Blackout
Aperto a quell’ora della sera, la vigilia di Natale. L’insegna lampeggiava a fatica tra i cordoli erosi della gronda in cemento e senza alcuna pretesa ritmava al tempo in cui ritmano i cuori dei ripudiati. Un sonaglio fissato sull’anta della porta d’ingresso col nastro adesivo per imballi, mi ricordò che avevo un impatto seppur minimo sulla realtà che mi circondava e distolse il vecchio proprietario dal film che la sua mente stava proiettando sulla carta da parati color legno antico.
“Siete aperti?” chiesi con un tono di voce adeguato a quella desolazione.
“Io e chi altri?” rispose il vecchio che si mosse incerto sulla sua sedia aspettando che decidessi se essere un cliente o un seccatore.
Mi lasciai l’uscio alle spalle e mi avvicinai al bancone con gli occhi di lui ad accompagnare ogni mio passo fino a che la punta delle mie scarpe non sfiorò il battiscopa. Allora si alzò e tornò al suo posto, poi con un gesto elegante del braccio m’introdusse al parco bottiglie come un presentatore all’apertura del sipario con un rauco “et voilà”.
“Un bourbon” gli dissi, “scelga lei quale” e si adoperò lesto affinchè potessi affogarci dentro il prima possibile. Poi me lo piazzò di fronte facendo tintinnare l’unico cubetto di ghiaccio galleggiante che rimbalzò facendo un giro su se stesso e in breve si assestò.
Tornò di spalle a spolverare i bicchieri aspettando che dicessi una parola, che chiedessi il conto, che me ne andassi al diavolo.
Sembrò ricordare d’un tratto le buone maniere e mi chiese: “Cosa ci fa in un posto del genere a Natale con un bicchiere in mano, se posso immischiarmi nei suoi affari”.
“Sono nuovo di questa città, non conosco molta gente”.
“E la sua famiglia? I regali, le abbuffate, quella roba lì insomma”.
“Non ne ho una, non abbastanza coesa da festeggiare qualcosa”.
Finì di ripulire l’ultimo strato di pulito dal bicchiere lucido che gli faceva da scacciapensieri e si voltò a guardarmi negli occhi. Smosse con uno sbuffo la maschera di barba folta e brizzolata che gli ricopriva quasi interamente il viso e mi disse:
“Mi spiace che questo posto sia l’unico luogo di festa a cui è riuscito a pensare. Mi spiace sempre quando entra qui gente come lei”.
“Se le dispiace tanto, perché rimane aperto?”.
“Nella speranza che non entri nessuno.”
Lesse l’altra mia domanda nel tremore delle mie labbra e rispose prima che potessi porla.
“No, fino ad ora non è mai successo, se è questo che sta per chiedermi”.
La luce fioca degli addobbi nascosti qua e là per il locale sembravano pensati per quel frangente, finchè non mi resi conto di non essere così importante da spingere il mondo a costruirmi attorno una location. Non mi rassegnai al fatto che mi avesse preso per quel che ero in realtà, non accettai di essere stato me stesso fino in fondo e gli dissi che “poi non credo a queste cose. Il bambino nella stalla, la stella cometa, insomma sa a quale fiaba mi riferisco”.
“No, non credo di saperlo” disse.
“Io invece credo che lo sappia, altrimenti non sarebbe qui anche Natale”.
Sorrise: “Io sono qui solo quando ce n’è bisogno, ragazzo”
Si guardò intorno fino a che non scorse quel che cercava, si allontanò fino al mobile riposto nella parte estrema del bancone e tornò subito dopo mostrandomi una candela spenta con ancora lo stoppino immacolato.
“C’è ancora gente che le fabbrica, ci crederebbe? Ma la cosa più assurda è che c’è ancora gente che le compra”
“E allora?” domandai.
“Come allora? Si guardi intorno, elettricità ovunque la desideriamo, lampade di tutte le forme, prese elettriche perfino nei cessi delle stazioni.”
