nessuno volle credermi”.
Non ero un sempliciotto, non ne avevo la faccia e se nessuno gli aveva mai creduto, non sarei stato di certo io il primo a farlo, anche se tutta quella gente che aveva attorno, la faccia da credulone l’aveva eccome, alcuni sembravano anche un po’ stupidi, a dire il vero sembravano fortemente depressi. Non potevo far altro che ascoltarlo o ricercare la mia pistola per sparargli un colpo in testa e farlo passare come legittima difesa.
“Questa è una cellula signor Reeser” mi disse disegnando un cerchio con delle linee che dovevano rappresentare dei fulmini, o semplicemente era troppo malandato e tremante per disegnare una linea retta.
“Le nostre cellule trasformano le sostanze nutritive in vera e propria energia. La consideri una piccola centrale all’interno nel nostro corpo. In alcuni casi questi atomi rilasciano troppa energia arrivando a dividere l’ossigeno dall’idrogeno. Immagini che un corpo umano abbia dentro sé milioni di questi atomi. Immagini una centrale malfunzionante moltiplicata milioni di volte e troverà la risposta”.
Jasmine aveva una sorta di gonnellina scozzese che indossava senza nulla sotto, mi piaceva e per un momento pensai di volerla rivedere, pensai che forse Burton aveva ragione.
“Trovati una bella donna e finiscila con queste stronzate” mi diceva, ma io ero così ostinato nel mio lavoro che nessuno avrebbe potuto dirmi di non sbattere in galera assassini e malmenare stupratori. Burton sapeva di mia madre e di mia nonna, lui sapeva tutto di me. Avevamo fatto dodici anni di pattuglia e non si può non parlare di sé per tutto quel tempo. Così io seppi delle sue scappatelle e della violenza sessuale subita dallo zio, e lui dei fuochi di Madville e degli indiani. Non si può parlare di quanto fichetti siano gli italiani o di quanti soldi hai perso dietro ai tori di Buffalo, devi parlare d’altro, certe volte anche fino allo sfinimento. Il mio tormento era tra le mani di Burton quel giorno in cui mi propose di iniziare. Aveva letto della donna ritrovata accanto ad Ilinka e aveva deciso di darmi la mia redenzione. Se avessi scoperto il motivo della morte dei miei genitori, forse avrei desiderato quella scrivania accanto alla sua, nonostante non avessi nessuna rotula d’acciaio. Così mi diede la pistola e il distintivo e mi mandò in pasto a questi pazzi che avevano tutti una cosa in comune: adoravano la benzina.
“Tutta questa benzina a che serve?”
“Noi Mescalero la usiamo per … ecco, aiutarci. Lo scoprirà presto”.
Ecco di nuovo ripiombarmi alla mente quel fottuto sciamano.
“Si sono spostati anche fin qui, quegli aborigeni?”
“Non esistono più da un pezzo” mi disse la ragazza, “ma le teorie di quei quattro squilibrati si sono fatte sempre più forti fino ad arrivare ai giorni nostri sotto forma di vere e proprie religioni con tanto di libri sacri e santini. Ci facciamo chiamare così, Mescalero, ma nessuno di noi è un nativo americano”.
Ascoltare quella donna parlare rendeva tutto più dolce. Lei non faceva disegni come il Dottor Gos, i disegni li aveva in corpo, belli ed armoniosi, tutto ben equilibrato. Seno, culo, gambe, naso, fronte, bocca. Fu grazie a quell’armonia di forme che riuscii ad arrivare al senso di tutto quello.
I Mescalero erano delle torce umane pronte ad esplodere tra le folle di peccatori, di gente irrispettosa del fuoco, la vera causa dell’autocombustione umana. Strip pub, magnati del petrolio, tutti coloro che si davano alla bella vita erano soggetti alle fiamme dei Mescalero che si mimetizzavano tra uomini corrotti, malfattori e depravati. I sintomi del definitivo incenerimento di una torcia umana si presentavano almeno due giorni prima. Le luci si abbassavano al passare di uno di loro, si prendeva continuamente la scossa e si rischiava di beccare un fulmine in piena testa. Il grasso era l’alimento della combustione e manteneva il focolare come fa una candela con la fiamma. I vestiti andavano a fuoco mentre le parti meno adipose e più dure di quei poveri corpi, restavano intatte. Per questo, i Mescalero usavano impregnare i loro indumenti di benzina o usare zaini stracolmi di bottiglie piene di diesel per creare sfacelo.
