Il grande smafiamento siciliano

On 03/07/2016 by alecascio

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Il comandante mi fece entrare, mi chiese se volessi un caffè e dapprima rifiutai, ma non sapendo quanto la discussione si sarebbe dilungata, visto che era quasi notte e i grilli in giardino avevano da ore iniziato a cantare, ci ripensai e glielo chiesi doppio ma con un po’ di latte, da sorseggiare durante l’interrogatorio.
“Non chiamarlo così, Fardeci” rispose lui, con una voce pacata sotto quei baffi ben curati, appena spuntati con forbicine da unghie, “è una chiacchierata tra uomini, come ti ho detto per telefono”.
Mise su della musica, né forte né piano, si sentivano giusto tre persone, io, lui e De André.
Il caffè era caldo, gli diedi una sorsata tale che mi bruciai la lingua. Poi mi accessi una sigaretta, anche lui fece lo stesso.
“Non ci sono registratori né telecamere” mi rassicurò, “raccontami da dove vuoi cominciare tu”.
“Dall’inizio” risposi, “facciamola nel modo convenzionale, partiamo dall’inizio e man mano arriviamo alla fine”.
“Sai raccontare bene? Non rischio di addormentarmi, vero?”
“Ho letto molti libri, posso usare differenti stili, ma userò il mio, bello pulito ma con un po’ di considerazioni personali, poi lei deciderà se sono valide o meno”.
Io, signor comandante, non avevo mai pensato di tornare in Sicilia prima di svegliarmi una mattina fissando il frigorifero bianco ai piedi del letto e bestemmiare Dio come se ci credessi veramente. Dopo quel giorno ogni mattina, puntuale alle nove e mezzo, scattavo sull’attenti, vedevo quel bianco latte e bestemmiavo, mi chiedevo cosa ci facessi io a Roma, io che ero siciliano fino all’anima e non potevo nasconderlo. Non che lo volessi nascondere, ma la gente se ne accorgeva subito che non ero del posto e allora mi trattava come un meridionale in vacanza, anni e anni passati da ospite per le vie di una città che non aveva conservato nulla del mio passato: come avrebbe potuto, del resto…
Vede, a casa tua, pessima che sia, ogni strada ti dice qualcosa, osservi un angolo all’incrocio comunale e ci vedi Rosario, l’amico napoletano con cui si andava a sparare piselli congelati sul culo delle ragazze con le cerbottane. Ci vedi i momenti belli e quelli brutti, ci vedi gli amici, le anime dei morti, ci vedi te stesso a tutte le età: casa tua è come un album di fotografie. Io non lo so se lei ci crede a quel fatto che i defunti si legano agli oggetti che hanno posseduto, alle mura delle case in cui hanno abitato, ma io ci credo, io credo che nessuno va via davvero. Neanche quando parti e cambi città, vai via, perché una parte della tua aura passata diventa massa rarefatta che si unisce perfino all’asfalto e non ci puoi fare niente, manco morto ti stacchi dalle cose che hai toccato e dalle cose che hai amato. E odiato, forse.
E così me ne sono partito come ero arrivato, col treno. Ora non mi dilungo dicendole tutto quello che ho pensato sul treno, ma un po’ di paura ce l’avevo, perché dopo tanto tempo rischi di diventare ospite anche al paese tuo e da che avevi due case scopri di non averne più neanche una. A questo pensi. Ma io fortunatamente ho trovato subito Mastro Vacca e non c’ho messo molto a rimettermi in moto, di solito la gente che torna sta ferma per un po’, si ambienta, ma era come se avessi saputo che un giorno la mia storia l’avrei raccontata a qualcuno, a lei forse e allora ho pensato che se non fai qualcosa, qualsiasi cosa, non c’avrai mai niente da raccontare. Per questo la gente che parla di niente l’allontano, perché non c’ha avuto una vita, la gente che parla degli altri, ad esempio, è come uno spettatore di fronte alla TV. Io invece volevo essere la TV, non limitarmi a guardarla e basta.
Mastro Vacca stava accarezzando i suoi alberi come fossero belle femmine e così gli chiesi, sorridendo: “Mastro Vacca, si è innamorato degli alberi?”
“Eh” rispose: “Tu ci ridi, figlio mio, ma quando li pianti, li cresci, coi soldi che ci fai gli dai da mangiare ai tuoi figli, cominci a vederli come una famiglia. Io ho sudato, certo, ma loro hanno fatto i limoni, non io, il mio è un aiuto, ma il lavoro loro lo fanno. E quando li devi abbattere è come se ti chiedono di ammazzare una persona, anzi peggio, perché le persone certe volte se lo meritano, specie qui in Sicilia, ma i limoni solo bene possono fare”.