Lo guardai, poi buttai uno sguardo alla candela e decisi che quello non fosse un argomento di discussione adeguato a un bar di quel tipo. Rimasi in silenzio certo che non lo avrebbe troncato facilmente.
“Le voglio solo dire che capita nell’arco della vita che un black out ci porti via tutte le nostre certezze e che questa candela, questa come altre milioni, ci ricorda ch’eppure l’esistenza continua.”
Prese un fiammifero e l’accese. Si avvicinò alla candela scrutandomi attraverso la fiamma e mi disse:
“Questo semplice oggetto è in grado di fermare il mondo per un’ora, un giorno, anche pochi minuti in cui saremo costretti a rimanere con noi stessi o a dialogare con chi ci sta attorno. Ad essere diversi, forse sinceri o forse solo inconsueti, altre straordinari, altre ancora mediocri ma comunque differenti da quel che siamo sempre stati.”
Soffiò svelto sulla candela e guardò il fumo disegnare l’aria con pennellate munchiane fino a svanire.
“Non le dice nulla?”
“Cosa dovrebbe dirmi?”
“Che ogni tanto bisognerebbe spegnere le luci, non importa se per un poppante in una caverna o una strega su una scopa, deve provare a spegnerle, per il suo bene”.
New York balzò un paio di volte dalla terra in cui posava, tremarono le pareti e i lampadari ondeggiarono. Saltai giù dallo sgabello e rimasi in equilibrio sul pavimento a braccia aperte per darmi stabilità. Il vecchio invece tornò a pulire i bicchieri come se niente fosse.
“Dobbiamo uscire di qui” urlai.
“Sa dov’è la porta, ma si ricordi di saldare il conto prima”.
“Non pensi al conto, le dico che dobbiamo fuggire e anche subito”.
“Io invece credo che sia una scusa per non pagare il suo drink!”
“Ma cosa…”
Presi una manciata di dollari dalla tasca e glieli lasciai accanto alla bottiglia di bourbon. Li prese, li contò e mi domandò se volessi il mio resto.
“Non capisce che siamo in pericolo? Potrebbe franare tutto. Usciamo di qui le ho detto”.
Mi porse nuovamente la domanda e sorrise quando gli dissi che poteva tenerseli tutti.
“Dio la benedica, sono tanti soldi, il prossimo lo offre la casa”
Alla terza scossa mi precipitai in strada cercando un posto sicuro nella giungla di cemento che stava per cascarmi sul cranio. La 36esima stava popolandosi di gente spaesata uscita dalla tana agghindata e calorosa in cui si era appartata.
Svoltai l’angolo e vidi un maggiolino giallo brillante immobile in mezzo alla strada. Quando scrutai a debita distanza dai finestrini, intravidi qualcuno, disappannai il vetro e chiesi:
“Tutto bene?”
La ragazza alla guida aveva le mani al petto e fissava di fronte a sé terrorizzata. Non mi guardò neanche, intenta com’era a rimanere salda al sedile. Rispose con la voce tremolante:
“Le sembra che vada tutto bene?”
Mi spostai sul lato del guidatore perché mi sentisse meglio.
“E’ il Natale più…” balbettò, poi riprese dall’inizio: “E’ il Natale più di merda che abbia mai passato”.
“Non preoccuparti, è tutto finito”.
“Come fai a saperlo, sei un sismologo? Sono l’unica ad averne incontrato uno su otto milioni e mezzo di abitanti?”
Lo stesso non si voltò a guardarmi, stava lì impalata come una scultura, parlava ad alta voce perché la tensione non le rendeva possibile modulare a dovere il volume.
“Non sono un sismologo, ma ci sono già passato, questa metropoli è una fortezza, questi palazzi sono solidi, non succederà nulla”.
“Sei un architetto allora”
“Perché non la smetti e non vieni fuori?”
“E tu perché non la smetti di formulare teorie senza avere un dottorato in qualcosa?”
