Alessandro Cascio – Tre candele (Romanzo integrale)

On 27/05/2021 by alecascio

Alessandro Cascio
Tre candele
1.

Il Sole aveva da un pezzo portato con sé il giorno e aveva lasciato un lume acceso a dare vista ai ciechi, a schiarire il cielo durante la sua assenza per quei piccoli uomini che la notte hanno paura del buio. Era Settembre, faceva caldo, un caldo che ti seccava la gola e ti portava a pregare che l’Autunno venisse a dissetarla. Tutti a casa Mondeau dormivano già da qualche ora: l’indomani sarebbe stato giorno di vendemmia e bisognava essere in forze per affrontare una giornata di duro lavoro. La finestra era aperta e si sentiva il tremolio del vetro a ogni soffio di vento e poi, per tutta la casa, solo il ronfo strozzato del nonno che russava quasi fosse un trombone impolverato che non suonava da anni.

Il comodino dove il vecchio teneva il suo rosario e il coltello da lavoro, stava accanto al letto, di fronte alla porta d’entrata, proprio a un passo dalla finestra.
Lì, su quel mobile in legno, tre candele guardavano la Luna: e la Luna la si guarda per amore o per odio, per gioia o tristezza, per invidia o umiltà.
Mezzatacca si chiamava così perché era la più consumata delle tre candele. La piccola Eirhnh la portò a casa, circa dieci giorni prima, di ritorno dal mercato giù in paese, per fare un regalo al nonno che compiva i sessant’anni. Era una grossa candela con la scritta d’auguri tutta intorno prima di diventare la più corta e la più vecchia delle tre candele.
Duetacche aveva preso il nome dai segni che il vecchio agricoltore le aveva intagliato per capire quando la luce dovesse cessare per dare spazio ai sogni.
Senzatacca era invece la più giovane, l’unica candela mai accesa da nonno Mondeau.
“Guardate, oggi la Luna ci ha regalato il tuttotondo”, disse Mezzatacca osservando il cielo: “Avevo già visto questo meraviglioso spettacolo, ma è sempre come se fosse la prima volta”.
“Non l’avevo mai vista così luminosa”, si meravigliò Senzatacca che mai aveva visto la Luna piena.
“E’ la sua luce a dare occhi a chi non li ha, a trasformare il tetro vuoto del buio in un bellissimo gioco d’immagini incomplete alle quali la tua fantasia può dare pienezza. E quelle stelle, poi, sembrano quasi ancelle della regina a corte. Quanto vorrei essere come lei…”.
Le parole di Mezzatacca erano dolci e aggraziate, ma nascondevano una sottile invidia, coperta però da immensi strati d’ammirazione che rendevano quell’invidia meno peccaminosa.
Duetacche, la candela che aveva il fuoco in sé più di qualunque altra candela, interruppe presto l’incanto.
“Perché non smettete di gettar via i vostri versi per una falsa regina? Non vedete che non è altro che un grosso cumulo di falsità e superbia che prende in giro i giovani cuori e ruba la luce a chi la porta davvero dentro?”
Poi si avvicinò alla più giovane delle tre candele e le disse col suo solito tono convinto e ardente di una inspiegabile rabbia: “Tu sei come lei, Senzatacca, tutti noi siamo come lei, anzi di più. Noi non inganniamo nessuno con la nostra fiamma luminosa e chiediamo solo una piccola scintilla alla pietra di zolfo, per aiutare l’uomo a vedere dove cammina mentre sogna all’ombra della Luna. Diamo forma alle cose che, quando il Sole va a riposo, perdono angolo, linea e rotondità.”
La piccola candela ascoltò meravigliata e indietreggiò all’impetuosità delle parole del giovane amico: “Credi alla forza della tua fiamma, più sincera di quella Luna che un giorno è tonda e lucente e lascia un’aura che sfida ogni sguardo a non brillare e un altro, invece, scompare nel nulla senza lasciare traccia se non nel suo ricordo, proprio come un amore che illude un debole cuore e poi lo ferisce fuggendo.
Credi alla forza della tua fiamma, Senzatacca, più sincera di quella Luna che non fa altro che nascondersi dietro a quel buio che prima combatte e poi usa come rifugio”.
“E da chi si nasconde?” chiese la piccola Senzatacca.
Sorrise, Duetacche, e poi guardò il cielo gridando come se la Luna lo potesse sentire: “Da quei mille occhi che la osservano, la amano, la ammirano, quegli stessi occhi che un giorno scopriranno che è solo una ladra di luce e di sogni e muteranno in loro ogni sentimento d’amore odiandola per la sua superbia. Per questo quella tua amata Luna si nasconde: per vergogna.”
Così rispose Duetacche, a cercare di levare ogni stralcio di semplicità dalla piccola ingenua Senzatacca.
“La superbia è la tua, insolente candela che priva dei sogni chi ancora riesce a sognare e cerca di conquistare valore togliendolo a ciò che ha attorno” rintronò la voce del vecchio Mezzatacca.
Il buio cela o protegge, tutto dipende da chi nel buio dimora, così come la luce non svela e non nuoce, se non hai qualcosa da nascondere o qualcosa da cui fuggire.
“Fai silenzio, vecchio sognatore morente, che nei tuoi sogni si scioglierà la tua cera, fai parlare una buona volta chi sa di avere valore e vuole gridarlo al mondo”, spuntò dal nulla una vocina sghignazzante che d’un tratto si fece chiaro di chi fosse: era la pietra di zolfo.
Si avvicinò con aria quasi indifferente e si rivolse alle candele che stavano discutendo animosamente.
“Non ho potuto fare a meno di ascoltare i vostri discorsi e vi dirò che ammiro ogni parola che il mio impetuoso amico Duetacche ha sfornato dalla sua saggia bocca. Io sto sempre dalla parte dei vincenti. Una scintilla per dimostrare il tuo valore?”, si chinò cortese la pietra al cospetto della focosa candela.
Duetacche esitò per un attimo di fronte alla proposta.
“Allora?” domandò la pietra, “perché non dai un assaggio alla giovane Senzatacca del potere della tua fiamma?” e poi, con la furba retorica di chi sa di potere ottenere ciò che vuole continuò: “Perché tu sai qual è il suo potere, o devo supporre che lo hai già dimenticato?”
Volò alla finestra un piccolo passero nottambulo, osservò disinteressato il gioco di luce e ombre e pulitosi il becco sulle ante di ottone, decise di tornare al nido e rimandare all’alba la vita lasciando la notte a chi non sa cosa farsene del giorno.
“Offrimi una scintilla e darò anche a te una forma più chiara”, rispose con fierezza Duetacche.
E così fu: una scintilla, una fiamma, una luce e tutto attorno prese forma come per incanto.
Un grido d’onnipotenza uscì dalla bocca dell’adesso luccicante Duetacche: “E ora dimmi, Senzatacca, chi è il migliore, quella Luna che tanto sognavi o chi vedi al tuo cospetto?”
La candela che dalla Luna distolse lo sguardo, senza esitare rispose:
“Hai ragione, Duetacche, adesso che vedo la forza della tua luce, provo rabbia per aver creduto di essere nulla di fronte alla Luna”.
“Anche tu, se vuoi, puoi partecipare alla grande festa dell’onnipotenza, basta un tuo cenno ed io ti accontenterò”, invitò con modi cortesi la pietra di zolfo.
“E fuoco sia, gentile pietra” disse Senzatacca.
“E fuoco sia valorosa candela” disse la pietra accompagnando la sua scintilla con danze e risate.
E fu subito luce, una luce così intensa che nella stanza si presentò come un nuovo giorno.
“Chi guarderà più la Luna adesso?” disse Duetacche: “Guarda quanta luce con le nostre fiamme. Sei convinta adesso, scettica candela vecchia e stupida, di quanto immenso sia il nostro potere? Tu stai pure lì a farci da serva, Mezzatacca, e adora i tuoi due re dal basso del tuo scetticismo”.
Poi elevò al cielo una risata intensa che fu subito coperta dal martellante sogghigno della pietra di zolfo.
“Cosa intendi farmi capire con quel tuo ghigno?” chiese il tanto curioso quanto infastidito Duetacche: “Ridi di tanta onnipotenza scordandoti che questa illumina anche te? Piangi per la tua inutilità piuttosto, ti renderebbe più dignitosa”.
“Offendi pure” ribatté la pietra, “lo spettacolo al quale sto assistendo leva ogni dubbio su chi è inutile e chi non lo è. Ma guardatevi, candele ingorde di potere, ve ne state lì a credervi chissà chi mentre pian piano andate scomparendo tra le gocce della vostra incoscienza”.
Le due candele videro ai loro piedi un lago di cera coprire il piattino di ceramica che faceva da portacandele. Ebbero paura per la loro vita, paura per la loro dignità, paura per non aver dato all’esistenza il giusto valore, paura per la sopraggiunta consapevolezza di aver commesso un errore insanabile.
“Solo la Luna che avete tanto disprezzato può salvarvi. Sperate che vada via presto, che il vecchio contadino si svegli e si accorga di voi e con un soffio vi salvi la vita” disse la pietra scomparendo in uno di quegli angoli bui che ancora c’erano nonostante la luce delle candele e congedandosi con un “sempre a vostro servizio” che sapeva più di beffa che di cortesia.
E Mezzatacca? Lui aveva assistito quasi in silenzio a ogni insulto e a ogni errore, lasciando alle parole e ai fatti, unici attendibili maestri, il compito di insegnare.
“Cosa avete fatto, povere illuse?” disse tristemente assorta nei pensieri di chi sa ma, ciononostante, deve silenziosamente guardare gli altri commettere errori: “Eccovi in ginocchio di fronte alla Luna, quella Luna che è proprio come voi e come voi è d’aiuto alla gente che sa guardarla. Stupidi che siete! Mentre cercavate di trovare voi stessi cercando una luce che non potevate avere, non vi siete accorti neanche un momento che quella stessa luce stava già spuntando da dietro le colline”.
Ma il pianto delle due candele era cessato ormai da un pezzo e con quel pianto era svanita anche la loro luce, lasciando solo una sottile linea di fumo a ricordare che non tutti gli sbagli sono maestri.
Passò qualche minuto e il vecchio si svegliò al canto del gallo, indossò i suoi pantaloni, la sua canottiera sporca del mosto del giorno prima e le scarpe infangate. Ringraziò il Signore per avergli donato un nuovo giorno e un nuovo Sole a illuminare la sua giornata, prese in mano il coltello da lavoro sporco di cera e uscì sbattendo la porta, facendo dondolare un foglio d’argilla dipinto a mano con su scritte le parole di un vecchia poetessa russa:
“La felicità è saper guardare il Mare senza volerlo attraversare,
saper guardare il Cielo senza volerlo esplorare,
saper guardare la Luna senza volerla toccare”.

