A.Cascio – La stanza (Il racconto)

On 02/07/2018 by alecascio

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Erano da poco passate le due del mattino. Lungo la strada che portava al lungomare lanciavo le pagine strappate dei miei romanzi dal finestrino liberandomi di ogni cosa che potesse ricordare la mia vita passata. Il Southern mi aveva alleggerito la mente dandomi una nuova consapevolezza, c’era la mano di Dio in quel nettare prodigioso che dalla terra alla botte, dal vetro alle labbra, si era insinuato nella mia testa.
Il mio ultimo ricordo è una luce abbagliante, un dolore al costato così forte da farmi sputare sangue e qualcuno che mi spinge fuori dall’abitacolo. Un piacevole odore d’arance mi ha risvegliato e mi sono ritrovato in questa stanza con braccia e gambe legate. Ci ho messo due giorni per riuscire a liberarmi, sfregando le corde sullo spigolo del letto arrugginito.
Nonostante i calci alla porta, le urla, il mio aguzzino sembra disinteressarsi di me e neanche la mia semplice quanto dovuta richiesta di spiegazioni è stata ascoltata. Posso sentire i suoi passi, passi di donna, pesanti e su scarpe dalle suole dure.
“Ha sbagliato persona” cerco di spiegarle, “ne sono certo, non sono né un parente di un politico né un mafioso, non ho un soldo, neanche la mia famiglia ne ha, se vuole far soldi con me ha sbagliato preda”.
Ho impiegato un po’ per capire che non sono solo, preso com’ero a supplicare alle mura ingiallite. Una porta alla mia sinistra mi separa da un’altra vittima, più quieta e silenziosa. Al contrario di quanto è stato concesso a me, lei deve avere una finestra ampia e luminosa, perché posso scorgere la sua ombra quando le passa di fronte. Piange ogni tanto, è il pianto di una ragazza, a volte invece fa avanti e indietro senza pace, rendendomi nervoso.
“Dobbiamo uscire di qui” le dico, “quanto è grande la tua finestra, quanto siamo in alto?”
Non risponde, non lo fa mai, passano i giorni e le notti incuranti che io esista e tutto quell’inutile sbattimento per emergere dal caos della vita mi sembra inutile, avrei dovuto fregarmene del mondo come il mondo ha fatto con me.
L’orologio che mi hanno lasciato al polso è fermo sulle due e tredici minuti, quindi conto le lune, i cali di luminosità che posso scorgere dalle insenature della mia vicina e alla decima luna sento lo strusciare di un foglio sul pavimento: “Sei sveglio?” vi è scritto sul pezzo di carta.
Le dico di sì ma non ottengo alcuna riposta, così prendo anch’io carta e penna e le scrivo tutto ciò che prima le avevo solo gridato disperatamente. Non credo che sia in grado di sentirmi, forse ha la bocca tappata dal nastro adesivo, forse è semplicemente sordomuta perchè percepisco dai pianti, la mobilità delle sue labbra.
“Come ti chiami?” le scrivo: “Sai perché ci hanno rapito?”
Non risponde ma scrive: “Com’è la tua stanza? Come vivi lì dentro?”
Le scrivo che: “Non ho la finestra, c’è poca luce, ci sono delle arance, un’infinità, sono l’unico tocco di colore in un ambiente spoglio”.
Non le rivelo della scrivania in truciolato annerita dal tempo e sbilenca come la mia arte negli ultmi dieci anni. Chi mi ha rapito sapeva chi sono, mi chiedo solo cosa si possa volere da un fallito tanto da togliergli la libertà di fallire ancora.
Mi disegna un viso con un sorriso, come se fosse un gioco: “Devi dirmi qualcosa che mi aiuti a capire” rispondo, “parleremo di noi una volta fuori”.
“Ne so quanto te”, leggo di fretta quel suo corsivo tondeggiante, “la carceriera dice che non uscirai, dice che rimarrai lì per sempre”.
Un attimo di panico mi attraversa le viscere, un coniato di vomito si ferma a mezz’altezza e si quieta. Poi arriva una vacanza finalmente, quella rassegnazione che ti inonda di endorfine e ti fa ridere istericamente.
“Puoi scrivermi se vuoi” un altro foglio di carta mi sfiora la mano mentre me ne sto seduto a guardare il soffitto: “Scrivimi se hai bisogno di aiuto”.
Non le rispondo, non credo di essere nelle condizioni di far amicizia, non ora, non in questa assurda situazione.
“Tu sai chi sono” mi scrive, “lo hai solo scordato”.
Sento un forte profumo di Arpège di Lanvin, mi ricorda qualcuno: ma chi?
Mi alzo in piedi, lascio che i sensi mi diano una mano a ricordare. Eppure io quella fragranza la conosco bene.
“Chi sei?” scrivo in modo quasi illegibile: “Dimmi chi sei”.
“Dovrai scoprirlo da solo” è la risposta.
Inizio ad urlare, il gioco è durato poco ma comunque fin troppo, calcio la sua porta con violenza feroce, pugni e spallate, una vena di follia che non sapevo di avere mi assale e con una rincorsa sfondo la porta e cado in ginocchio. Quando alzo gli occhi non vedo altro che la stessa stanza in cui mi trovavo prima, ma tutto è invertito: due stanze uguali, nessuna ragazza, nessuna finestra e una nuova porta con un foglio di carta arrotolato e infilato a forza nella fessura con su scritto: “Sono qui, ritenta, so che puoi farcela”.

La grassa infermiera si avvicinò a Sofia, quei suoi zoccoli ortopedici creavano dissonanti percussioni sul grigio pavimento dell’ospedale.
“Perché non vai a casa, Sofia?” le chiese: “Penso io a lui, è il mio mestiere”.
“Sa” rispose Sofia, “io credo che possa sentirci, che sia come intrappolato nel sonno”.
Sorrise amaramente, prese un’arancia, fece un solco sulla buccia con un’unghia e la posò sul cuscino. Imbevve un foglio di Arpége e glielo posò sul ventre.
“Amava questo profumo, fu lui a regalarmelo”.
Poi si alzò, mise una mano sulla spalla dell’infermiera e le disse: “So che sono l’unica a credere che possa risvegliarsi, ma sono sua moglie, il mio compito è credere in lui. Non dimentichi di tenere la finestra spalancata al mattino, la luce del giorno e la sua campagna lo rendevano felice.

A.Cascio – La stanza

 

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