Paradise City

On 11/10/2017 by alecascio

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Paradise City

 

 

 

 

 

Corinzi 15:56
La sua vittoria sarà completa quando, colla risurrezione, la morte sarà distrutta per sempre.

 

Il mio corpo sembra una di quelle caramelle gommose colorate che ti rimangono attaccate ai denti se le mastichi, sento come se mi avessero piazzato la testa in una gelatina. Non posso muovermi ma posso sentire Padre Gonzales che prega la beata vergine.
Qualcuno ironizza con una voce grossa, densa, nera, jazz.
“Le conviene mirare più in alto, Padre, questa mi sembra una roba troppo grossa per una sola donna”.
“Impertinente” sussurra il prete: “Non c’è niente di più alto del cielo”.
“Ok, dicevo solo che si potrebbe chiedere alla Madonna di farle parlare direttamente con il principale.”
C’è altra gente attorno a me, è silenziosa, ma riesco a percepirne il calore e l’irrequietezza. Il tizio con la voce grossa non sa cosa lo aspetterà di lì a poco. Padre Gonzales continua a pregare e lui a blaterare sconcezze anticristiane sostenendo che la vergine Maria è solo uno Stargate usato da Dio per entrare nel nostro pianeta: “Sa, come uno di quegli alieni parassiti dei romanzi di fantascienza.”
La maggior parte dei preti diventa tale in seguito a un pentimento, per esserci pentimento c’è bisogno di un peccato e la devozione di Padre Gonzales è proporzionale alle sue colpe.
La passione che il prete mette nel prendere a pugni in bocca il tizio con la voce grossa mi rimette in circolo il sangue, mi allarga i polmoni, mi dà la forza di sussurrare un “aiuto”.
“E’ vivo” si meraviglia una donna che cerca di sfilarmi il cappuccio senza allentare la corda che me lo chiude sul collo. Qualcuno più sveglio di lei si accorge che sto per soffocare e prende il suo posto riportandomi alla luce.
“Mi senti?” mi dice.
E’ bianco, ha degli occhiali spessi e quei pochi capelli li ha messi a posto con particolare attenzione: “Come stai, amico?”
“E’ passato da clinicamente morto a tramortito e scosso” dice il tizio con la voce grossa, nero come me lo aspettavo e tumefatto come speravo che fosse: “Non potrebbe stare meglio”.
Da quando il mio udito ha ricominciato a funzionare, ho sentito parlare di celle, sbarre, di rapimento, di trappole, ma quel che vedo non ha nulla a che fare con l’atmosfera da carcere tailandese che mi ero creato nella mente, piuttosto mi aspetto che qualcuno mi dica che, oltre al mal di testa, alla vista appannata e al ronzio nelle orecchie, il narcotico che mi hanno dato potrebbe causarmi delle allucinazioni.
“Ho le allucinazioni?” chiedo.
“No” risponde il nero indicando l’uomo chinato su di me, “è brutto sul serio, anch’io credevo di avere le traveggole quando l’ho visto, ma è reale, so che è difficile da ….”
Il nero si chiama Cuban, lo so perché tutti gli gridano di star zitto chiamandolo per nome.
Mi trovo su un divano Chesterfield, scomodo per un risveglio come il mio, ma l’ideale per bersi un Bourbon come un membro dell’alta società, anche se l’unico essere davvero alto che mi circonda, ha una tonaca, un grosso tatuaggio sul collo ed è in ginocchio a pregare per noi.
Ci sono vasi cinesi con dentro piante rigogliose, una donna grassa vestita da Marylin Monroe se ne prende cura annaffiandole. Ci sono tavoli con scatole di sigari, frigo bar e proprio all’interno dell’immensa stanza in cui mi trovo, una piccola piscina che fa le bolle con uno schermo cinematografico di fronte.