*****

Uno schiaffo risuonò per tutta la stanza e la piccola Eirhnh, che se ne stava nascosta in un angolo, cadde a terra in pianto.
“Stavi parlando con quelle candele? Sei stata tutta la notte a parlare con le candele mentre il nonno dormiva, non è così?”, le gridò la madre subito interrotta dal marito che cercò di calmarla e la invitò a uscire dalla stanza. Ma la donna finse di non sentire, afferrò Eirhnh per un braccio e la scosse come si scuotono i panni presi da polvere, come se volesse liberarla da uno sporco difficile da venir via.
“Parlerò io con lei, tu scendi ad aiutare tuo padre” insistette Robert strappandole la piccola dalle mani.
Quando la donna, tornata in sé, uscì dalla stanza, Robert guardò la figlia e chiese col suo solito tono quieto: “Allora, cosa dicevi di bello alle candele?”
Quella con voce tremante rispose: “Io niente, erano loro a parlare, io sono rimasta qui ad ascoltare, non ho detto nulla, lo giuro”.
L’uomo tese la sua grossa mano alla piccola impaurita e le disse: “Scendiamo, andiamo ad aiutare il nonno e a raccogliere un po’ della sua uva”.
Eirhnh si alzò, saltò in braccio al padre e insieme si avviarono verso la campagna passando per il lungo corridoio colmo delle rose rosse raccolte dai floridi giardini di Abhik.