Mi fu quindi chiaro il gioco di Ilinka.
La bambina aveva mosso lo scheletro che si dirigeva verso la bambola. Quel pupazzo non rappresentava il padre, ma uno dei Mescalero. E la donna…
“La donna infiltrata si chiamava Loren, era uno dei nostri, non poteva sacrificare la propria vita in modo migliore. Quella gente era marcia, giocava d’azzardo e spacciava droghe. Ma la bambina, lei non c’entrava nulla”.
“E voi?” chiesi.
“Siamo tutti figli di torce umane” rispose un uomo di colore che non aveva aperto bocca fino a quel momento. Ma non abbassò la testa, puntò su di me i suoi occhi vuoti. Fui io ad abbassare lo sguardo per primo.
Conoscevano Burton, conoscevano i miei genitori, conoscevano i Mescalero e il segreto del fuoco. Quegli uomini sapevano di me più di quanto io sapessi di me stesso.
“Non abbia paura, signor Reeser, lei non è solo”
Mi incamminai tra le strade di Chinatown che erano le due del mattino. Il drago dei Mescalero era in tutte le porte del quartiere di Wi-Ong. Non avevo mai sentito tanta puzza di benzina neanche per il corteo dei trattori a Madville. A quel tempo nessuno contattava gli spiriti per dare una spiegazione al fuoco, ma solo i funzionari pubblici. Avevo sempre odiato le istituzioni, eppure quei contadini in doppio petto sono in qualche modo il ricordo più bello che io abbia della mia infanzia, quando tutto aveva una spiegazione. Piromani, industriali, scagnozzi di costruttori di autostrade per me erano figure innocenti e non animali da condannare.
E’ quando tutto perde il fascino dell’ipotesi e acquista certezza, che si perde davvero l’infanzia.
Avevo percorso lunghe strade a cavallo alle mie scarpe per paura di dar fuoco ad un tassista anche se impregnato di benzina com’ero, nessuno mi avrebbe fatto saltare su, neanche per tutti i soldi che avevo in tasca. Dietro di me i lampioni si riempivano di luce che prima pompava bagliori in tutta la strada e poi scemava, così da creare una sorta di aura ad intermittenza che accompagnava la mia figura e creava un magnifico movimento d’ombre attorno a me. Burton non aveva tolto la mano dalla mia testa per imbarazzo, era stato fulminato. Jasmine non s’era bruciata da nessuna parte, ma entrambi avevano preso la scossa. Adesso sapevo la verità.
E i lampioni di Tacoma street…
“In molti casi è ereditario, l’abbiamo studiata attentamente prima di sceglierla e mi creda, non sappiamo come abbia resistito tutto questo tempo senza bruciare”.
La piscina e la jacuzi, forse, sono i posti in cui passo la metà della giornata perché tenere la testa sott’acqua mi aiuta a svuotare la testa dai pensieri.
Figlio di una torcia come mia madre prima di me, non risposarmi era stata la scelta giusta, una delle poche, anche se da tempo pensavo a Jasmine. Mi sedetti di fronte alla porta del covo di Wi-Ong e gridai il suo nome.
“Sono qui” sentii.
Jasmine puzzava di benzina proprio come me, attorniata da ombre impazzite proprio come me. L’abbracciai e sentii le sue mani nelle mie tasche. Tirò fuori le sigarette.
“Volevi ammazzarti prima di aver compiuto la tua vendetta?”
Non avevo buttato via le sigarette, ma impregnate com’erano non avrei potuto fumarle.
“Sai tutto?” chiesi.
“Più di quanto sai tu. Ho sempre seguito questo caso assieme a te fin dal principio, fin da Tacoma”.
“Sei anche tu una torcia?”
