Una donna per cambiare

On 24/10/2016 by alecascio

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Mi trascino placido come un’onda anomala che preannuncia silenziosa una tempesta. Di fronte a me, la cameriera a mezzo busto posa un carnet sul bancone e mi chiede cosa cerco da quelle parti.
Non ho bisogno che qualcuno mi suggerisca nuove vie per evitare il ritmo semplice della mia monotonia, ne vado fiero, è un quattro quarti dignitoso su cui dirigere la più svariata musica al tempo insistente dell’eternità.
“Tieniti pure la lista della spesa, un whisky mi basta” le dico e lei
mi fissa, mi racconta di aver sentito parlare di me e lo dice con un sorriso finto che fa da lucchetto a segreti che non ha intenzione di svelarmi.
“Non so cosa cerchi, ma se sei quel che dicono, questo non è posto per te”.
“Vuol dire che cercherò un motivo valido per rimanere”
“Il whisky non è un motivo valido?”
“L’alcol è una meta solo per gli ubriaconi, per quelli come me è una zattera se la serata va storta o un traghetto se gira bene”.
“Allora mi spiace, come vedi qui è pieno di zattere”.
Accanto a me, tuttattorno e dietro, compagini di uomini strappati alla terra, alle armi e al cimitero, campeggiano sui loro tavoli sorseggiando sedativi, ma io so bene che se nulla succederà da lì a mezz’ora, avrò buttato un altro giorno cacando in testa al padre celeste.
Non ci sono donne se non due, una è una vecchia megera che serve agli orchi e poi c’è la figlia, la principessa, che non ha cavaliere e non ha corona, ma il viso le brilla talmente che un minuto del suo sguardo tramuta in oro anche i calcinacci.
E io sono un calcinaccio, sto bene sulla cima di una torre o per la strada, nessuno mi custodisce in un forziere, piuttosto mi sferrano su cani, teste vuote, burroni e mari e non si azzardano neanche a guardare se anche in me c’è un briciolo di lucentezza. Come un calcinaccio vado fiero del fatto che le mie polveri non potranno mai arricchire nessuno di questi avidi incapaci di stare al mondo che vivono come immortali e piantano paletti, mettono radici ignari che il tornado sta per arrivare. Con me digiunerà, non troverà che desolazione sul mio cammino, avrò spazzato tutto via prima che possa farsi brezza.
Ho un piano, il meno sadico che abbia mai escogitato, mi sono fatto buono perché d’ora in poi è ciò che voglio essere, nelle azioni e anche nei pensieri. Lancio di nascosto una bottiglia al tetto, nessuno mi ha visto, nessuno dubita e se dubitassero li additerei come infami e diffidenti. Va in pezzi come è solito fare il vetro scadente e un frammento finisce sulla testa dell’uomo sbagliato.
“Chi è stato?” si alza un gorilla battendo i pugni sul tavolo.
In quale storia al contrario, in quale luogo immaginario e in quale malato pensiero un uomo dichiara di aver violato la legge a un energumeno di cento chili. Nessuno parla, ognuno tace, fin quando a un tizio non viene in mente di sogghignare, niente di più, tanto è strafatto d’alcol che nessuno di buon senso prenderebbe quel sogghigno come offesa, a meno che non abbia la scatola cranica vuota per metà e non gli si possa guardare da un orecchio all’altro come un cannocchiale.
Il mostro si avvicina con fare minaccioso al magro pescatore che gli pianta un pugno ma senza successo. La mano gli rimbalza come fosse gomma.
“Hey” urlo, “lascialo stare, non è stato lui”
“Allora sei stato tu?” domanda.
Il primo sintomo della malattia della stoltezza è parlare ad armi pari con gli idioti, così provo a giostrare come meglio posso le parole e gl’indico un lato della sala.
Non ci vuole un matematico per fare i conti: “Se i cocci sono a destra la bottiglia proviene da sinistra. Ho solo fatto un calcolo e non sono neanche un genio”.
