La matematica dell’amore
Uomo e donna sono immagini, suoni, sapori, odori, pensieri, sono un bel vestito, un primo, un secondo, un dessert, un bel film, uno splendido libro aperto, una canzone che amate, una melodia da ascoltare.
Ora immaginate però di indossare sempre lo stesso vestito, ascoltare sempre la stessa canzone, mangiare sempre le stesse pietanze guardando sempre lo stesso film e prima di dormire, leggere sempre lo stesso libro.
Ecco perché i lunghi amori non esistono, perché oltre i confini della sopportazione si è costretti a cedere.
Esiste un rapporto tra anime e tempo, un tasso variabile e matematico, che può farci amare fino alla morte se la distanza tra il primo sguardo degli innamorati e la dipartita rientra nell’equazione, altrimenti si persegue un errore e il risultato finale è destinato a non quadrare mai.
Una volta, in un teatro di Londra, vidi un tizio che con la magia costringeva un mucchio di gente a suonare intonata la musica di Giuseppe Verdi.
“Il ballerino fa schifo” dissi a Carlotta, la ragazza che accompagnavo, “però in compenso la musica è buona”.
“Non è un ballerino, quello” rispose lei che s’era vestita come un tavolino da Tè, tutta agghindata coi merletti e i fiori finti nei capelli: “Quello è Joshua Contràner, il mago della musica classica”.
La gente strabiliata ascoltava ad occhi chiusi e Carlotta, dopo aver sniffato l’aria per sentire l’odore delle note dei violini, mi chiese di provare: “Lasciati trasportare anche tu come gli altri, dall’incantesimo di Verdi”.
Quando Contràner finì, andammo da lui per complimentarci. Per far colpo mi resi protagonista e gli mostrai un mazzo di carte.
“Anch’io me la cavo con la magia, sa, signor Contràner?”
Gli si stupì la faccia per intero, compresi i baffi bianchi che si drizzarono come antenne fino alle gote giallastre.
“Peschi una carta” gli chiesi. Carlotta mi pizzicò i fianchi, qualcuno borbottò, ero abituato al pubblico difficile ma quelli proprio non ne volevano sapere, così mollai. Il mio obbiettivo era solo quello di distrarlo per fregargli la bacchetta magica.
“Non ci credo” si lamentava Carlotta per la strada: “Hai rubato di soppiatto la bacchetta al maestro mentre chiamava la sicurezza”.
Io sapevo benissimo cosa avevo fatto, quando e come lo avevo fatto. Eravamo soltanto noi due ma lei si ostinava a sottolineare l’avvenimento come se sapesse che un giorno l’avrei raccontato a qualcuno omettendo la scena del furto per arrivare alla fine con meno parole possibili, un po’ come fanno certi narratori per certe riviste dalle battute contate.
“Pensaci” dissi, “con questa possiamo far suonare le cose”.
L’avevo rubata perchè m’ero preso la fissa per una ragazza di Parigi. Io non parlavo francese, ma in compenso guardavo francese, baciavo francese, ridevo francese, toccavo e facevo l’amore francese: amavo francese.
“Non ci credo” gridò Carlotta, “stai abbandonandomi alla fermata del bus dopo che ieri al bar mi hai fatto credere che tra noi potesse nascere qualcosa”.
Di nuovo quello strano modo di evidenziare l’evidenza: fossero tutti come Carlotta, si racconterebbero storie con metà parole, gli oratori risparmierebbero fiato e gli scrittori inchiostro.
“Severine” gridai alla terza finestra del palazzo di fronte al quale mi trovai dopo venti minuti a piedi.
Severine si affacciò con gli occhi impastati di sonno e mi disse: “Quelle heure est-il?”
“Io bene, solo un po’ stanco” le risposi, ma non andai per le lunghe, le dissi d’imbracciare la chitarra che le avevo regalato e di poggiare le mani sulle corde.
“Pourquoi devrais-je faire quelque chose aussi stupide?” disse.
“Non preoccuparti dei vicini, a loro piacerà” risposi e lanciai un’occhiata cattiva alla vecchia che aveva borbottato da uno spiraglio aperto in una delle due finestrelle da mansarda.
“Ricordi che ti dissi che un giorno avresti suonato quella chitarra? Sono qui per realizzare i tuoi sogni mon amour!” e aprii le mani inchinandomi sulle anche come un prestigiatore professionista.
Fece come le avevo detto e …
L’indomani mi ritrovai seduto con Carlotta a parlare di quel che era successo allo stesso bar in cui la incontrai.
“Quindi, se ho capito bene, mi stai dicendo che te ne sei stato lì ad agitare la bacchetta mentre lei stonava un tango e alla fine, incazzata, ti ha detto che sei un cretino e ti ha sbattuto la finestra in faccia?”
“Già cazzo, è quello che ti sto dicendo da dieci minuti a questa parte”.
Carlotta era una poetessa, una scrittrice in colonna. Una sera, al mare, puntò il dito all’orizzonte e mi disse: “Amore, osserva il disco solare che si fonde con l’esosfera al calare del giorno sulla linea nord-ovest presso l’Occasa, in primavera”
“Cristo di un Dio” esclamai, “scappiamo via di qui e troviamo un riparo”.
La trascinai per un braccio e lasciò la scia sulla sabbia come una chiocciola.
“Ma no” urlò, “parlavo del tramonto”.
Quel giorno al bar mi guardò a sopracciglio inarcato e fece un sunto della mia richiesta: “Ed ora quindi vorresti che ti riportassi a teatro per parlare con Joshua Contràner”.
Mi voltai, guardai in cielo, a destra e poi a sinistra.
“Insomma” le chiesi: “Si può sapere che problemi hai?”.
L’incantesimo di Joshua funzionò ugualmente sull’orchestra nonostante avessi io la sua bacchetta. Quando gliela riportai, mi scusai con lui per ciò che avevo fatto e gli chiesi dove avessi sbagliato.
Indossò il suo grosso cilindro raso e “la magia” mi rispose mostrandomi le sue mani nude, “non sta in quell’aggeggio, ma …”.
Si diede un colpetto in testa con un dito e continuò: ” … sta qui dentro”.
Quando mi presentai sotto la finestra di Severine, avevo appena seminato gli scagnozzi del maestro Contràner, ma sapevo che di lì a poco mi avrebbero trovato.
“Apri la finestra, muoviti” gridai.
“Quoi veux-tu encore?” si affacciò come se ci fosse tutto il tempo: “Je t’avais dit de ne pas te faire plus voir!”
“Ti scuserai dopo, adesso prendi la tua chitarra, ho una grossa sorpresa per te”.
Indossai la tuba in tapin del maestro e socchiusi gli occhi.
“Dimmi quanto sei pronta, stai per assistere all’incantesimo di Verdi”
“Casse toi, fils de pute”.
E agitando elegante le mani come Contràner le risposi: “Anch’io, mon amour, anch’io”
A. Cascio – La matematica dell’amore