Cuban si specchia nel luccichio abbagliante dei miei occhi e mi ride in faccia: “C’è un cinema e una piscina in ogni stanza, amico, perfino il cesso è grande il doppio di casa mia”.
Mi siedo sul mio culo bianco e massaggio le tempie sperando che la mia testa torni ad avere le solite fitte da stress che mi accompagnano da mesi rimpiazzando questo irritante intronamento da oppiacei.
“Sono a Las Vegas” dico, “mi sono sbronzato con amici e adesso non ricordo più nulla”.
“Già” risponde Cuban mostrandomi con modi poco gentili la donna che ha accanto, “e lei è la sgualdrina che aspetta di essere pagata … e non dimenticare la mancia”.
Poi ride, lui sembra il più divertito di tutti, lì dentro, gli altri invece sembrano piuttosto tormentati.
Padre Gonzales è l’unico che conosco. Mi dà un bicchiere con dentro della roba arancione e mi dice:
“Bevi Marcus, conoscono Las Vegas come fosse la mia parrocchia e non è nel suo stile rinchiudere gente nella suite imperiale e poi ammazzarla, almeno non prima di avergli fatto saldare il conto”.
Bevo e sento il whiskey aggrovigliarmi le budella e spremerle per bene per far gocciolare via la merda di cui si erano impregnate. Mi lascia intorpidito in terra come un barbone all’Hilton. Mi ridona il mio originale pallore roseo.
“Cosa sta succedendo allora?” chiedo.
“Vedi Marc …” mi dice il ragazzino che ho di fronte, appena uscito dalla piscina, ma di colpo mezza faccia gli si apre in due esplodendogli in un carnevale di sangue e frattaglie, prima che possa ripetere il mio nome per intero.
“Però” ride Cuban come se stesse al circo, “non poteva spiegartelo in modo migliore”.
Resto immobile. So che dovrei mettermi in salvo, ma il mio istinto da bradipo mi dice di afferrarmi saldamente ai braccioli della poltrona e fingere di essere una Chesterfield in pelle marrone.
“Non cercare di metterti in salvo, non servirebbe a nulla, non sappiamo ancora da dove arrivano gli spari” mi spiega Cuban, “sappiamo solo che ogni tanto, senza alcun motivo, BUM, qualcuno ci resta secco.”
L’uomo con gli occhiali che mi ha liberato dal sacco che avevo in testa si presenta, dice di chiamarsi Sullivan e di avere prestato servizio nelle forze armate degli Stati Uniti. E’ un luminare dell’Università di Denver e spero che dopo avermi ripetuto a memoria il suo curriculum mi spieghi il modo più rapido che il dipartimento di difesa ha escogitato per fuggire da una casa di lusso con le porte sprangate e le sbarre alle finestre che sta tentando di ucciderti.
Sento uno sparo dietro di me. Marylin grida, fa un balzo in avanti abbracciandosi saldamente a una delle piante, poi strizza gli occhi e ritorna in sé.
“Non devo avere paura” ripete alle foglie con la stessa nenia di un mantra: “Non devo avere paura”.
Il whisky non ha fatto l’effetto che Padre Gonzales sperava, piuttosto è veleno mischiatosi ad altro veleno che mi scuote le budella e mi manda il sangue alla testa. Sverrò ancora qualche minuto, ma stavolta al mio risveglio spero di trovare uno dei soliti sgherri a ripetermi: “Si alzi, non può dormire qui e me ne andrò a casa, dove non ci sono piscine e schermi giganti, dove non ci sono preti e sosia di defunte soubrette che abbracciano vegetali. Certo, me ne andrò a casa, dove altro potrei andare?”