“E perché li deve tagliare, Mastro Va’” gli chiesi.
E lei sa bene quello che rispose. I limoni qui li mandano al macero perché li importano dal nord Africa dove a quei morti di fame quattro lire sembrano oro, tanto a loro le cose non costano niente, ma coi limoni in Sicilia non ci paghi manco il bollo della macchina.
Ci pensai due giorni soltanto, due, io penso veloce e agisco altrettanto veloce. Ho pensato: coi limoni che ci possiamo fare? Il limoncello, le granite, il succo di limone nelle bottiglie di plastica che non lo dica a me, non capisco perché la gente non se lo spreme nel pesce direttamente, le limonate, le torte, le meringate, le creme. Lei lo sa che coi limoni si possono fare più di cento prodotti diversi? Non solo cose da mangiare, eh, pure disinfettanti, creme per la pelle, detersivi, conservanti naturali, basta fare un po’ di pubblicità, investire, mettere al corrente le persone che il limone è la medicina della terra e piano piano quelli se ne accorgono. E’ vero anche che per vendere i nostri prodotti abbiamo anche un po’ sputtanato gli altri, ma in modo corretto. Se le aziende usano prodotti che riproducono il gusto del limone ma che di quello non hanno niente, che è, colpa mia? C’abbiamo creato la linea alimentare, la linea per la casa, la linea di farmaci naturali e abbiamo castrato l’economia dei limoni africani, almeno nelle zone nostre.
Lei lo sa, comandante, che se ci carichi solo dieci centesimi in più a prodotto ci paghi le spese ai contadini? Ma che si mettono, le grandi aziende, per dieci centesimi? Ma dove siamo arrivati?
E tutti, tutti, tutti i contadini del comprensorio portavano i limoni da noi, più di duecento, piccoli e grandi e le loro famiglie lavoravano da noi.
Mastro Vacca non li ha tagliati più gli alberi, anzi uno se l’è sposato.
Me lo posso bere un po’ di caffè che ora arriva la storia che vuole sapere? Un sorso, proprio, prima della sigaretta. C’abbiamo un prodotto per pulire i condotti respiratori dalle mucose, funziona davvero, è scientifico, lo può leggere dove vuole lei.
Un giorno si presenta questo, sbracato, coi capelli pisciati, se gli stricavi la faccia sul cofano della macchina veniva via la vernice. Mi dice: “Fardeci, ti sei fatto i soldi, vero?”
“Stiamo bene, non ci possiamo lamentare” gli rispondo: “Lei chi è?”
“Io nessuno, però a Scasazza lo conosci?”
“Ne conoscevo uno ma è in galera”.
“Ancora in galera è, ma è come se non ci fosse perché c’ha un sacco di amici fuori”.
“Io pure c’ho un sacco di amici in Germania, ma mica sono tedesco”.
Si è messo a ridere, forse era la battuta più intelligente che avesse mai sentito, perché quelli erano di Partinico, ridevano per cose tipo “mi sono ficcato a una e faceva così, ah ah ah, ficcami, ficcami prima che arriva mio marito” e gli altri, “minchia, vero?” e giù a ridere. Malati di mente, proprio.
I partinicesi c’hanno una specie di malattia mentale dovuta alla poca cultura, una sorta di demenza che neanche il limone può curare a meno che non gliene sdivachi una tonnellata addosso uno per uno, allora sì che smetterebbero di ridere per minchiate e di fare mafia, ma non basterebbero tutti i limoni della Sicilia, mi sono già fatto i conti.
“Scasazza c’ha una famiglia e a questa famiglia ci dobbiamo badare noi” mi dice il partinicese e poi si sta zitto. Aveva delle frasi in testa e solo quelle sapeva dire. Io dapprima volevo fare un po’ di ironia, ma se poi non mi capiva che facevo, gli dovevo spiegare lettera per lettera e allora si faceva notte.
“Che vuoi, quindi?”
“I soldi. Che voglio?”
“Non te ne posso dare, soldi” gli ho detto, “perché se ti do i soldi si chiama associazione mafiosa e se vi prendono e vi mettono in galera, ci finisco anche io”.
“Meglio in galera o sotto terra?”
Si avvicina, con le mani in tasca, mentre l’altro che non aveva parlato completamente, si mette a ridere e gli si vedono i denti marci anche se c’ha vent’anni. C’abbiamo il dentifricio, al limone, per sbiancare i denti. Con lui ci voleva una passata di vernice, però.
Mi mette una mano sul collo e mi dice che Mercoledì passa e gli devo dare diecimila euro ogni tanto, così Scasazza è contento.
“Chiudo” gli rispondo: “Chiamo gli operai e gli dico che me ne vado”.
