La rivincita di Cyril a discapito dell’artista Castroprete

On 23/08/2018 by alecascio

Barbuto e con la pancia in mostra, Cyril se ne andava in giro per i ghetti come un sorcio all’ombra del pattume e sorrideva a chi riusciva a scovarlo mostrando i denti marci e un ghigno deforme che sembrava una smorfia di dolore. Il suo migliore amico cognac, avvolto nella carta di giornale tipica dei bottegai di basso borgo, gli sussurrava di starsene alla larga dalla gente perchè in quel periodo era aggressiva con chiunque si avvicinasse troppo alla zona di confine che stava a un paio di metri scarsi dai loro piedi, questo era il limite che aveva stabilito la massa da quando quel gruppo di avvoltoi che si definivano artisti erano arrivati in città ad elemosinare pane in cambio di scarabocchi.
Dalla Spagna all’Italia, quei piccoli e tarchiati meticci, quasi sempre ubriachi, si erano appostati per le strade, lungo i fiumi, nei vicoli anche, a disegnare la città e la gente che di avere un’immagine eterna non ne aveva mai avuta l’intenzione.
Così la tranquillità era divenuta un lusso in città, sempre a doversi guardare le tasche dagli intrusi che in qualche modo, questo era certo, quei colori e quelle tele se le procuravano e quanto era vero Dio nessuno li aveva mai visti lavorare. Borbottava, una signora, sull’uscio della panetteria raccontava del piccolo italiano che si era appostato di fronte casa sua e che ogni mattina montava cavalletto e arnesi e se ne stava lì tutto il santo giorno con quell’aria tranquilla di chi sta per escogitare qualcosa di losco, di chi osserva per poi agire con freddezza. Allora lei aveva dovuto serrare porte e finestre perchè uscire anche per comprare due baguettes era diventato un pericolo.
Cyril, con la spalla destra appoggiata al muro, si acconciò l’acconciabile e “mi permetta, signora” si unì al discorso, “ma credo di capire la sua situazione”.
La donna mostrò un’espressione disgustata sia da tanto fetore che da tanta maleducazione.
“Sa che ascoltare le conversazioni altrui sarebbe reato in un mondo governato da sua maestà educazione?”
“Quanto urlare lo sarebbe per sua maestà silenzio” rispose Cyril.
La battuta non fu gradita, neanche la sua presenza, ma lui che non aveva mai ricevuto una coccio di gradimento in vita sua, non se ne accorse neanche e allora continuò:
“Credo che questa gentaglia abbia preso troppo sul serio la parola libertà. Libero scambio, libero vagare e noi che stiamo bene come stiamo, che stiamo bene dove siamo, vediamo ogni giorno calpestare le nostre aiuole perché qualche governante ha deciso di aprire a chiunque i nostri giardini”.
Era da tanto che Cyril non veniva scacciato, la prima volta che s’era sentito rispondere “ha ragione, sa”.
Si era ritrovato finalmente a far parte di una conversazione altolocata, che poi la donna fosse moglie di un contadino non aveva granché importanza per chi parlava da solo o con i gatti per una dose abbondante della giornata.
“Cyril, è il mio nome” si presentò e sentì dopo secoli il calore della mano di una donna: “Ambre” così disse di chiamarsi.
“Non voglio rubare il tempo a una gentildonna, ma prima di andarmene si lasci promettere che farò qualcosa per risolvere un problema che da troppo tempo affligge lei e i miei concittadini.”
Formulò la frase come meglio poteva sperando che avesse presa.
Ambre fece un viso fiero e patriottico e si disse incantata da tanto coraggio e senso civico. Ringraziò, nonostante il cattivo odore, nonostante la barba incolta e i vestiti stropicciati del suo interlocutore, ringraziò.
A dire il vero Cyril non aveva mai pensato che gli artisti vagabondi fossero un problema, non un suo problema perlomeno, ma aveva capito che per la prima volta nella sua vita non era più lui l’emarginato, gli occhi della gente erano rivolti altrove, a una rogna ancora peggiore che non aveva le sue sembianze, finalmente. Che splendida, liberatoria sensazione.
Si fece sera e alla bettola di Eugène lui e i suoi compari ubriaconi giocavano a dadi per nulla perché nulla possedevano.