Aprii adagio-adagio la portiera in modo da non spaventarla e mi misi accovacciato sul marciapiede.
“Allora rimarrò qui con te ad aspettare che tutto si sia calmato”.
“Rimani pure, io non mi smuovo”.
“Non credo che quest’auto possa ripararti da un grattacielo se dovesse venir giù”.
“E tu cosa ne sai, sei…”
“Sono un meccanico, sì, ero anche un buon pilota una volta”.
Finalmente ebbe il coraggio di allentare i muscoli del collo e di guardarmi in faccia.
“E’ sempre meglio del tuo cappello, io invece non penso che quello possa salvarti la vita”.
“E tu cosa ne sai, sei forse…”
“Una cappellaia, sì, disegno e cucio cappelli e il tuo è orribile”
Mi tolsi il mio stetson dalla testa e lo rigirai per capire cosa ci fosse che non andava. Mi era anche costato parecchio giù al village.
“E’ buono per cavalcare tori e puledri, ma senza uno di quegli animali tra le gambe sembri un cowboy caduto da sella”.
Erano passati dieci minuti ormai, forse anche meno, il primo sorriso arrivò a fatica ma si dimostrò degno del viso di chi lo mostrava.
“Perché è un Natale di merda?” le chiesi.
“Sono per strada su un’auto a parlare con uno sconosciuto sotto una pioggia di calcestruzzi. Tu cosa pensi?”
Alzai al cielo i palmi delle mani e risposi che neanche un granello di polvere era venuto giù da quei tetti anche se rimaneva il fatto che io fossi uno sconosciuto e che lei fosse ancora in strada dentro la sua auto.
“Torna a casa a festeggiare, cappellaia” le dissi, “non c’è più nulla da temere”
“Non fa per me. Non credo alle favole io, credo che andrò a dormire”.
Tornai in piedi e accompagnai solo un po’ la portiera in modo che potesse chiuderla da sola. Lo feci tanto lentamente che capii quanto non mi andasse di interrompere lì la conoscenza.
“E se invece cenassimo assieme? Neanche io festeggio il Natale, se invece provassimo a farlo una volta soltanto?”
“Io e te? Assieme?”
“Perché no”.
Ci pensò su ma non mi diede una risposta. Chiuse la portiera, alzò il finestrino e mise in moto.
Non partì subito, non partì affatto.
Approfittai dell’unico spiraglio rimasto aperto e le dissi: “Hai una candela in casa?”
Mi fece cenno di salire.
“Certo che ne ho una” rispose, “salta su”.
Aveva ragione il vecchio, se possiedi una candela sei un grado di sognare ancora, anche se non lo sai, anche se credi di essere disincantato.
Passai dalla 36esima un anno e mezzo dopo con Aline. Eravamo appena tornati negli Stati Uniti per una breve vacanza e chiesi al taxi di fermarsi.
“Vorrei salutare un amico, se per te va bene”.
“Che amico? Non me ne hai mai parlato”.
Non lo avevo mai fatto, è vero, eppure avevo sempre attribuito a lui il merito di quell’incontro inaspettato che mi cambiò la vita.
C’era una donna anziana col cane al guinzaglio che borbottava solitaria.
Si avvicinò e mi guardò dritto nelle palle degli occhi.
“Dov’è il tuo cavallo, cowboy? Te lo sei perso?”
“Cercavo un bar”
“Non ne avevo dubbi” ghignò.
“No, volevo solo salutare il tizio che ci lavora dentro”
“Beh, qui non c’è alcun bar né tantomeno tizi che ci lavorano dentro. Ce n’era uno un tempo, ma il vecchio è morto”
Feci cenno con il dito ad Aline che avrei perso un altro minuto.
“Mi spiace davvero. Aveva moglie, figli? Non sapevo molto di lui ma lui forse sapeva qualcosa di me”.
“Non ti prendere pena per loro” disse la vecchia, “dopo quasi trent’anni se ne saranno fatti una ragione”.
AC – Blackout