I partinicesi non ti dicono niente se chiudi, se resti aperto e non paghi ti ammazzano, ma se chiudi e te ne vai per loro è come vincere e allora sono contenti. Infatti l’altro amico suo si è messo a ridere e io gli faccio: “Me lo fai un favore, la chiudi la bocca quando ridi che stai facendo venire l’acido anche ai limoni?”
Ma valla a capire, sta battuta, comandante.
Lei mi chiede: ma davvero volevi chiudere o avevi già organizzato tutto?
Io non lo so se volevo chiudere o meno, io so solo che in quel momento per la testa mi è passato questo e questo ho detto. Io non ho mai organizzato niente, nessuno ha organizzato niente, è stata una cosa spontanea, una la legge di azione e reazione dove né azione né reazione sono legali, ma sempre di legge si tratta: diciamo che abbiamo creato una legge illegale.
Li ho chiamati tutti, i miei operai, uno per uno, duecento telefonate per seicento persone, tutto il capannone pieno e io col microfono di mio nipote e l’amplificatore prestato a parlare con loro.
Gli ho detto semplicemente: “Dobbiamo chiudere perché Scasazza mi ha chiesto il pizzo”.
Volevo fomentarli, dice? Io gli ho detto questo e basta, volevo solo sapere da loro cosa fare. O forse no, nessuno lo sa, manco io.
Un bordello che non le dico, comandante. Prima contro di me, mi gridavano che ero un codardo, un quaquaraquà, poi ho parlato ancora e ho detto loro che mi avevano dato due scelte: pagare o morire e se avessi denunciato la cosa non sarei comunque più stato libero di amministrare l’azienda, quindi non c’era altra cosa da fare.
No, le ho detto, non volevo fomentare nessuno. Ma mi scusi, se lei dice a qualcuno che esiste la calvizie, quando gli cadono i capelli è stata colpa sua che gliel’ha detto? No. Come cosa c’entra? E’ uguale. Se uno dice le cose come stanno non è responsabile delle conseguenze della verità.
Solo allora ho capito che quella era una grande famiglia. Avevo salvato i loro alberi, avevo salvato i loro figli e le loro case e non prendevo tanto più di loro, il giusto. L’azienda era di tutti quanti, non lo sapevo prima di allora ma scoprii quel giorno che quello che volevo davvero si era avverato.
Forse lo gridò Mastro Vacca o qualche altro, non gli posso dire chi con certezza abbia detto quello che ha detto, ma fatto sta che ci fu un “ci pensiamo noi” ripetuto più volte, quindi saranno stati in tanti a pensarla allo stesso modo.
Tutti, in fila, all’uscita mi diedero una pacca sulla spalla e mi dissero di continuare, tranquillo, di fare come se nulla fosse successo. Il Mercoledì nessuno si presentò per ritirare il pizzo, manco Giovedì e il giorno dopo. Quando mi vennero a scaricare i limoni, Mastro non ricordo chi si mise a ridere.
“Tutto bene?”
“Sì, tutto bene”
“Non chiudi più?”
“A quanto pare o Scasazza è uscito di galera o si è fatto i soldi e non c’ha più bisogno dei miei”.
“Oppure qualcuno gli ha chiuso la bocca”.
Non si riferiva a Scasazza capo, ma ai picciotti. Poi, il giorno dopo, spuntò in Tv che quei due erano scomparsi, ma Mastro non so chi non mi disse di averli ammazzati, mi disse solo che qualcuno, forse, ripeto, forse gli aveva chiuso la bocca.
Bevo un po’ di caffè, mi scusi.
Sì, proprio così, ne avevano fatto concime. Di quella gente non ne era rimasto più niente. E non solo di loro, di tutta la settima generazione. Solo di quelli che cercavano vendetta. Erano in tanti.
Io no, non c’ero durante le spedizioni, si armavano da soli e partivano alla volta di quella o quell’altra famiglia mafiosa che poteva chiedermi il pizzo e l’indomani neanche la polvere riuscivano a trovare.
La smafiata non è stata fatta ai fini di eliminare la mafia, c’eravamo troppo abituati, ma i miei non erano pronti a fare la fame, a cambiare mestiere, contadini erano e contadini sarebbero morti.
Lei lo sa che da quando iniziarono a usare i mafiosi come concime i limoni sono diventati grossi il doppio?
E poi successe la cosa di Mastro Vacca.