Giovanni 3:8
In pari tempo Cristo libera gli uomini dalla paura della morte. Che cosa è, infatti, che fa della morte «il re degli spaventi»

“Credo ci siano dei fucili termoricettori all’interno della casa, ma non riusciamo a capire dove”.
Ah, non è una frase da sgherro questa, non è neanche una frase da guardia giurata. Quindi non sono dove dovrei essere: su un marciapiede o sul pavimento di un bar.
Apro gli occhi e la prima cosa che vedo è Cuban che mette una mano in bocca al dottore e lo spinge indietro come se stesse aprendo una porta a soffietto: “Funzionano come i missili Thunderbolt usati dall’aviazione militare. In parole povere i proiettili sono attratti dal nostro calore come un’orgia di scapoli in una spiaggia di nudiste lesbiche”.
Il dottor Sullivan parla al gruppo di persone di fronte a lui come se stesse tenendo un seminario alle reclute di Desert Storm,
Cuban traduce senza un briciolo di delicatezza.
“Cerca la spiegazione nei ‘perché’” risponde Padre Gonzales, “non nei quando, non nei dove”.
“Il dove potrebbe salvarci la vita” gli risponde il dottor Sullivan, “il perché credo sia di secondo piano”.
La donna che beve il whiskey rimasto nel mio bicchiere ha il tatuaggio di un vichingo sul braccio. Trema, ma non tanto da sembrare donna quanto le altre che, negli angoli fastosi della splendida abitazione in cui ci troviamo, sperano di essere graziate da quel qualcosa termononsocosa che il dottor Sullivan ci sta spiegando.
“E tu?” mi chiede la ragazza mentre gli altri stanno togliendo il corpo del giovane appena accasciatosi in terra, “dov’eri quando sei stato rapito?”
Non avevo ancora pensato a un rapimento, avevo pensato poco o nulla a dire il vero, non avevo avuto tempo e quel poco che mi era stato concesso dalla lucidità, lo avevo passato a rimanere sgomento, dallo splendore prima, dall’orrore poi.
“Io” continua la ragazza, “stavo scopandomi un cliente alla Riva del Sol”.
Sorride come farebbe un condannato a morte se gli si raccontasse la più spassosa barzelletta esistente prima dell’iniezione letale. Non si sbellica, ma è evidente che non sta piangendo.
“Pensa che avevo deciso di smettere con quel lavoro, pensavo di aver trovato la strada, volevo tornarmene a casa mia”.
Mi si avvicina e mi stringe la mano: “Io mi chiamo Juliet e sono ubriaca”.
Non ricambio il gesto, non le dico il mio nome, lei sa tutto quello che c’è da sapere su di me.
“Tu sei Marcus, non è così? Il musicista. Mi chiedevo che fine avessi fatto.”
E’ da tanto che non mi davano del musicista, mi chiamavano in molti modi ultimamente, ma musicista, quello no. Mi davano del “morto di fame”, del “porco schifoso ridammi le mie mutande”, del “vedi di pagarmi e andartene che questo non è un Motel”, ma del musicista …
Un matrimonio andato male, un contratto andato male, una curva andata male e mi sono ritrovato con una mano difettosa, senza un soldo, un amico e un lavoro. Ecco che fine ho fatto, ma questo non lo dico a Juliet, dico piuttosto che: “Ho preso un po’ di ossigeno, il Jazz odia lo star system, ha bisogno di privacy ogni tanto.”
Mi guarda la mano, si sofferma sulle mie dita instabili, sul loro tremito perpetuo, ma finge di credermi e si versa un altro bicchiere.
“E’ stato il tuo cliente a portarti qui?” le chiedo.
“No” risponde, “quello è stato rapito assieme a me. E’ lì!”.
Indica Cuban che dopo aver aperto una porta, grida di aver trovato un paradiso tropicale: “Ed io che stavo solo cercando un posto dove pisciare” dice.
“Come sono caduta in basso” mi dice Juliet accendendosi una sigaretta: “Mi merito tutto questo”.
La stanza che Cuban ha appena trovato è in verità un Planetarium costruito all’interno di un ortobotanico, con degli alberi maestosi e imperanti che contrastano con le mura della gabbia per esseri umani in cui sono rinchiusi.
Nonostante la morte, nonostante la paura, nessuno di noi può evitare di soffermarsi a guardare quello splendore dimenticando per un attimo tutto. Padre Gonzales chiama a sé ogni anima rimasta viva nella casa e la porta a vedere le stelle e a respirare l’aria amazzonica che degli speciali impianti di areazione hanno diffuso per tutta la sala. All’interno ci sono delle poltrone con lo schienale inclinato. Cuban è già coricato a osservare il cielo mentre timidamente, anche gli altri si uniscono a lui.
Tre di loro vengono raggiunti da una pallottola in testa. Gli altri spaventati stringono i pugni, ma non scostano gli occhi dal viaggio stellare trasmesso sul soffitto, sperano di non essere loro i prossimi e continuano a vivere distogliendo lo sguardo dai loro compagni di sventura freddati sul più bello, sotto le stelle, da fucili nascosti nelle pareti, negli alberi, dietro ai quadri, nelle piccole stelle luminose sopra di loro o chissà dove, nessuno lo sa con certezza.

