Fino a che avrò respiro

On 26/05/2021 by alecascio

No, non indicano di certo me quei ragazzi giù in strada, ma la sagoma che credono di scorgere dietro la persiana in legno.
Non sono neanche certi che esista, mi credono una leggenda di città, ma ciononostante ogni San Valentino passano da qui, sghignazzano, confabulano e poi si baciano come per farmi un dispetto. Credo che non sappiano neanche il mio vero nome.
“Lo sanno, Irine?”
Le ho sempre detto di lasciare la spesa sulle scale, per non scomodarsi, ma come tutte le donne rumene è cocciuta e si presenta in casa mia due volte a settimana con un sorriso e una quarta di seno prepotente.
“Il professore senza cuore, non è così che si chiama?”
Ride nonostante riceva una miseria per svolgere un lavoro miserevole per un uomo misero.
“Via, lo sai di che parlo. Dico: il mio vero nome, lo conoscono?”
Romeo Brown: mai nome fu più mal riposto.
“Forse hanno voluto dimenticarlo e non li biasimo.”
L’amore è una malattia mentale diceva Platone e su questa frase ho basato la mia intera vita di studi. Non mi fu riconosciuto il Premio Grawemeyer per un pelo. Se solo ci fossero state meno donne in commissione, meno credenti e meno idealisti, se il Times mi avesse evitato il primo posto tra gli scienziati più impopolari, oggi potrei passare le giornate passeggiando per i parchi del globo e prendendomi gioco di ogni soggetto colpito da sindrome da dipendenza affettiva. Comprerei un attico a Paris e farei della Francia un campione statistico e di Via col vento un libro di testo.
E invece sono qui, dietro una persiana, scimmiottato da squilibrati e da una domestica che pensa, oltre a servire: “Non penso che lei abbia l’età giusta per sognare. Non penso che abbia neanche i giusti sogni.”
Si avvicina e mi bacia sulla guancia pressandola così forte da spostarmi la dentiera.
“E’ quando non puoi più avverarli, che i sogni acquistano il vero valore, Irine!”
Ma di che parlo? Di sogni con una che pensa che amare sia lo scopo dell’esistenza? Come dire a un malato terminale, che è il cancro che gli divora i polmoni, il fine che l’atto respiratorio si prefigge. “Dico che se il sogno di uno solo è talmente assurdo da cancellarne milioni, non è degno di essere avverato, Professore.”
Mi prende una mano e la passa sulla scollatura.
Mi dice che ha caldo, palese squilibrio, data la nevicata in corso. Pressione alta ed eccessiva sudorazione, aumento del battito cardiaco e smodati stati ansiosi, sono solo alcune caratteristiche base di ciò che il nostro sistema innesca durante l’innamoramento. Aggiungiamo inappetenza, insonnia, nausea, dipendenza e maniacalità, fino alle modalità innaturali di castità e rinuncia, reazioni estreme e azioni autodistruttive. Quale altro fardello deve inventarsi una malattia per essere considerata tale? Il cuore sembra uscirmi dal petto e l’istinto biologico sorpassa nuovamente l’intelletto che può vantare, nella sconfitta, una vittoria: quella di aver scoperto che l’amore è una malattia sessualmente trasmissibile. In barba al Grawmeyer e all’idealismo.
“Lei ha immense doti, Professor Romeo Brown” mi disse il rettore della Rutgers University, “è ancora convinto che valga la pena sprecarle in queste impopolari ricerche?”
Avevo dieci anni in meno e nonostante la mia fragile stazza, affrontavo gli sguardi dei sommi a testa alta.
“Fino a che avrò respiro” risposi e i busti in gesso dai tratti marcati di Freud e Jung posti alle due estremità della sala, sembrarono richiedere al cielo le mani, per un istante che bastasse a riconoscermi l’approvazione dovuta con un applauso. Mi incamminai verso l’uscita che il rettore sbarrò con un’ultima domanda.
“Come sta sua moglie, Professore?”
“Morirà a breve” rispondo, “è già nella casa di sua madre e morirà a breve”.

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