Di lì a poco fuori coltelli, lame senza manico e lenze da strascico. Lancio un paio di bicchieri per creare caos e assisto lieto al parapiglia felice e fiero dello spettacolo inscenato. Poi l’energumeno con cinque dita spalancate mi colpisce al viso con uno schiaffo, il peggiore degli affronti per il me di una volta, ma guardo la mia principessa guardarmi e ingoio la rabbia. Se solo mi avesse conosciuto qualche tempo prima, quando le corde dei miei sentimenti erano tese a tal punto da non vibrare neanche al passaggio di un treno.
La megera rimane a bocca aperta. Intenta com’è a gestire il mattatoio non si accorge di me che prendo per mano la principessa dicendole che troveremo un posto per fare l’amore come fosse per sempre.
“Non preoccuparti di tua madre, l’ho fatto per lei. I pescatori sono teste calde ma una cosa non saranno mai, disonesti. Sono cresciuti scartando per i clienti i pesci migliori, attenti a non avvelenarli. Hanno un’innato altruismo che li porterà a pagare i danni fino all’ultimo centesimo. Se lei sarà furba, e non ne dubito, caricherà una sterlina a pezzo e domani potrà prendere il giorno libero, se vorrà”.
Mi strattona, ha qualcosa da dirmi e mima cose che non so che cosa, luoghi che non so dove e vedendo la mia faccia stupida sorride.
Non so leggere i suoi gesti, non so leggere le labbra, ma c’è una lingua che ci accomuna tutti, d’ogni luogo e d’ogni tempo: il sorriso.
Io non so stare in silenzio, non parlo la lingua della pace bene come la parla lei così si sforza di muovere la bocca come noi mortali ed emana suoni che somigliano a parole.
“Perché io?” chiede e il resto lo capisco da solo dalle mani che disegnano nell’aria chiome lunghe e seni sodi: “Potresti avere donne normali, belle e prosperose, perché proprio io?”
Già, perché lei e non un’altra, le citerei i filosofi se ne conoscessi, storici o scienziati se avessi passato più tempo sui libri, ma non ho altro che le mie ragioni, i miei sentimenti e quella forza che mi trasporta ovunque o che mi inchioda in un sol posto.
“Perché se non avrò te non avrò nessuna” le dico e le basta una frase stupida, infantile, anche mal pronunciata per accettarmi.
Sembra il richiamo disperato di un monello che fa i capricci, il tutto o niente di un principino a corte, ma quel che sente è ciò che ho provato, l’esatto incontro tra assurdo e ragione, che se ci chiediamo perché e sappiamo la risposta perdiamo per sempre l’attrazione verso ciò che inesarabilmente perderà attrattiva.
Mi accarezza il viso, la sua sola presenza svuota le fogne della mia coscienza, mi ripulisce l’anima che bianca per intero non lo è stata mai.
“Mi ha colpito” le dico, “ma passerà, sto facendo progressi come vedi”.
Prendo la sua borsa, la carico nell’auto che ci aspetta all’angolo e le chiedo di aspettarmi, che ho dimenticato la parte migliore.
Torno dopo un po’ con un mazzo di fiori e decide in quel momento di darmi un bacio finalmente, felice che io sia davvero cambiato.
Stringo con la mano chiusa un fazzoletto bianco a chiazze rosse, lo tengo in tasca con metà del braccio per nasconderle il mio vero volto. Se avesse visto la testa del pescatore in frantumi su quel bancone, se avesse sentito il mio onore cantare l’opera sulla fronte insanguinata di quel cialtrone, forse avrebbe esitato ancora sperando di cambiarmi, ma io non potevo più aspettare, non potevo.
Non sarei cambiato forse, ma per quegli occhi avrei provato a migliorarmi. Mi ci voleva tempo, come ad ogni calcinaccio ce ne vuole per dileguarsi.
a. cascio

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