Giovanni 14:1
«Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!»

Marylin è un’alcolizzata, proprio come me, Juliet una prostituta, Cuban un ladro, un bestemmiatore, Sullivan invece ha costruito armi per il governo, è uno scettico, un fabbricatore di morte. Tutti lì abbiamo qualcosa in comune, siamo relitti senza diporto a cui qualcuno ha promesso la grazia.
Siamo stati rapiti e portati lì per un motivo, Juliet crede che sia così, crede che quello sia la sua condanna per una vita lussuriosa e avida di peccato.
“Io” le confesso, “non ho idea di dove fossi quando sono stato rapito: sono sempre troppo ubriaco per ricordarmi luoghi e momenti, ma doveva essere buio, dovevano esserci donne, fetore di vomito e aperitivi.”
Mi passo una mano sul volto per allentare la tensione sulle guance: “Per quello che ne so, potrei esserci venuto da solo in questo posto, dopo essermi scolato una pinta con il mio rapitore”.
Da un paio di giorni le morti sembrano essere cessate. Gli ultimi due sono stati ammazzati nel sonno circa quarantottore prima nelle loro poltrone sotto le stelle, poi una calma piatta, claustrofobica. Cuban è un bravo cuoco, ha saccheggiato l’intera dispensa trovando cibi e frutti che non credevamo esistessero, ha cucinato per tutti e quelli di noi che non avevano lo stomaco chiuso dalla paura hanno mangiato di gusto e hanno usufruito degl’idromassaggi, delle sale giochi, dell’alcol e del tabacco di prima scelta, dei proiettori ad alta risoluzione e di tutto quello che il nostro carceriere, chiunque esso sia, ci ha messo a disposizione prima di farci fuori.
Padre Gonzales è l’unico che digiuna, l’unico che non vive le sue ore nell’ozio.
Prega e basta, prega e ancora prega e mi chiede di farlo con lui.
“Mi hai fatto una promessa” mi dice, “qualunque sia il motivo per cui siamo qui, questo non ti dovrebbe destare dal pregare”.
Marcus Wein, il Jazzista più amato di New York, aveva tramutato in Jazz la propria vita, l’aveva resa malinconica, cupa con momenti di pura esaltazione. Aveva speso il suo denaro, aveva lasciato la moglie più bella che un uomo potesse desiderare, aveva sniffato neve bianca sulle soffici montagne in pelle di nude modelle minorenni, aveva comprato auto di lusso e con una Jaguar nera si era schiantato contro una casa nei pressi di Babylon Boulevard. Marcus Wein si era risvegliato dopo un lungo coma, dopo qualche mese si era rimesso al piano e aveva notato che la sua mano non rispondeva più ai comandi. Aveva abbandonato i palchi, aveva speso quello che gli era rimasto, aveva bussato alla porta di sedicenti amici che lo avevano liquidato con qualche promessa di aiuto e poi era rimasto solo come un cane randagio. Marcus Wein sarebbe morto se non fosse stato per Padre Gonzales. Lo aveva preso dalla strada, lo aveva portato con sé in una piccola chiesa senza sfarzi e gli aveva spiegato cosa fosse Dio. Marcus Wein non lo aveva compreso pienamente, ma aveva accettato le parole del prete per buone e si era messo a pregare con lui.
Marcus Wein sono io.
Pensavo di aver trovato la strada, pensavo di potercela fare, ma il saliscendi della vita è inaspettato e le porte dei bar sono sempre aperte a tutti, ma per quelli come me sono spalancate.
C’è una sola cosa che ci accomuna tutti oltre al peccato: Padre Gonzales. Ci ha preso per mano dovunque ci trovassimo, raccolti come foglie morte da bettole e angoli di strada.
“Non vi chiedete perché?” domando agli altri che mangiano avocado e salse polinesiane, maiale ai ferri e fritti misti.
“Non è importante, i disegni di Dio sono incomprensibili a volte” risponde Padre Gonzales: “Possono ingabbiare il nostro corpo, ma l’anima, quella no. I perché sono troppo legati alla vita terrena e noi esseri umani non ne avremo mai abbastanza.”
