1994 di A.Cascio

On 09/05/2019 by alecascio

Mi annebbiava la mente il ricordo di quando era tutto diverso, alla mia portata e mi chiedevo se fossi io a vedere il mondo più imbecille di quanto non fosse, se sputare sui cambiamenti fosse frutto del naturale processo d’invecchiamento che ogni essere umano prima o poi deve attraversare.
Era colpa mia, quindi, se i sogni mi sembravano più gracili perché venduti in formato convenienza da banner colorati, se ognuno era stato almeno per un giorno un artista o se non altro applaudito come tale, colpa mia se vedevo donne e uomini come un unico agglomerato indistinguibile, un prodotto perennemente in vetrina, giorno dopo giorno a minor prezzo e gettato nel cesto delle offerte quando qualcun altro riusciva ad accaparrarsi l’attenzione del vetrinista.
Colpa mia se tutti parlavano allo stesso modo, colpa mia se tutti cantavano allo stesso modo.
Così avevo venduto tutto e avevo comprato una casa a due piani sui monti berici e l’avevo arredata come se fosse ancora il 1994. Ogni singolo pezzo, fosse un giradischi o un sopramobile, non era stato prodotto dopo quell’anno, il giorno in cui credevo fosse morta la mia voglia di progresso, quando tutto mi bastava e non desideravo altro. Avevo solo quindici anni allora, ma tanto del passato che non mi apparteneva era ancora vivo, gli anni ’70 si potevano toccare con mano, erano lì, rugosi ma presenti come una nonna in cucina a prepararti i biscotti.
Quando Marie passò a trovarmi, le chiesi di lasciare il ’95 fuori dalla porta, in un cesto apposito, ma il suo look era così immerso nel duemilaequelcheera che non potevo non sentirmi ugualmente a disagio.
Vide un poster di Happy Days ed esclamò: “Io quando ricevo un invito a sorpresa da te dopo due anni di silenzio”.
“Smetti di parlare come un meme, è solo Fonzie con la sua unica espressione”.
“So chi è, ha fatto anche un film horror, sai.”
“Non credo sia ancora uscito, non in questa casa”
“Perché, dove siamo fermi?”
“Nel 1994, il 5 Aprile”.
“Sono una persona semplice, devo scegliere un giorno in cui fermare il tempo e scelgo quello della morte di un cantante. Quindi sarai perennemente al lutto suppongo”.
L’afferro per il mento e le urlo in bocca di smettere di: “… parlare come un cazzo di meme”.
“Sai di fragola” mi dice.
“E’ una mentos, ne vuoi una?”
“Hai anche una 7Up?”
“Solo la lattina vuota, ma dentro posso metterci quel che vuoi”.
“Mettici un sorso del vecchio te, giusto per togliermi il sapore di follia che ho fin da quando sono entrata. Se non ti conoscessi giurerei che hai una collezione di capelli rosa shocking delle tue vittime giù in cantina”.
Marie, tutto per lei era sempre una sorpresa, non la invidiavo ma in cuor mio avrei voluto esserle simile per un mese l’anno per riuscire a vivere senza digrignare i denti, che quasi il giorno prima mi era saltato un molare.
Misi il VHS di Use for Illusion e quelle casse, Dio quelle casse, gracchiavano proprio come dovevano, per dirti: “Amico mio, stai esagerando ed è così che ci piaci”.
Bisogna che qualcuno ti avverta quando superi il limite, altrimenti non nasceranno mai più gloriosi outsider. Mai più.
Chiesi a Marie di aprire le ante del mobile alle sue spalle e di farsi quanto volesse, tanto sapevo bene perché per due anni aveva chiamato insistentemente, tanto da costringermi a tenere la cornetta fuori posto.
“Ce né quanta ne vuoi, fatti di qualunque cosa, non troverai né spice né shaboo, è tutto come lo avevamo lasciato quando il mondo senza senno aveva più senno di quanto ne abbia adesso”
Si precipitò e “bene” disse, “a me quella roba fa schifo”.
Era bello sentirglielo dire, amava ancora qualcosa di genuino.
In una nottata ci sparammo talmente tanta di quell’eroina che mi sembrò di vedere i Rolling Stones seduti sul sofà a masturbarsi di fronte a tanto spettacolo. Si tinse i capelli con una bomboletta Hairstyle Punk e imitò Cindy Lauper con un’interpretazione da Oscar. Ballammo tanta di quella buona musica che di colpo anche lei ammise di essere stufa di adattarsi.
“Ho solo 35 anni” disse in lacrime, “ma mi sento come se ne avessi 70. E’ che…”
La strinsi a me e le tagliai un dito di capelli: “… il mondo è andati avanti troppo velocemente. Non è così?”
Sgranò gli occhi. Era troppo fatta per reagire.
“Non preoccuparti, il tuo mondo si fermerà qui, oggi, nel 1994”
Le piantai una Replay cancellabile nella carotide e l’adagiai sul tappeto ancora morente. Poi scesi in cantina per trovare un posto anche alla sua ciocca.
Il rosa shocking non era affatto il mio colore preferito, preferivo il Blue Charro, ma diedi lo stesso al suo Sun Blond un posto d’onore appendendolo alla locandina di IT, quello vero.

AC – 1994

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