“Ho stretto la mano a una nobildonna oggi pomeriggio” disse Cyril.
“Le hai sfilato via il bracciale?” rise uno dei compari: “Offri da bere allora”.
“No, no” negò con veemenza, “ho fatto un’intera conversazione senza ricevere alcun insulto, anzi, mi ha anche fatto dei complimenti, ha detto che sono coraggioso”.
“Buh!” spuntò da dietro un altro zoticone facendolo sussultare: “Come no, Cyril, sei Riccardo Cuor di Leone”.
Gettò i dadi sul tavolo che svelarono un doppio sei e urlò con voce spezzata che lo avrebbero visto presto frequentare i ricchi salotti o passeggiare con educate donzelle per le vie.
Lo guardarono straniti, poi bevvero un sorso a testa.
“Non ti arrabbiare vecchio imbecille, stiamo solo scherzando” si rivolse a lui Didier, quello che tra gli amici era il meno nemico, “dicci piuttosto qual è il tuo segreto”.
“Perché dovrei” rispose Cyril.
“Perché da solo non sai allacciarti neanche la patta dei pantaloni” rise Didier indicandogli il cavallo dei suoi stracci che stava arieggiando l’uccello e l’intero nido.
Cyril si allacciò la patta e si ricompose, poi rivelò l’arcano.
“Se mi aiuterete” disse, “forse ci sarà posto anche per voi in società”.
L’indomani la signora Ambre aprì le finestre al nuovo sole, ma non le spalancò del tutto fin quando non si accorse che l’italiano s’era spostato altrove. Si sporse, diede un’occhiata a destra e una a sinistra, ma di lui neanche una traccia.
Cyril urlò: “Ambre, le auguro una buona giornata, ogni promessa è debito”.
La donna salutò con garbo e fece capo chino in segno di rispetto.
All’angolo, nascosti, i compari ridevano di lui che si faceva bello con gli aristocratici tenendo il cappello spiegazzato nella mano destra e mostrandone la parte concava per ringraziare.
“Quella vuol essere cavalcata Cyril, chiedile di farti salire in groppa!”
“Stupidi alcolizzati senza cervello” bisbigliò Cyril una volta svoltato l’angolo, “se vi avesse sentito avremmo perso il treno, tutti quanti”.
“A cosa servono i treni se non puoi neanche entrarci dentro almeno per dare un’occhiata?” disse Didier.
Poi tornarono alla bettola, tutti insieme, sfidandosi a dadi prima ancora di impugnarli.
A Montmartre molti si erano trasferiti per liberarsi dal peso delle tasse della grande Parigi, altri semplicemente ci avevano sempre vissuto, si erano seduti comodi nelle loro poltrone di legni intrecciati e i costruttori di Haussmann avevano innalzato attorno a loro case, viali e locande, queste ultime odiate da gran parte dei vecchi abitanti abituati, prima del rinnovamento, alla tranquilla vita di campagna. Così i festaioli come Cyril e i suoi compari erano stati per molto tempo considerati la piaga da debellare, il manifesto dozzinale di un ottimismo esasperato dagli squisiti distillati e dalle promesse di un futuro migliore che ancora stentava a decollare.
Ma almeno loro erano nati e cresciuti in quelle strade o comunque nelle vicinanze: che ne sarebbe stato invece del quieto vivere se si fossero uniti al gruppo anche gli scanzafatiche provenienti dal resto d’Europa?
Il giovane Maurice Utrillo era nato e cresciuto a Rue Lamarck e girovagava tutto il santo giorno per le strade strappando qualche nozione agli artisti e sedendosi con loro su uno sgabello in acero che portava sempre con sé a dipingere bozze di alberi spogli che, sosteneva, erano le uniche cose che sapeva disegnare, in quanto i rami erano molto più interessanti delle foglie perché parevano creature in movimento.
Litrillo, lo chiamavano, per il suo vizio di bere già in tenera età.
Castroprete invece era un ottimo ritrattista e gli suggeriva sempre di imparare tutta l’arte che c’era da imparare:
“Anche le foglie hanno qualcosa da dire, raccontano il vento che altrimenti rimarrebbe invisibile, noi facciamo questo, raccontiamo l’invisibile” diceva al ragazzo che prometteva sempre di provarci presto ma non lo faceva mai.