 

2.
Ciao mia piccola Eirhnh,
da quel che mi ha raccontato la mamma dovresti essere in grado di leggere da sola le mie lettere ormai, visto che la Signorina De Ville ti ha insegnato a leggere e scrivere e tu, da brava hai imparato: sei sempre stata una bambina piena di voglia di conoscere, proprio come lo ero io alla tua età.
Anche quest’anno non verrò per Natale, ma non preoccuparti non mancherò al mio appuntamento, ho detto a Babbo Natale di portarti un regalo anche da parte mia. Di solito lui non fa trattamenti di favore ma ha detto che per me farà uno strappo alla regola visto che qui c’è la guerra e c’è un gran bisogno che io rimanga con questa gente ancora un po’.
Ci sono molte persone che soffrono, mia piccola luna, e il tuo papà ha il compito di far sapere al mondo che questa sofferenza esiste e ha bisogno di essere cancellata una volta per tutte. So che capirai, ho sempre parlato con te come a una persona adulta e tu hai sempre capito le mie parole più di chiunque altro.
Ho fatto di tutto per far sì che questa lettera ti arrivasse il giorno di Natale e se stai leggendomi, i miei amici e le persone fidate a cui ho lasciato in custodia le mie parole, avranno fatto il loro dovere. Qui la gente non ha un pasto caldo, un albero e dei regali da scambiarsi, alcuni di loro non hanno neppure una casa e nonostante sia sotto gli occhi di tutti, al mondo sembra non importare nulla. Perciò siamo qui, mia piccola luna.
Un giorno ti spiegherò meglio cos’è la guerra se solo riuscirò a capirla anch’io.
So che reciterai la poesia di Natale che ti hanno fatto scrivere in parrocchia e che la leggerai a tutti, finita la cena, prima di aprire i regali.
La mia poetessa …
Un giorno il mondo si accorgerà di te, credimi. Continua a recitare e a scrivere e fallo senza curarti degli altri.
Ricordo che da piccolo suonavo il piano e ogni anno la vigilia di Natale per me era un’occasione per mostrare ai parenti il mio talento. Ricordo che mi sedevo al piano a muro del nonno e iniziavo a dare vita alle sonatine di Mozart che tanto piacevano alla nonna: la mia esibizione era per loro motivo d’orgoglio e anch’io ero orgoglioso di regalare loro un sorriso autentico. Ma un artista, piccola mia, non è un artista se non crea e per me la parola “creare” non voleva dire “riprodurre” per quanto il mio maestro mi spiegasse che l’interpretazione fosse un modo per rimodellare ciò che già esiste ma è rimasto sospeso. Ma queste erano convinzioni sue, non mie. Se non capisci la musica, pensa a essa come se fosse scrivere: anche in Mozart ci sono punti, virgole e accenti. Metti giù la prima parola e poi le altre vengono da sole: prima una parola, poi una frase e poi una storia. Io la mia storia la raccontai un anno dopo, quando i Signori Shelley vennero dall’Inghilterra.
Quell’ anno sarebbe stato l’anno della mia storia e non di quella di un qualsiasi prodigioso Mr Pianoforte del settecento. A ogni parola un suono, a ogni punto una pausa, era proprio come ripetere una poesia, era facile, ma quando smisi restai colpito dalle loro facce desiderose delle mie solite esibizioni e quella del sempre attento Mr Shelley che disse: “Impara a suonare prima la musica degli altri e poi dilettati a comporre” e poi andò via, dal suo agnello arrosto, più importante dell’impegno di un bambino. Pensai di aver dato un grosso dispiacere ai tuoi nonni, piccola luna, e per un anno suonai poco. Non amavo più il piano come prima, ma non smisi del tutto.
L’anno dopo fu un nuovo 25 Dicembre ed io mi risedetti al piano mentre i Signori Shelley ormai diventati i nostri vicini, erano un’altra volta lì ad ascoltarmi.
“Allora, cosa ci suonerai quest’anno, Robert?” mi chiese il severo Signor Shelley. Rimasi in silenzio a pensare e poi dissi con un filo di voce: “Una sonata di Andries Duisenberg” e mi zittii nuovamente non dicendo altro che un Re e un Mi che non uscirono dalla mia bocca ma furono comunque le prime due parole della mia poesia.
Non appena finii di suonare le ultime note, restai di ghiaccio con le mani sulla tastiera prolungando il riverbero più del dovuto. Ero spaventato, ma poi arrivò un: “Bravo figliolo, così piccolo e già suoni Duisenberg, complimenti … e adesso tutti ad aprire i regali”.
Quello fu uno dei Natali più felici che avessi mai passato, perché nessuno, nemmeno nonno Van Lippe , che tanto sapiente e saggio sembrava, si accorse che in realtà Jean Duisenberg ero io. Già, mia piccola luna, e non si accorsero neanche che la sonata era la stessa identica sonata dell’anno prima, con qualche parola in più che avevo imparato durante il percorso.
Ancora oggi se ci penso comprendo quanto difficile sia imporsi e quanto non sempre la gente con cui vogliamo comunicare è quella adatta alla nostra comunicazione. Tu scegli bene le tue parole ma soprattutto scegli bene a chi rivolgerle e se proprio non vogliono ascoltarti, fingi che le tue parole non siano tue, così da metterli alla prova.
La tua poesia me la reciterai al mio ritorno e ascolterò ogni tua strofa per Gesù Bambino. La mamma mi ha già anticipato che è bellissima.
C’è un vecchio qui che dice di non avere nome. Lui recita poesie ma non le scrive, le inventa sul momento. Dice che la poesia più bella è quella che non scritta, dice che, di quella poesia, nessuno riesce a carpirne le parole. Non credo di aver capito bene cosa intenda, ma forse parla della vita o di quell’attimo di vita che cambia le cose per sempre, un solo istante di poesia per non tornare mai più lo stesso.
Guardati intorno, voglio che tu quella poesia riesca a scorgerla e a recitarla, proprio come fa il vecchio senza nome. So anche che per ora sei triste, ma non ridere se non ti va, se sei triste cerca di capire perché lo sei e quando capirai cerca di trovare le forze necessarie per far si che sul tuo viso torni ad albeggiare il sorriso.
Una volta Abhik vide un breve scritto sul sorriso di un vecchio autore, affisso al muro. Secondo quello ridere era un obbligo, la felicità era un omaggio a Dio per la vita donataci.
Abhik, il buon vecchio Abhik … spero sia li accanto a te adesso.
Ricordo che quel giorno mi guardò e disse: “Non ridere mai per far piacere agli altri, Robert, mancheresti di rispetto a te stesso e a chi ti circonda”.
La mamma è preoccupata per la tua tristezza ma io no, so che saprai ridere quando ne avrai voglia, saprai sollevare un mondo quando ne avrai voglia. Io verrò presto e se ci andrà rideremo insieme come abbiamo sempre fatto.
Ti voglio bene mia piccola Eirhnh, ti voglio bene mia piccola luna.
Papà.