Prende uno dei tre rosari che ha al collo e me lo porge senza troppe pretese: “Si chiama fede”.
Gli punto una forchetta alla giugulare: “Non è Dio ad averci rinchiuso qui dentro, Padre, Dio non organizza sadici Party in ville lussuose”.
Juliet prende il rosario al posto mio e s’inginocchia vicino al prete.
“Guidi lei” gli dice e poi china la testa sulle sue gambe.
Juliet. Quella con Cuban era stata la sua ultima scopata da puttana, aveva conosciuto anche lei Padre Gonzales in un bordello, come avevo fatto io.
Tra una preghiere e l’altra, il prete mi racconta di come abbia girato per bar e bordelli in cerca di anime da salvare, di come era stato difficile convincerle a seguirlo, di come …
Mi agito come una ragazzina alle sue prime mestruazioni: “Ho un mirino sulla testa, vivo costantemente con un mirino puntato in questa cazzo di testa, come posso stare qui senza chiedermi per quale motivo?”
Cuban spunta da dietro l’angolo completamente nudo e con un asciugamano sul collo indossato come fosse una pelliccia di volpe argentata.
“Hey, amico, vuoi che i vicini chiamino gli sbirri?” e poi ride come fa di solito.
Urlo per indispettire tutti e spingerli ad avvicinarsi a me, urlo per sviscerare la paura, urlo perché spero che ci siano davvero dei vicini: “Lei è il perché, Padre, ma è l’inizio. Tutto questo è legato a lei, tutto questo …”
Mi rivolgo alle facce allibite, o spaventate, o qualunque altra emozione la loro mente avesse partorito in quella situazione, e dico loro che dobbiamo smettere di subire passivamente tutto questo.
“E cosa vorresti fare?” mi chiede il dottor Sullivan: “Vuoi uccidere il prete?”
Padre Gonzales non si muove, ma rimane a mani giunte ad ascoltarmi.
“E’ lui l’artefice” urlo, per scacciare quel silenzio che è il contorno migliore per la morte: “Lui!”
Qualche mese prima mi trovavo al Golden Farm. Avevo appena consumato due bottiglie di Champagne, di quelle costose e avevo preso un’Italiana, un’ottima puttana Napoletana che mi aveva fatto a nuovo. Sapevo di non poter pagare il conto, ma sapevo anche di non potermi pagare nulla per i mesi avvenire, neanche un panino, nulla di nulla: e se nella vita cadi così in basso da non poterti pagare neanche un misero pasto l’unica cosa che ti rimane da fare è entrare in un ristorante e ordinare tutto a volontà.
Quando ricevetti il primo colpo di mazza da baseball dai proprietari, speravo mi colpissero in testa con una tale violenza da spaccarmi il cranio. Io sarei morto finalmente e loro sarebbero finiti tutti arrosto su una sedia elettrica o legati a un lettino della morte. Era uno scambio equo alla fine.
Poi arrivò l’angelo custode, il predicatore delle bettole e pagò il conto per me. La prima cosa che mi disse Padre Gonzales quando mi vide fu: “Non è ancora il momento di morire, figlio mio, i tuoi occhi me lo dicono”
I suoi invece, adesso sembrano dirmi addio. Non so come, ma è riuscito ad avvertirmi della sua dipartita proprio un momento prima che un colpo di fucile lo centrasse in fronte lasciandolo coricato a pancia in su con il suo rosario tra le mani. Sapeva di stare per morire, lo sapeva, eppure era rimasto immobile. La sua fede non lo aveva salvato o forse non ho compreso appieno cosa intendesse lui per fede.
Juliet rimane in ginocchio a pregare mentre Cuban se ne esce con un’altra delle sue, forse per sdrammatizzare, forse perché in un modo o nell’altro dobbiamo abituarci a morire senza un perché e godere di quello che ci è stato messo davanti.
“Ora se non altro, sappiamo che non è stato lui e qual è il modo per uscirne vivi” dice Cuban, serio.
“Parla” gli dico.
“Ci servono dei caschi”.
E poi nudo come un cane, ritorna nella sua stanza.