“Cosa c’è d’invisibile in quella donna che ha appena dipinto?”
“La sua tristezza, proprio qui, vedi, dove il naso si unisce alla fossetta sulla guancia”.
“Non vedo altro che una donna in posa” rispose Litrillo e continuò ad osservare come gli propose il maestro, con più profondità, sempre di più, tanto che quasi cascava.
Un sasso colpì la tela e bucò la triste donna sul petto.
Prima di voltarsi Litrillo esclamò: “Così è magnifica, con un buco al posto del cuore”.
“E’ vero” disse Castroprete, “ora ha un senso”.
Si voltò e chiese all’aria chi mai avesse contribuito a tramutare la sua umile arte in capolavoro.
Cyril e i suoi compari con dei sampietrini tra le mani risposero dal marciapiede opposto: “Potremmo fare lo stesso con la tua testa, vagabondo!”
“Siete artisti?” chiese Castroprete, “perché se così non fosse, dovreste cimentarvi”.
Il gruppo si avvicinò e Horace, il più bifolco tra tutti, lo spinse via come fosse una piuma.
“Non sei gradito, vagabondo, ti abbiamo già avvertito una volta ma tu continui a sfidare la buona sorte”.
Il giovane Litrillo lanciò un cazzotto a Horace ma rimbalzò provocando le risate dei compari che mani alle tasche si ripromisero di ritornare se Castroprete non avesse fatto le valigie per tornarsene a casa. Poi ripresero a passeggiare mani in tasca per le vie, a fare le ronde e a prendersi i complimenti della bella società.
Già, perché nel luogo s’era sparsa voce che avessero preso in mano la situazione, che avessero scacciato tre spagnoli e un italiano dai quartieri dabbene, così Cyril era diventato una specie di paladino e la bettola di Eugéne un ufficio esposti per tutti coloro che come lui odiavano i nuovi invasori che stavano tramutando quel piccolo angolo di quiete in una sorta di teatro all’aperto.
“Cos’hai contro quella gente, Cyril?” chiese Eugéne versandogli un goccio in un bicchiere pulito e togliendo quello sporco: “Da quando sei diventato un uomo per bene?”
Non era né a favore né contro, Eugéne, la sua era una domanda da bettola, Cyril poteva rispondere o meno, non gli avrebbe cambiato la vita.
“Da mai, ma guarda adesso quanto odora questa giacca. Me l’ha cucita apposta la figlia dello scalpellino. E non le avevo chiesto nulla, lo ha fatto per sua volontà, lo giuro su ciò che ho di più prezioso”.
“Che per te è come giurare con le dita incrociate” rispose Didier scoppiando in una risata.
“Non capisci, sei troppo stupido per capire. Non c’è potente al mondo che non abbia sposato una causa, non importa se giusta o sbagliata, importa solo quanto quella causa sia popolare. Ve ne state sempre chiusi in questo posto ma io che girovago tutto il santo giorno ho la possibilità di ascoltare i crucci della gente, di farmi un’idea delle loro priorità”.
Alzò una gamba: “Guarda queste scarpe”.
Poi ancora: “Guada questi pantaloni come calzano”
Aprì la camicia: “Guarda questo ciondolo”
Eugéne glielo strappò dal collo come un ladro e mentre Cyril si grattava per scacciare via il dolore gli disse:
“Un altro di questo e siamo pari col conto del mese”.
Cyril alzò il pugno e gli urlò contro che un giorno avrebbe comprato la sua bettola e ci avrebbe fatto un bordello e lui sarebbe stato una delle puttane. Alla fine andò via.
“La patta, Cyril” indicò Didier, “chiudi quella patta e ricomponiti, puoi anche aver cambiato sartoria, ma sei sempre lo stesso zotico”
Vivevano in case fatiscenti, ammassati in piccoli spazi per pagare meno affitto, eppure non sembravano soffrire poi tanto perché la pittura era il loro comfort più grande. Castroprete e gli amici suoi avevano allestito una piccola bottega con la presunzione di vendere ritratti ai proprietari di quelle facce, di vendere paesaggi ai proprietari di quelle terre.