 

3.

C’era un calamaio e dell’inchiostro in boccetta sigillato.

Un Abat-jour art déco illuminava dei fogli accartocciati s’una scrivania in legno scalfita con nomi e disegni da generazioni di scribacchini e scolari annoiati. Una mano dal movimento nervoso rovistava dentro un contenitore di plastica pieno di frutta fluttuante in acqua gelata. C’erano piume d’uccello sul portapenne e sui vestiti della ragazza che nervosamente si alzò dalla sedia, prese il telefono, compose un numero e attese una risposta.
“Albert Hotel?” chiese, “mi chiamo Allan e non ho ancora ricevuto nessun invito per quel concorso”.
Fece silenzio. Masticò un’altra fragola e a bocca piena continuò:
“Lo so che ho già telefonato, ma non vorrei che ci fossero stati dei problemi. Per me questo concorso è importante, non può dire ai suoi colleghi di appuntare il mio indirizzo in caso …”.
Woman is the nigger of the world, cantava John Lennon compresso nella minuscola cassa di una radiosveglia in FM, bianca come il nulla prima della creazione.
“Sì, è quello giusto” disse, “se lo avete perché non ho ancora ricevuto risposta? Sì. Ok, aspetterò.”
Tornò alla scrivania. Alcuni dei frutti erano marci, prese quindi uno dei tanti fogli bianchi ammassati in un angolo e adagiò una ad una le fragole divenute violacee. Giocò un po’ col loro cuore deteriorato facendone scivolare il succo sui solchi dello scrittoio. Sì creò un rigagnolo che s’incamminò verso l’estremità del mobile unto e attaccaticcio. Col dito impregnato prese rapidamente una vecchia e malridotta cartolina dello Sri Lanka e riuscì a fermare le gocce sfuggite al controllo delle correnti del minuscolo canale e gettatesi nel vuoto come le acque di una cascata.
Accese una candela profumata, piccola e quasi ridotta all’osso. Sarebbe durata poco, quindi ne prese un’altra dal cassetto e l’accese dopo averla posta s’un portacandele in ceramica.
Rimase immobile un attimo, presa da un’idea che aspettò che si schiarisse nella sua mente.
Non si pulì neanche le mani, prese una biro dal portapenne e si apprestò a scrivere.

 

4.
Natshua Gorenjske sorrise, il suo sorriso era tenue come la sua voce eppure si mostrava imperioso come il silenzio dei saggi. Guardò il pubblico e disse finalmente il nome: “Allan Shovinskij”.
Subito dopo cominciò il battito di mani che riempì tutta la sala convegni dell’Albert Hotel di Earl’s Court, dove ogni anno si svolgeva il consueto concorso di poesia e letteratura “Queen Victoria”.
Anche Eirhnh applaudì con entusiasmo, nonostante non avesse vinto quel premio che le avrebbe finalmente permesso di pubblicare il suo racconto. Quella storia di poche righe che la scrittrice slovena aveva appena letto, così semplice eppure così piena d’insegnamenti, l’aveva colpita tanto da portarla a pensare che in fondo avesse vinto chi davvero lo meritava.
Lei avrebbe ritentato.
“Allan Shovinskij! Può alzarsi e venire a ritirare la sua targa” disse la Gorenjske cessati gli applausi, ma nessuno accennava un movimento, erano tutti immobili ad aspettare che qualcuno tra loro venisse illuminato dall’ipotetico faro del successo e per questo avevano svigorito l’intensità della propria luce (quella eterna che soggiorna nello spirito della gioventù sognatrice) perché quella di Allan Shovinskij spiccasse su tutte, com’era giusto che fosse.
“Allora? C’è nessuno con questo nome in sala?” continuò la scrittrice, quasi disturbata, “se non si presenterà il premio andrà a qualcun altro”.
Nonostante l’avvertimento, nessuno si alzò, non vi fu nessun sussulto, nessun accenno di gioia, nessun bagliore improvviso, piuttosto il silenzio soggiogò ogni possibile entusiasmo portando con sé un inspiegabile imbarazzo.
Eirhnh cominciò a guardarsi intorno e vide che tutti gli occhi erano puntati su di lei. Sentendosi osservata, prese la borsa e l’abbracciò per ripararsi dalla vergogna che la stava spogliando di fronte a dei perfetti sconosciuti.
“Tutti guardano te” le disse la ragazza seduta di fronte, “non sarai per caso tu?”
“No, no di certo. Sarei la prima a saperlo, non credi?” rispose Eirhnh.
Eppure, l’uomo barbuto con gli occhiali che scrutava ogni fila come a voler scovare un delinquente, vedendo Eirhnh seduta in sesta fila gridò: “Allora, cosa aspetti?”.
Eirhnh strinse a sé la borsa ancora più saldamente, ma un oggetto che non ha anima non può darti l’amore di cui necessita la protezione.
“Allora, perché non si alza? Non sarà timida per caso, Signorina Allan?”, disse Natshua Gorenjske .
“Io non sono … ”, farfugliò Eirhnh sottomessa alla confusione e agli applausi, “vi sbagliate”.
Il mormorio che accompagnò quel timido balbettio le diede la sensazione di star commettendo un errore nonostante fosse nel giusto, la riempì di un immotivato senso di colpa che aumentò quando la scrittrice afferrò il microfono e accrebbe l’intensità della sua voce che si era mantenuto pacato fino ad allora.
“Non ha per caso intenzione di perdere l’occasione della sua vita solo per questa stupida paura?” disse la donna: “Si alzi e venga qui, ha raggiunto il suo primo traguardo, non lo butti via così” e poi accennò un applauso che fu subito imitato da tutta la sala.
Prese coraggio, Eirhnh, e senza nemmeno pensare a quel che stava succedendo, cominciò a incamminarsi prima lentamente e poi con passo spedito non appena comprese di star facendo qualcosa di totalmente privo di senso. Sapeva che il suo disagio sarebbe aumentato portandola al panico se solo fosse rimasta seduta a negare di essere ciò che non era, così si propose di non pensare, di agire come un automa, di non eccedere negli atteggiamenti e nelle giustificazioni.
“Uno degli inconvenienti che possono capitare partecipando a una competizione è vincere, signorina, avrebbe dovuto metterlo in conto”, disse la Gorenjske consegnandole finalmente il Queen Victoria.
Era da tanto che le due Eirhnh non s’incontravano, la prima timida e fragile, la seconda dura e indifferente.
Entrambe, comunque, si mantennero silenziose.
“Credo che tutti siano d’accordo con me sul fatto che lei sia una promettente scrittrice e che presto vedremo le sue opere pubblicate da un importante editore. Ecco la sua storia in originale così come l’ha consegnata e in bocca al lupo per il futuro”.
Eirhnh ascoltò le parole della donna senza ribattere, scese i gradini, s’incamminò verso gli ultimi posti e mostrò la targa al pubblico conquistandosi gli applausi che sapeva di non meritare. Si sedette per qualche minuto ancora ma poi, quando le domande e i complimenti divennero insistenti, si alzò e andò via veloce, apparentemente ingrata agli occhi di chi l’aveva premiata, seppure per errore.
*****