2Re 17:14
Ma essi non vollero dargli ascolto, e irrigidirono il collo, come avevano fatto i loro padri, i quali non ebbero fede nel Signore, nel loro Dio

Il dottor Sullivan, lui si che è un mistero. Non credo sia uno che vada a puttane, non credo neanche che abbia qualcosa a che fare con Padre Gonzales, eppure è appena entrato di soppiatto nella mia stanza e mi ha svegliato mettendosi il dito alla bocca per spingermi a non fare rumore.
“Sullivan, vuole farmi morire per caso?”
“Al contrario” dice, “io so che lei come me vuole comprendere cosa sta succedendo!”
Ogni notte sogno di essere un uccello, leggero mi lascio trascinare dalle correnti e sorvolo le vaste distese verdi sotto di me, puntando sulle scogliere a sud e poi … sbam … un cacciatore mi prende in piena testa e addio sogni di gloria, addio aria pulita e faraglioni.
“Sai cos’è questo?” mi dice mostrandomi un minuscolo portachiavi.
“Un minuscolo portachiavi”, deduco senza giri di pensieri.
Mi ripete ancora una volta di fare silenzio per non svegliare Cuban.
“Ti sei mai chiesto perché le morti avvengono solo in presenza sua?”
“Del portachiavi?”
“No, di Cuban! Il portachiavi è in realtà un puntatore laser, di quelli che si trovano nelle bancarelle indiane”.
Lo afferro e cerco il pulsante, ma il dottore me lo strappa dalle mani: “Cosa diavolo fai? Vuoi farci uccidere tutti e due?”
“Non mi dica. E’ in realtà un’arma letale!”
“No, ti ho detto che è un semplice e innocuo puntatore laser!”
Apre uno dei miei cassetti e ne tira fuori uno identico.
“Tutti noi ne abbiamo uno, ieri non c’erano ma stanotte qualcuno li ha messi nella nostra stanza”
“Pensi sia stato Cuban?”
Non capisco ancora cosa c’entri Cuban con un portachiavi, ma mi alzo dal letto e mi metto comodo per ascoltare la storia che si prospetta davvero interessante.
Sullivan mi chiede di seguirlo ma poi ci ripensa e dice che è meglio sedersi ed entrare in una delle stanze della realtà virtuali, o nella mia, ad ascoltare musica. Così, entriamo nella stanza insonorizzata e mettiamo su Jamie Cullum, piccolo merdoso musicista con ancora le mani buone.
Quando usciamo, io ho ascoltato la storia di Sullivan e non credo a una sola parola, ma mi freno dal premere il pulsante che aziona il laser.
Usciti in corridoio, tutti i superstiti della casa (dodici) ci ritroviamo con un puntatore tra le mani.
Juliet lo accende e il fucsia illumina la fronte di Marylin Monroe che le chiede cosa siano quegli aggeggi e poi, senza neanche il tempo di sistemarsi la criniera, cade in terra colpita da un proiettile, spettinata.
Cuban è all’ultima stanza in fondo: “Addio Marylin, quella pettinatura non porta fortuna!”
Il dottor Sullivan alza le mani e chiede a tutti noi di posare in terra i nostri puntatori laser. Gli altri lo fanno, ma io che conosco la storia, esito un po’ e chiedo allo scienziato di mostrarmi come si fa. Anche lui esita e vedendoci tentennanti, anche gli altri esitano. Adesso siamo in undici, undici galeotti titubanti nel corridoio di un principesco cottage fuori città.
Juliet mi chiede cosa stia succedendo.
“Le armi nascoste per la casa” risponde il dottor Sullivan, “funzionano con dei deck fotoricettori”.
Poi osserva lo sguardo di Cuban che senza proferire parola, gli chiede di spiegarsi come si spiegherebbe un pescatore Irlandese stanco dopo una sbronza con la sua ciurma.
“Sono come dei grossi tori selvatici pronti a incornare chiunque abbia indosso un solo puntino di rosso, ma il rosso in questo caso è il fucsia dei puntatori”.
“E tu?” chiede Cuban: “Come fai a saperlo?”
“Le ho inventate io”
Bravo dottore, sei morto e non lo sai ancora. Bravo cazzone di uno scienziato, ci hai ammazzati tutti.