La donna col buco al posto del cuore era esposta all’entrata, era firmata Castroprete e l’anonimo artista sul fiume, giusto per fare imbestialire la bestia. Si prendevano gioco di Cyril che se non avesse reagito sarebbe stato emarginato dai patrizi e dai plebei, imprigionato in un purgatorio senza possibilità di redenzione.
Di questo parlò Cyril ai borghesi durante una riunione da lui organizzata nella splendida casa di Ambre Le Courbusieur, glissando ovviamente sull’ultimo passo perché per la gente lui era e doveva continuare ad essere un patriota.
“E se dessimo d’assalto alla bottega?” suggerì uno dei presenti ben vestiti, il distinto signor Armand.
“Neanche un bovaro arriverebbe a tanto” rispose la moglie, gentildonna di Grenoble, figlia di figli di produttori di vino pregiato.
“Ma se al bovaro rubassero i buoi per rinchiuderli in un’altra stalla? Sarebbe lecito assaltare la stalla del ladro?” disse Cyril col dito in alto a cadenzare ogni parola.
“Suppongo di sì” disse il gentiluomo che prima s’era opposto, “ma non ci sono i buoi di nessuno in quella bottega, ma solo quadri e cavalletti”.
Cyril si avvicinò ad Ambre e malamente finse di tracciarne i contorni del viso: “E invece vi sbagliate, signori miei. Ci sono le vostre vite rubate in quelle tele, carpite e pitturate, i vostri volti, i vostri costumi, i vostri bambini che giocano per le strade saranno alla mercè di chiunque voglia averli appesi in casa, c’è più di un mucchio di buoi in quella bottega, c’è qualcosa che non ha prezzo e che nessun ladro può rubare eccetto loro, gli unici in grado di sfilarvi l’anima dalle tasche od ovunque la portiate”.
Ambre si coprì il viso.
“Dice che quell’italiano ha la mia anima?”
“Ha tutto di lei, Ambre, ha il suo mattino, i suoi pomeriggi assolata sul davanzale, le sue notti, ha più di lei di quanto nessun altro abbia mai avuto e se ne farà beffa con i suoi compari bestemmiando e sbavando sul suo sbadato decoltè in un lontano attimo di distrazione”.
Il salotto si fece prima silenzioso, poi il vociferare ebbe la meglio e Cyril attese il “è un oltraggio bello e buono” che non tardò ad arrivare dal fondo della stanza.
“E’ quello che dico” rispose Cyril, “e chissà cos’altro nascondono quelle tele che avremmo voluto tenere per noi”.
Poi lasciò i presenti parlottare, indignarsi, si sedette e prese un cognac senza neanche chiedere il permesso alla padrona di casa.
Era facile come rimpinzare i porci.
Quando la bottega degli artisti andò a fuoco, non c’era altra gente oltre i cuoriosi, i bambini eccitati dallo scoppiettio delle travi bruciate e gli artisti stessi.
Poi andò come doveva andare e la carovana seguì il giovane Pablito fino all’Andalusia per cercare rifugio e creatività.
Castroprete non si scompose, prese una tela e dei colori accesi e dipinse quello che diceva sarebbe stato uno dei suoi quadri più belli.
“E’ questo il momento di fare arte?” domandò arrabbiato Litrillo.
“L’arte è ovunque ci sia un atto dell’uomo, più estremo è l’atto più grandiosa sarà l’opera” rispose Castroprete.
Tutto tornò alla normalità a Montmartre, ma la normalità è una malattia che invecchia in fretta organi e pelle, un’energia maligna che squarcia il tempo e ne aumenta l’andatura.
Cyril era prima stato accolto come un eroe, aveva vissuto per un anno intero a contatto con l’alta società e alla fine era stato allontanato perché nessuno voleva alle proprie feste un uomo che vestiva sempre allo stesso modo: che almeno si allacciasse la patta dei pantaloni.
Invecchiato di una ventina d’anni in dieci anni, seduto alla bettola di Eugéne, Cyril sentì di un fervore in Rue Lepic.
Due giovani erano entrati a bere del brandy che lì, si diceva, era migliore che ovunque. Poi si soffermarono su Cyril.
“E’ lui?” bisbigliò uno all’altro.