Era appena calata la sera ed Eirhnh continuava a imbambolarsi d’emozioni, emozioni forti, emozioni che vanno provate sempre un po’ alla volta e senza mai abusarne, “perché bisogna sempre dosarle, le emozioni” le diceva sempre sua madre, “a volte possono far soffrire più delle torture della santa inquisizione”.
Continuava a leggere la storia che aveva tra le mani mentre i vagoni della metropolitana si svuotavano e si riempivano senza destare scompiglio nella sua giovane mente sognatrice. Lei viveva di quelle pericolose emozioni, ne voleva sentire ogni giorno il sapore e mai si stancava di provare, mai di azzardare un pensiero e sventrarlo fino a sentirne l’essenza. Non si chiedeva soltanto il perché delle cose, ma lei, quelle “cose”, voleva viverle e come viverle se non cibandosi di emozioni, anche se tristi a volte?
Si è mai chiesto il perché della sofferenza chi non ha mai sofferto atrocemente? Si è mai chiesto cos’è l’amore chi non ha mai amato follemente?
Lei sapeva bene di stare sognando qualcosa di troppo rischioso per la sua fragile mente. Una scrittrice deve farsi di vetro e rendersi trasparente al mondo che la circonda. Più ci si aprirà agli altri, più sarà sottile quel vetro. Inevitabilmente una scrittrice sincera si frantuma. Inevitabilmente qualcuno arriverà a ridurla in cocci.

Era questa Eirhnh, “quella ragazza strana di Albertville”, come tutti la definivano, “quella che parla di morte alle feste e di sogni ai funerali”.
S’imbambolava di emozioni: odio, disperazione, amore, felicità e tristezza, abusandone fin quanto poteva. Eirhnh era fatta così e così di sicuro era fatta anche Allan Shovinskij che sembrava avere scritto la sua storia in pochi minuti sui prati di un qualche parco londinese, senza curare minimamente formalità come la presentazione, l’ordine, le solite battiture al computer, le relegazioni e tutto ciò che serve a fare da cornice ma che desta spesso l’attenzione dal quadro. Quelle macchie che coprivano le parole, i fogli di carta riciclata e la scrittura affrettata, tutto faceva pensare che Allan avesse concepito la sua storia all’istante. La immaginava seduta in terra sotto uno dei secolari pini di Hide Park accompagnata dalle anatre che fanno da guardiane al Serpentine Lake, a guardare il cielo e a tramutare i pensieri in parole, lo spirito insaziabile di chi vuole tutto, nella drammatica fine di chi aveva invece desiderato troppo.
Allan era forse il romanticismo che lei sognava, una donna che andava in giro per il mondo alla scoperta d’impercettibili verità da raccontare con l’ingannevole narrazione di una scrittrice, trasformandole in gioco, dando parola sentimento ed emozione a tutto ciò al quale nessun Dio aveva mai regalato alcuno di questi doni. Così un topo poteva diventare un principe avaro che per punizione era stato costretto da un mago a vivere negli sporchi cunicoli delle fogne o un albero un vecchio viaggiatore che cercando quiete e riposo si era trasformato in una splendida quercia. Allan Shovinskij era, nella mente di Eirhnh, tutto ciò che rappresentava fantasia, dolcezza, capacità di mentire a se stessi con l’immaginazione per creare inesistenti situazioni, desiderate e amabili menzogne, atte a curare una vita piena d’indesiderate e spregevoli verità. E forse era anche una benefattrice per scrittrici in erba. Per un attimo nascose il suo egoismo dietro una generosità che presto comprese essere solo una bugia raccontata a se stessa per non cadere nel solito vortice dei sensi di colpa.
Se Allan era tutto quello, lei era invece nient’altro che una ladra e una bugiarda, una truffatrice fortunata, tutto meno che una scrittrice.
Decise quindi di sistemare le cose. Perché diavolo avesse preso quel premio senza fiatare poi, era un mistero anche per lei. L’avrebbero scoperta, forse lo avevano già fatto e probabilmente quegli uomini accanto a lei erano lì per smascherarla. Si coprì con la sciarpa di lana. No, stavano solo aspettando la loro fermata.
Non avrebbe potuto mai presentarsi all’editore e dichiarare di essere la vincitrice del Queen Victoria. O forse sì? Scosse ancora la testa: non erano pensieri da fare.
Eirhnh avrebbe trovato Allan, si sarebbe scusata e le avrebbe domandato spiegazioni, le avrebbe chiesto perché il suo nome e la sua storia fossero finite nell’iscrizione di una ragazza che non era nemmeno sicura di avere talento. Voleva capire se tutto quello era davvero stato un errore, chiedere tutto ciò che le passava per la mente, imparare da una donna cui talento aveva colpito altre anime altrettanto talentuose e non c’è dubbio che grande sia una stella se riesce a far voltare verso sé miriadi di altre stelle nella stessa misura lucenti.
Ma da dove iniziare? Chi cercare?
Eirhnh fu scaraventata tra i pensieri reali come un uccello che in volo viene scagliato al suolo, colpito dal letale schioppo d’un cacciatore. Il rumore gracchiante della voce al megafono che annunciava l’arrivo del vagone a Royal Oak, sembrò lo stesso di un crudele rimbombare di una cartuccia tra le colline: “Eirhnh, stai allontanandoti troppo dalla realtà”.
Si voltò verso il controllore.
“Deve scendere signorina” le disse l’uomo che l’aveva afferrata per una spalla, “questo vagone sarà in manutenzione per una mezz’ora almeno.”
5.
Eirhnh procedeva lentamente costeggiando i centenari negozi di orologi della Porchester e la sua mente superava i suoi passi come un treno che sfreccia di fronte agli sguardi assenti di chi passeggia in tondo attendendo la propria corsa in stazione. Pensava e i suoi ricordi ritornavano ad Albertville, qualche anno prima.
*****