I mafiosi non ci sono scemi, signor comandante, lei lo sa bene. I capi sono intelligenti anche se parlano la lingua degli ignoranti, sono i picciotti ad essere scemi. Questo perché così fanno tutto quello che gli si dice. Se io a lei le dico di ammazzare il suo vicino di casa, lei non lo ammazza, mi manda a fanculo e ciao. Io non vengo incriminato se lo ammazza. Se un mafioso lo dice al picciotto viene chiamato “mandante” e allora viene incriminato come se lo avesse ammazzato lui. A volte gli esecutori materiali, così li chiamano, lei lo sa, non vengono neanche trovati, il mandante è quello importante. E’ una cosa coniata apposta per loro. Quando Scasazza è venuto a sapere della situazione ha ordinato ai suoi di sparare e da lì è scattata la guerra.
Mastro Vacca è morto vicino agli alberi suoi, quindi io non mi sono preoccupato, primo perché c’aveva settant’anni e poi perché era morto dove voleva morire: in Sicilia, nel suo terreno coi suoi limoni. Don Ciccio e Don Vincenzo prima di essere ammazzati ne hanno ammazzati a sua volta dieci, undici con quello che è morto all’ospedale. Gli altri si sono difesi tutti. Seicento contadini e operai incazzati contro trecento mafiosi perdigiorno senza un coccio di cervello vincono per forza. Per questo gli Scasazza non esistono più, perché se sei intelligente rompi la minchia a quelli giusti, non a chi con la terra ci vive e di diventare terra non ha paura. Loro la terra la amano, se gli dici che diventeranno terra solo contenti possono essere.
Da un giorno all’altro la guerra è finita. Da un giorno all’altro le cose erano cambiate, ma fuori, in azienda tutto era proceduto allo stesso modo. Limoni, lavoro, esportazioni, di quello che era successo non se ne parlava neanche perché né io né loro volevamo, i vecchi poi si incazzavano coi giovani, se li prendevano di petto se dicevano una parola sullo smafiamento.

Bevvi l’ultimo sorso di caffè, mi accesi l’ultima sigaretta e dissi:
“Ora lo sa, anche se penso che lo sapesse già”.
“Certo che lo sapevo” rispose il comandante, “ma non lo sapevano loro”.
Dalla stanza accanto uscirono degli uomini di tutte le età, circa trenta. Non avevano fatto rumore e quel poco di brusio che c’era stato lo avevano coperto le note di De André.
Mi alzai e gli dissi che non c’era bisogno di tutta quella gente per arrestarmi. Non ero un capomafia anche se ero stato additato come tale. Tutti in paese pensavano che fossi il nuovo boss, ma se avessero saputo la verità forse mi avrebbero anche ringraziato. Io facevo bene alla gente coi limoni, facevo cose buone e sane e facevo lavorare.
“No” rispose il comandante, “nessuno vuole arrestarla. Questi sono tutti imprenditori”.
Alcuni di loro a dire il vero erano troppo sconvolti e impauriti per essere sbirri, per questo gli credetti subito. Qualcuno salutò, altri si presentarono, altri stettero zitti.
“Borgetto, Montelepre, Corleone, San Giuseppe Jato, tutti paesi mafiosi con gente che vuole lavorare. La sua storia gli servirà per smafiare le loro terre. Io niente so e niente voglio sapere”.
Quando ci fu lo smafiamento degli altri territori l’azienda l’avevo data in mano a Vaccareddu, il figlio grande di Mastro Vacca che coi limoni ci aveva studiato fuori e si era laureato. Era tornato e allora avevo pensato a lui perché c’aveva il sangue di suo padre e più capacità di me che invece ero bravo a trattare con gli acquirenti.
Ero a Roma, stavo parlando con un produttore di deodoranti e prodotti per capelli quando in TV spuntò il manicomio.
“E’ la tua terra, quella?” mi chiese il produttore.
“Non proprio, noi abbiamo le aziende poco vicino”
“Certo che dev’essere dura vivere in quei posti”.
“E’ come vivere in Burkina Faso. Ci sei mai stato? Io no, ma ne ho sentito parlare. Anche lì è pieno d’oro e tutti lo vogliono, ma il popolo non ha saputo tenerselo. Noi invece combattiamo, perché ciò che è nostro deve rimanere nostro”.
Il produttore fece una faccia spaventata, come se stesse trattando davvero con un trafficante d’oro africano.
Risi, con la bocca aperta che sapeva di fresco: “Ma sto scherzando. Sono solo limoni. Non ho mai sentito parlare di quei posti, noi trattiamo solo con agricoltori per bene e fornitori con aziende a conduzione familiare. Come dice il nostro slogan, c’è tutto l’amore delle nonne siciliane nei nostri limoni. Crede forse che me lo sia inventato per fare colpo ?”
Sorrise finalmente, anche perché altrimenti avrei perso un partner con tanti soldi e tanta voglia di spenderli.
“Sono belli grossi, i vostri limoni. Cosa usate?” chiese.
“Solo concime naturale” risposi.

A. Cascio

 

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