“A giudicare dal cavallo dei suoi pantaloni…”
Risero e chiesero il conto.
Didier: il ratto nascosto in un cassonetto.
Ecco cos’era diventato.
Se ne lamentava comprimendo il pugno così forte che quasi gli si spezzarono le nocche.
“Cosa c’è che non va?” chiese Cyril.
“Quel piccolo teppista di Litrillo è in città” rispose Didier.
“Ha portato con sé la carovana?”
“Peggio” disse Didier, “peggio”.
In Rue Lepic, Ambre Le Courbusier urlava alla gente di uscire dal museo allestito da Litrillo. L’ormai giovane uomo aveva chiesto ai suoi collaboratori di accompagnarla alla porta e lì era rimasta assieme a un gruppo di conoscenti.
Cyril si precipitò da lei e le chiese se andasse tutto bene.
“Non sono né una ladra né una sporcacciona” urlò.
“Chi lo ha insinuato?”
Indicò il museo aperto a tutti ma non più a lei.
Ambre Le Courbusier aveva il viso tinto di colori a tempera, oli, pastelli, rappresentata egregiamente. Ma gli atti che compiva nelle tele degli artisti non rendevano giustizia alla sua bellezza.
Accanto, Armand il nobile adoratore di ragazzine, era vestito da pinguino e saltellava appresso alle giovani scolare per una via verdeggiante di Ronsard. La moglie nuda faceva il bagno in una botte piena di vino, col naso rosso, il sorriso scanalato e gli occhi sgranati. Poi c’era Horace, il grosso maiale che banchettavano nel retrobottega di un ristorante ed Eugène a versargli da bere in un secchio grigio.
Cyril si aggirava per i corridoi osservando ogni momento della sua vita passata filtrato dall’immaginario di Castroprete e i suoi amici, la metà delle quali estinti.
Un luccichio negli occhi gli fece pensare che il fato era stato benevolo ancora una volta e che forse avrebbe potuto tornare ai fasti di un tempo.
Osservò se stesso ritratto come un ubriacone con la patta sbottonata sull’uscio della bettola di Eugéne. Poi si voltò verso lo specchio. Alle spalle il suo fantasma di colori riflesso proprio accanto alla sua immagine gli diede per la prima volta un odioso senso di vergogna.
“Ambre” disse alla donna in ginocchio, “penserò io a tutto, risolverò ogni cosa come feci dieci anni or sono”.
“Brutto zotico imbecille” rispose quella, “sei stata tu la causa di tutto questo male. Come potrò passeggiare ancora per le vie della città, adesso?”
Cyril cercò di tirarla su, ma ricevette cinque dita come ringraziamento.
L’intera Montmartre era stata ritratta come un festival di tinte e meraviglie, ma la gente invece…
Prese una lastra di legno lasciata lì dai fattorini del museo ed entrò intenzionato a farsi giustizia da solo.
Le orbite rosse, il naso colante, digrignò i denti e…
“Cyril!” urlò uno sconosciuto.
Non fece in tempo a sbraitare contro lo straniero che quello lo abbracciò come fosse un amico d’infanzia.
Tutti nel museo si voltarono a guardarlo.
Si avvicinarono e rumoreggiarono. Una donna accennò un applauso, un giovane la seguì, poi ancora un altro e un altro e si ritrovò incredulo al centro di un teatro improvvisato dove lui soltanto era la stella.
“Cosa succede?” chiese Cyril a Litrillo che si era accostato a lui.
“La tua immagine vale tanti franchi quanto l’intero palazzo dentro il quale è esposto” rispose il giovane.
“E perché mai?”
“Chi può saperlo, il valore dell’arte lo decidono le tasche della gente, non la loro anima”.
Litrillo lo prese per mano e lo accompagnò nella sala grande. Poi lo trascinò in avanti lasciandolo dolcemente come fosse una ballerina.
Cyril rimase immobile sguazzando nell’ovazione.
Il suo sogno era ancora vivo, lo aveva detto che sarebbe diventato qualcuno un giorno e nessuno, mai più nessuno, gli avrebbe chiesto di allacciarsi quella dannata patta difettosa.

A. Cascio – La rivincita di Cyril a discapito dell’artista
Castroprete

1481548717383_1481548783-jpg

Comments are closed.