Justine, povera Justine.
Aveva poco meno di vent’anni e apparentemente inspiegabile era la sua voglia di morire giovane, ancora bella e sensuale, di non finire mai i suoi giorni in un letto d’ospedale o in qualche capezzale ad aspettare che all’Inferno sgomberassero una stanza per lei.
“Ma cosa pensi che facciamo ogni giorno, Eirhnh?”, le disse una di quelle notti che passavano in terrazza a parlare: “Quando evitiamo di fumare per paura del cancro, quando cerchiamo di mangiare con decenza per evitare che ci esploda il cuore, cosa pensi che stiamo facendo? Stiamo forse allungando la nostra vita o stiamo rallentando la nostra morte?”
A Eirhnh piaceva ascoltare Justine parlare con la saggezza di chi aveva vissuto dieci vite, la portava in un mondo parallelo che annullava le certezze di quello in cui viveva ogni giorno. Era come quando ti guardi allo specchio e vedi che tutto è al contrario e ti chiedi quale sia in verità il mondo reale, se tu non sia altro che un’immagine riflessa.
Così era il mondo in cui la portava Justine, ti faceva sentire eterea come un riflesso e quell’evanescenza piuttosto che svuotarti, ti rendeva libera dall’obbligo di vivere come se si dovesse portare a termine un importante compito.
“Siamo nati con un cancro” le disse l’amica di poco più grande di lei, ma fredda come un vecchio soldato reduce dalle atrocità di una guerra, “siamo già destinati, qualcuno alla nascita ci ha iniettato una sostanza contro la consapevolezza, quella d’essere già carne morta, d’essere finiti prima d’iniziare”.
Poi si alzò in piedi e si tolse di dosso la camicia e la croce che portava al collo: “Alcuni di noi si ribellano a quei veleni e vivono con la mente e gli occhi bene aperti su ciò che avviene attorno a loro. Noi siamo ribelli, consci di essere materia priva di spirito, come terra, acqua, aria. Non sei contenta di aver resistito al loro tentativo di governarti?”
Aprì le braccia al cielo in un delirio d’onnipotenza, sorseggiò lo Cherry dalla sua boccetta Black Country e offrì un sorso anche ad Eirhnh, poggiando l’imboccatura sulle sue labbra e tirandola via non appena la ragazza si apprestò a bere.
“Vuoi davvero percorrere la strada con me?”
Rise, sorseggiò e rise ancora.
“E’ una strada che non ha meta” rispose Eirhnh, “ma meglio andare in nessun posto con chi ami che raggiungere qualsiasi luogo da soli”.
Gli occhi di Justine presero lo stesso colore del cielo, rispecchiarono il nero più denso che il creato conoscesse, quello della notte, dell’universo sconosciuto. Lasciò bere l’amica, poi d’improvviso si fece buio anche il suo viso, come se non si aspettasse quella risposta o come se fosse stata di colpo assalita dal peso che ha l’amore per chi non è capace di amare.
Si chinò, mise una mano tra le gambe di Eirhnh e cominciò a toccarla, facendo rincontrare piacere e vita là dove si erano divisi: sotto una croce.
Nella terrazza in cui si trovavano, la madre di Justine aveva allestito una piccola cappella e lì le ragazze, senza nessuna osservanza e rispetto per le norme che ogni icona religiosa impone a devoti e miscredenti, stavano abbandonandosi ai più depravati piaceri.
La Signora Daunas, cattolica fino a uccidere per amore della sua chiesa, le lasciava salire volentieri credendo che gli occhi del signore le avrebbero tenute d’occhio.
“Ma’” gridava Justine rientrata da scuola nascondendo la boccetta di metallo nella giacca e tirando con sé Eirhnh per la mano: “Noi saliamo su a parlare un po’ con … nostro signore Gesù Cristo”. La madre non riusciva mai a cogliere il tono sarcastico e la cantilena che accompagnava quella frase, pura nelle parole e blasfema nella cadenza.
Se solo quella fosse stata la peggiore delle blasfemie commesse dalla ragazza, anche un Dio irascibile forse l’avrebbe perdonata. Ma Justine non aveva limiti o se un limite aveva, era quello di non essere in grado di porre dei confini alle sue trasgressioni e di portare con sé chiunque ruotasse attorno alla sua orbita.
Quando la madre di Justine cominciò a frequentare le riunioni della piccola chiesetta di Saint Agnès, a tre isolati da casa, Eirhnh e Justine cominciarono a cimentarsi in ardimentosi riti sessuali con giovani dell’altro sesso: lo consideravano il loro modo di sconfiggere il cancro della vita.
Prendevano tra le labbra il membro dei loro “Agnelli” (così le ragazze chiamavano i ragazzi che ospitavano) e ne bevevano il seme. Poi Justine pungeva il proprio braccio con un grosso ago e si cospargeva del loro sangue ansimando, a volte gridando insensatezze in modo teatrale. Capitava a volte che si gettasse in terra e si contorcesse come fosse preda di una qualche creatura demoniaca, altre volte invece, fingeva di parlare una strana lingua, sussurrandola per non imbrogliarsi con le sue stesse menzogne. Spesso i ragazzi, dopo aver raggiunto l’orgasmo si sentivano di colpo assalire da cristiani sensi di colpa, si rivestivano velocemente e balbettando qualche scusa improvvisata correvano a casa a pulire i loro corpi da quel sangue come a cercare di non lasciare alcuna traccia del loro peccato, come se il loro Dio non fosse in grado di vedere più in là della pelle che li ricopriva. Pensavano che forse, se ben lustrati, avrebbero ingannato i guardiani del paradiso. Correvano via seguiti dalle risate di Justine che gridava loro: “Carne morta inconsapevole, siete solo carne morta inconsapevole”.
