Il complesso del porco

On 02/12/2016 by alecascio

Mi ero trasferito a Poissy a pochi chilometri da Parigi. Pensavo che l’aperta campagna e i fantasmi del florido passato artistico parigino potessero darmi nuove idee per affrontare un percorso che accontentasse me, il mio editore e i miei lettori. Non avevo alcuna voglia di scrivere un altro saggio cinematografico solo per vendere di più, non credevo avesse senso far circolare il mio nome se non per le mie idee, quelle che non mi veniva permesso di esprimere. Il signor Clarence si svegliava presto al mattino e visto che io a quell’ora non ero ancora andato a dormire, per un po’ gli giravo intorno e lo seguivo nelle sue faccende.
L’allevamento di maiali era a pochi metri dalla casa in cui vivevo, un bilocale con soppalco con una finestrella ai piedi del letto che volgeva sulle colline.
“Come va il tuo nuovo libro” mi chiese il sempre sorridente omaccione, “hai trovato ispirazione?”
“Non ancora, signor Clarence” risposi, “non ancora”.
Con una pinza sfondò l’orecchio di un maiale e quello sembrò non sentire alcun dolore, almeno non se ne lamentò.
“Oggi è il suo turno?”
“Prima o poi arriva il turno di tutti”.
“Non si sente mai in colpa, signor Clarence? Non sente mai ribrezzo per quello che fa?”
“Perché dovrei” rispose e la mia domanda fortunatamente non sembrò irritarlo. Ero facile alle domande irritanti.
“Questo bell’esemplare ha appena compiuto tre anni, vivendo in cattività vivono pressappoco il doppio. Ha mangiato per tre anni tutto quel che ama mangiare, ha giocato, si è accoppiato almeno dodici volte, si è goduto l’aria di montagna e ha beneficiato del caldo sole e del panorama. E’ uno scambio, un equo scambio: metà della sua vita felice e spensierata per la sua carne.”
Vide nei miei occhi una certa disperazione, un profondo stato di malessere derivante dalla mancanza di rapporto con i lettori che comprano, quello che in gergo l’editoria chiama “pubblico attivo”.
“Ragazzo” mi disse, “qui a Poissy usiamo dire: dai ai porci ciò che vogliono e loro ti daranno ciò che vuoi”.
Tutto nella vita può essere parafrasato, basta trovare la allegoria più poetica, lo imparai a otto anni, quando scrissi un finto tema sulla mamma idolatrandola come un diamante solo per far colpo sull’insegnante che pianse credendo che il mio amore per mia madre fosse smisurato e idilliaco, cosa rara in un bambino.
Il signor Clarence aveva un’allegoria contadina per tutto, tutta la vita era come l’erba, i maiali, le pecore e il pastore, il popolo e il capo, le vittime e il carnefice, ma nelle sue parole c’era sempre rispetto per le bestie che allevava, inferiori sì, ma necessarie.
Quando scrissi Domino, l’anno dopo, tornato in Italia, non pensai ai porci e i porci non mi diedero ciò che volevo, ma mi sentii lusingato di aver potuto esprimere qualcosa senza piegarmi al sistema e anche se la mia carriera si interruppe bruscamente, potei appendere alla parete l’ultima grande recensione di un giornale locale.
“Alessandro Cascio usa ogni genere narrativo per esprimere una filosofia di vita, vi fa credere che stiate leggendo di morte e sesso quando in realtà sta parlandovi di voi e del vostro errato rapporto col mondo. In ogni frase c’è un rimedio alla paura, la spavalderia di un guerriero. L’unica pecca, se così possiamo chiamarla, è il personaggio del porco, forzato e a volte stucchevole, sembra non entrarci nulla con la trama avvincente”.
Mi spiacque parecchio che non comprese che il porco fosse il motore della storia, non della trama, ma della mia storia, dello scrittore che per tutta la sua vita aveva dovuto combattere con il complesso del porco. Editori, critici, editor o lettori che fossero, i porci davano l’energia alla mia anima ridotta solo a una misera ruota.
All’ultima presentazione mi prestai a vendere l’ultimo libro di un mio collega, qualcosa riguardante Il cinema d’autore inglese. Ad ogni copia stringevo l’orecchio di un compratore come fosse una pinza per maiali.
“Perchè lo fai?” mi chiese lui stranito.
“Porta fortuna” risposi.

A.Cascio – Il complesso del porco

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