Ebrei 10.31
Questo timore della morte che accompagna l’uomo per tutta la vita, proietta un’ombra triste sulla esistenza terrena.

Benvenuti a Paradise Hall, recita la placca interna della porta sprangata della sala grande, ma credo che sia una delle poche placche ironiche mai affisse in una dimora regale che di norma è priva di senso dell’umorismo. E’ piuttosto un inferno o la vita così come Dio ce l’ha donata. Il Signore in cui tutti noi abbiamo smesso di credere da tempo, un giorno ha avuto la brillante idea di piazzarci tutti in un pianeta pieno di viziose attrattive e altre avvenenti magnificenze. Ci ha inchiodati al suolo con la gravità, costretti a dipendere da droghe naturali, ossigeno, acqua, cibo. Poi ci ha lasciati senza un perché, padroni del nostro destino e se n’è rimasto a gironzolare nell’ombra con una pistola in mano, sparando in testa a qualcuno ogni tanto e spazzandolo via dal creato.
Paradise Hall è niente di meno che un piccolo creato fatto apposta per noi tutti, che abbiamo dubitato dell’esistenza di Dio o ne abbiamo rifiutato la presenza.
Quando entrai nella piccola chiesa con Padre Gonzales, mi trascinai all’altare come abbagliato da una luce iridescente che mi aveva segnato dal portone principale, per tutta la navata. La luce era in legno intarsiato, era vecchia decenni, era immobile ad attendermi.
“Vuoi suonarlo?” mi chiese il prete.
La luce era un piano Borch, solidi come non ne facevano da tempo, bello e fiero di sé, pieno di cose da dire al mondo. Mi tenni la mano tremante: non ero sicuro che fossi io l’interlocutore adatto.
“No” risposi, “non credo sia il luogo giusto per il Jazz”.
Ma Padre Gonzales mi spinse leggermente una spalla: “Non è Dio ad avere cattivo gusto in ambito musicale, ma i suoi fedeli. Il Jazz fa parte del creato”
Mi sedetti, posai la mano destra sulla tastiera e la guardai, rigogliosa, capace, fiera come era sempre stata. La sua compagna di viaggio invece, era stanca e trascurata ed io avevo percorso assieme a lei la sua buia strada, invece di lasciarmi guidare dall’imponenza dell’arto ancora vivo.
Padre Gonzales cominciò a battere sul legno un sette quarti come un batterista di Harlem. “Abbi fede figlio mio” mi chiese e io lo seguii, suonai Billie Holliday, lo feci malamente, ma fui il primo a suonare uno swing simile in una chiesa, il primo, ancora una volta ero stato un precursore.
Quando tutti a Paradise Hall compresero di avere per le mani la chiave della loro salvezza, non esitarono un attimo ad usarla. Non importava chi avesse colpa o chi meno, pensarono piuttosto che, se era stato uno di noi a uccidere l’altro puntandolo con il laser e attirando sul malcapitato l’attenzione delle armi, l’unico modo per uscirne vivi era quello di rimanere da soli. Fu un uno schiocco di dita, la velocità di una luce fucsia mista a uno sparo. Per prima saltò la testa di Sullivan, poi quella di Cuban e man mano di tutti gli altri, la mia invece era rimasta sul mio collo perché per un momento pensai alle parole di Padre Gonzales che raccolse la mia faccia lacrimante dal piano con il quale ero tornato a suonare.