No, Justine non apparteneva a nessuna setta Satanica, non adorava il Diavolo o entità di diabolica natura né tantomeno credeva alla loro esistenza, ma le piaceva, tutto quello sconvolgere i valori altrui la faceva sentire diversa, superiore e dava un senso più alto al fastidio che dà la solitudine quando diventa l’unica tua compagna. La sua era solo una messa in scena, splendida quanto insana. La ragazza aveva una vena artistica che se ben curata avrebbe potuto portarla lontano, ma preferiva sconvolgere che volgere uno sguardo attento al proprio talento.
La madre, fin da quando Justine era piccola, aveva tentato di darle un insegnamento cattolico fino ai limiti estremi dell’imposizione. Marie Daunas era sempre stata una donna rispettata da tutti per la sua riverenza verso la chiesa. Tutto ciò che per la Bibbia non era lecito, anche per Marie Daunas non lo era. E il padre? Quello non sapeva nemmeno chi fosse. Tornava a casa stanco da lavoro a pomeriggio inoltrato e l’unica cosa che cercava era il silenzio, la quiete che si trovavano dentro una lattina di birra a buon mercato e una Tv.
“Non esiste nessun amore”, diceva sempre Justine a Eirhnh che nonostante quei riti sconci aveva ancora abbastanza cuore da scrivere mielose poesie: “E’ il sesso che attira gli agnelli e li porta all’ovile, non i tuoi versi pieni di compassionevoli sospiri.”
Il diario che Eirhnh portava sempre con sé, finì un giorno tra le mani di Justine. Quando Eirhnh tornò dal bagno, trovò l’amica a mordere una mela e a sfogliare i suoi segreti calciando con i piedi nudi gli oggetti tirati via dalla borsa.
“La tua dolcezza li fa sentire superiori”, disse Justine, “consapevoli di poterti sovrastare quando e quanto vogliono. Prova a chiudere le gambe e vedrai se i vostri sguardi continueranno a scontrarsi alla luce delle stelle”.
E poi cominciò a ripetere con enfasi i versi di quella poesia, “Alla luce delle stelle”, una delle tante che aveva trovato tra le pagine segrete di Eirhnh che “posa quel diario” le gridò, ma non fece nulla per porre fine a quella recita.
“Queste poesie non hanno senso” disse Justine, “la poesia non fa altro che distogliere lo sguardo dalla realtà. Cos’ha di tanto orribile la realtà da doverle sfuggire sempre?”
“Dovresti saperlo!” rispose Eirhnh che cercò finalmente di rimpossessarsi del diario.
“Non ho mai detto che il male sia orribile, è pur sempre meglio delle tue rime, ma chère Marie di Francia”
“Bugie” le gridò Eirhnh, “sono tutte bugie: come puoi troncare i sogni della gente solo perché tu non hai sogni? E’ come far smettere di respirare un uomo perché il suo alito è fastidioso”.
Poi, più vulnerabile di quanto si dimostrasse, accartocciò i suoi versi e li scaraventò contro il muro.
Ma Justine non era malvagia, per quanto potesse sembrare viziata e prepotente, amava Eirhnh più di ogni altro essere umano al mondo. Così, piano le accarezzò i capelli chiedendole scusa per la sua insolenza e rimase lì a coccolarla ancora, per regalarle nuovamente la quiete che le aveva tolto e che, ne era sicura, sarebbe tornata a toglierle.
Eirhnh era sempre stata una persona romantica, una ricercatrice di sogni. Fin da piccola scriveva poesie e poi le dava alla madre che le guardava e gliele ritornava esprimendosi solo con un semplice “bella”. Tutto qui, un inutile, insensato, riassuntivo “bella” per una poesia scritta da una bimba che sapeva a malapena scrivere, ma che già sapeva cosa fosse una rima.
Di certo non conosceva ancora abbastanza parole per comunicare quello che aveva dentro, ma era pur sempre una bambina che si sforzava di trasmettere qualcosa e meritava di certo di più.
I primi tempi Eirhnh accettava il complimento, anzi, per lei era come ricevere un premio, ma poi la bambina crebbe e con lei crebbe il suo spirito d’osservazione e capì che il “bella” della madre era un modo abile per togliersela dai piedi e da quel momento nessuna poesia uscì più dal suo diario, nessuna poesia fu né vista né ascoltata da nessuno se non da lei e da quella platea immaginaria che creava nella sua mente, chiusa nella sua stanza, quando faceva buio.
Immaginava d’essere a Parigi o New York per presentare le sue opere e che quella platea di gente in delirio le chiedesse di leggere una sua poesia.
“Un’altra poesia, Eirhnh, una soltanto” implorava la folla.
Allora lei, dall’alto della sedia in legno che nella sua mente era un ben allestito palco, prendeva il microfono (un semplice manico di scopa) e dopo aver guardato il suo pubblico (portagioie, bambole, peluche o fotografie) a occhi chiusi recitava fino a che un applauso non le strappava un sorriso e suo padre in prima fila le lanciava un ok ammiccando. Tutto era splendido, pulito, nella sua mente, nessuno in quel momento poteva turbarla. Ma poi il palco ritornava a essere una sedia imbottita sulla quale non salire con i piedi sporchi, il microfono un manico di legno e il suo pubblico, silenzioso, smetteva di applaudirla, di acclamarla, di adorarla, perfino la foto del padre sembrava dirle: noi non esistiamo, Eirhnh, siamo finti come i personaggi delle tue filastrocche.
6.