“Io soltanto sono la torcia”
Poi mi mostrò il distintivo. Non era un’infermiera anche se conosceva bene i posti in cui le infermiere fanno sesso, che è probabile siano posti racchiusi nella perversione del nostro immaginario. Forse le infermiere fanno sesso sul loro letto, comode e in abiti da sera, non in camice, su scrivanie, ripostigli o ambulanze con sirene accese.
La baciai, mi morse il labbro inferiore e accavallò le gamba destra scostandosi la gonna scozzese e passando la mano laddove la benzina aveva sostituito l’aroma, pace dei sensi, di una donna in calore.
“Facciamolo adesso, mi resta poco tempo” rispose al lampeggiare dei lampioni.
Esitai un attimo, ma lei non mi diede il tempo di chiedere, lo prese tra le mani e lo infilò dentro. Nessun fuoco, che sia il Sole o uno spirito sciamanico, che sia l’energia di un atomo fuori controllo o il corto circuito di una centrale, potrà mai sostituire quello che io e Jasmine avevamo dentro, in quel momento, abbastanza forte da accendere il focolaio della vita, eccessivo per mantenerlo intatto.
Sentii la smorfia di dolore.
“Una scossa?” chiesi.
“Continua”
Le venni dentro, poteva non aver senso, ma un’azione che scaturisce un pianto, un senso l’acquista. Con ancora le lacrime a ripulirle il viso dalla benzina, si piegò in due e mi disse di allontanarmi e di guardare la fine dei Mescalero da lontano.
“Vuoi ucciderli? Perché, se sei una di loro?”
“Nè io né Burton abbiamo mai creduto alla loro causa, nessuno, anche per un buon motivo, può prendere il posto della legge”.
“Morirò con te, anch’io ho il fuoco dentro, lo hanno detto loro”.
“Io e Burton non ti abbiamo lasciato un attimo. Ogni abbassamento di tensione, ogni scossa, ogni corto circuito, siamo noi ad averli creati per indurli a pensare che tu fossi una torcia. Ci hai portato da loro, come volevamo, il covo è un mistero per tutti, ma non per i prescelti”.
“Mi hai usato, quindi”
“Mi spiace, Steven. Tu devi ottenere una redenzione, non devi condannare nessuno all’Inferno. La tua rabbia deve scomparire adesso, è tempo di vivere per te e di fare giustizia nel modo in cui tutti noi conosciamo, il modo migliore, più umano”
Quando ti hanno già condannato a morte, speri che il tuo boia non ti faccia troppo male, ma non pensi mai che proprio quello potrebbe avvertirti che, all’ultimo istante, è arrivata la grazia.
Non ero io la torcia, non lo ero mai stato, io ero il cuore del fuoco, quello che più brucia, ma che non è in grado di afferrare il vento per le corna e galoppando sul suo dorso, diramarsi. Io ero la rabbia, circondato dalla devastazione: Ilinka, mia madre, mia nonna e Jasmine, che spargeva benzina, si inginocchiava e lentamente si piegava. Poi un rogo interminabile e l’intero quartiere a fuoco, così come ogni fottuto Mescalero dentro quel vecchio capannone.

“Ho la mia età, Steven, ed una rotula d’acciaio, credi ci sia posto migliore per uno come me?”
Le scarpe di Burton erano intatte, calzate sui suoi grossi piedi anneriti. La sua scrivania era invece oliata dal grasso accumulato da anni di cheeseburger e sandwich al burro d’arachidi, come si addice ad un vero americano, un animale di strada di pattuglia per le vie di New York. La sua colonna vertebrale era perfettamente adagiata sulla poltrona imbrattata delle ceneri fumanti. Non c’era nessuna rotula d’acciaio in terra. Burton mi aveva dato l’opportunità di placare la mia rabbia e strofinandomi la testa mi aveva dato la mia redenzione, passandomi, con una lieve scossa, la sua. Il fuoco che gli aveva tolto ogni soffio di vita, aveva finalmente placato quello che si trovava dentro la mia anima perseguitata dal passato. Rimasi lì ad osservare quello che rimaneva di lui, annaffiato dall’acqua del dispositivo antincendio, che lavava via la benzina dai miei vestiti e assieme ad essa, ogni mio tormento.

Alessandro Cascio

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