“Vedi, figliolo, cosa può fare la fede?”
“Vedo padre”
“Sarà un cammino difficile, sarò pronto ad accoglierti solo se riuscirai ad accogliere i miei consigli. Non sono regole, Dio non dà regole, solo consigli”.
“Non so se sono ancora pronto”.
“Non devi esserlo sempre, ma solo al momento opportuno e quel momento arriverà presto”.
Se tutti sparano, tu non sparare, non attirerai l’attenzione su di te, le tue probabilità di sopravvivere potrebbero aumentare. Nessuno meritava di essere lì, nessuno di morire, così per quella esitazione durata un istante, mi ritrovo adesso faccia a faccia con Juliet.
“Non sei tu l’assassino, dimmi che non è così” mi dice: “Ho bisogno di credere in qualcuno”.
Credo che nessuno nella casa lo fosse. Lei ha appena confessato di non esserlo, io invece, non so cosa dire se non un:
“La tua fede non è abbastanza?”
Juliet posa in terra il puntatore e piange, anch’io poso il mio e proprio mentre le accarezzo i capelli, un rumore assordante circonda la casa. Gli scatti continui di lucchetti e serrature ci avvertono che dietro a ognuna di quelle porte c’è la libertà.
Con un piede ne calcio una, fuori c’è un mucchio di gente ad applaudirci, sorridenti, vestiti con un bianco saio, bambini, anziani, ragazzi, tutti felici di vederci nonostante non ci conoscano. Non so dove mi trovo, ma intravedo un paradiso, alberi e muschi, vie ciottolate, cani da passeggio e una Mercedes, qualcos’altro.
Raccolgo Juliet e le dico di guardare.
Una uomo entra ci prende per mano.
Dice: “Benvenuti a Paradise City, dove tutto è possibile, dove ogni vostro desiderio verrà esaudito”
La donna resta con i piedi nudi nel sangue, lascia me e Juliet in terra abbracciati, ci racconta una storia, la storia di un prete che ha messo a disposizione la propria esistenza per la costruzione di una città ideale in cui solo chi è capace di aver fede anche nei momenti più brutti può vivere. Ci parla di Padre Gonzales, quel prete parsimonioso e dei loro giardini. Ci dice qualcosa, qualcosa sulle malattie, sul progresso tecnologico, sulle persone che fanno parte di quel luogo, ci dice che ce l’abbiamo fatta, ci dice qualcosa, qualcos’altro che non so e non saprò mai, perché proprio mentre sta mostrandomi un altro di quei suoi magici sorrisi, io le piazzo il laser in mezzo agli occhi e la guardo sfracellarsi addosso a me e l’ultima puttana della mia vita.
Infondo è quello che farei a Dio se mi si presentasse davanti parlandomi di salvezza dopo avermi fottuto l’esistenza.

Lettera agli Ebrei 2:15

E liberasse tutti quelli che, per il timor della morte, eran per tutta la loro vita soggetti a servitù.

 

Alessandro Cascio – Da: Il decalogo, Il Foglio Edizioni

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