 

“Ciao D’Artagnan,
ho pensato molto alle parole di Justine negli ultimi giorni e forse è così, sai, forse quel senso di sbandamento e solitudine che mi rodeva lo stomaco negli ultimi anni era già dentro me da molto più tempo e, cresciuto come un feto in un grembo materno, fece sì che quel cumulo di coincidenze che per sempre maledirò non siano state soltanto opera del caso, ma bensì del mio volere, di quella cosa che non è facile definire e che per semplificare chiamiamo inconscio. Forse siamo davvero noi a dettare prima le regole della nostra vita. Ricordo ancora una frase che Justine gridò al cielo il giorno in cui il suo amato Ector la lasciò per Delphine, quella che lui aveva da sempre definito la sua migliore amica: “Se è vero che sono le mani del nostro Signore a scrivere la storia della nostra vita, allora doveva essere estremamente fatto e incazzato quando scrisse la mia”.
Povera Justine, era solo odio quello che provava ed era solo amore quello di cui aveva bisogno, ma nessuno lo aveva mai capito, la prendevano per diabolica troietta mentre in fondo era solo una ragazza che non sapeva mostrare amore semplicemente perché nessuno le aveva mai insegnato ad amare. Quando la trovarono nel fiume quel giorno di Dicembre, aveva ancora in mano quella croce che non lasciava mai, tranne che per quei nostri sacrileghi riti. Allora la toglieva dal collo per nascondersi ad essa così come fa una madre che cela a un figlio i propri peccati per mantenere viva in lui l’immagine della purezza, conscia che qualche altra donna la toglierà per lei.
La madre di Justine piangeva e chiedeva perdono al Signore per i peccati della figlia, in ginocchio sulla neve che le bruciava sotto come un Inferno. Ogni tanto mi guardava esortandomi a pentirmi per quelle sconcezze per le quali il suo Dio ci aveva punite.
“Il Diavolo danza attorno alla tua testa, Eirhnh, e con te ci farà banchetto” gridava mentre la polizia la portava via da quello strazio.
La danza di un Diavolo a cena, questa sarebbe stata per lei la mia vita, una volta scoperto quel rito che puntualmente facevamo ogni volta che lei correva da quel suo Signore rinchiuso dentro una chiesa a farsi adorare come un faraone egizio. Il nostro Signore invece, stava con noi anche nei momenti in cui ansimavamo di piacere e dolore e con noi ansimava, per capire cosa in quel momento colmavano in noi quel piacere e quel dolore. Era un Dio ignorante quello che accompagnava me e Justine, tanto quanto quello della Signora Daunas, ma a differenza di quell’ultimo, il nostro voleva capire, conoscere, scoprire. La cristianità non tiene mai conto dell’incantevole ignoranza del creato.
Questo pensavo, questo mi andava di pensare, forse mi conveniva.
L’unico perché che diede Albertville alle proprie domande fu Satana e con una parola ci condannò all’Inferno.
Justine c’era già, io ci sarei arrivata molto presto.
La polizia mi disse di aver trovato un’alta percentuale di eroina nel sangue di Justine e mi chiese se ne sapessi qualcosa. Risposi di no, ma mentii.
Sapevo che Jean-Pierre Meunier, un tossico della zona, aveva compiuto il rito degli agnelli con Justine alcuni mesi prima della sua morte. Fu lui a farle compiere il nuovo passo, quello che secondo lui avrebbe arricchito quelle sue stravaganze.
“Attraversa con me il sentiero della consapevolezza” le aveva detto, “o forse hai paura di morire, di lasciarti andare, di scoprire che non sempre possiamo controllare la nostra esistenza?”
Jean-Pierre conosceva Justine meglio di chiunque altro, perché lui, di Justine smarrite, vanagloriose, illuse di essere eterne e speciali ne aveva conosciute parecchie e ne vedeva di continuo, ogni giorno. Giocava con loro, lui che si faceva solo per non sentire quanto è amaro il sapore dell’aria quando vuoi mordere la vita ma questa ti scappa via dai denti a ogni boccone. Così assecondava le sue vittime, le sue amiche, le sue concubine e acquirenti affezionate e dava loro la stessa aria di cui si cibava lui, confezionata in panetti avvolti da carta stagnola.
“Basta una sola scintilla per accendere la fiamma che hai già dentro”, le disse Jean-Pierre: “Perché tu sai bene, Justine, di essere diversa da qualsiasi altra ragazza qui ad Albertville”.
Le si avvicinò con in mano la siringa pronta e con il laccio emostatico stretto tra i denti macchiati di nicotina, poi biascicò le parole che era solito ripetere a tutte in quei momenti: “Perché tu sai di essere più luminosa di qualsiasi altra, o devo supporre che lo hai già dimenticato?”
Justine gli tese il braccio: “Non si dimentica mai l’immensità di un cielo se sei un uccello che vi passeggia ogni giorno” rispose, e da quel momento nulla fu più lo stesso per lei e per me.
Justine si buttò nel fiume Coul il giorno di Natale al sorgere del sole.
Il caso fu archiviato come suicidio, è quella la parola con la quale la società degli adulti usa chiamare gli atti inconsulti e inevitabili di chi non ha saputo amare abbastanza.
Molti ragazzi furono chiamati a testimoniare, compresi quelli con cui io e Justine avevamo fatto sesso in soffitta.
“Ti ho già preso un biglietto per Londra”, mi disse la mamma dopo aver appurato tramite il Dottor Lemaire che il mio sangue fosse pulito, “devi andare via, qui non è più posto per te, sei lo zimbello di tutto il paese, se solo tuo padre fosse ancora vivo…” e allungandomi il biglietto d’aereo, scoppiò in lacrime.
“Ti preferivo quando da piccola parlavi con gli oggetti, con le tue bambole, con la tua rana di pezza. Sei sempre stata un po’ matta, ma quello era più giustificabile, più innocuo”.
Anche lei si accorse un momento dopo di stare dicendo un’assurdità, per questo si mise una mano alla bocca e mi chiese scusa a labbra socchiuse. L’avessi vista, non era più quella di un tempo.
I magici oggetti che la mia immaginazione animava quand’ero una bambina m’insegnarono a sognare: lei invece, cosa mi aveva insegnato se non l’esatto contrario? M’insegnarono a osservare l’esistenza e ad entrare in scena solo nel momento giusto. Capii che quello era il momento di farmi trasportare dalla vita e lo feci senza fiatare, senza voltarmi indietro un attimo, forse perché sapevo che sarebbe stato impossibile per me continuare a vivere in quel posto o forse perché volevo vedere cosa la vita aveva in serbo per me. Era tempo di andare via, di iniziare a riempirla, quella vita.
Justine era morta perché la madre aveva tralasciato la figlia per quel Dio che adorava più di ogni altra cosa, per colpa di un padre che arrivava a casa e pregava per puro egoismo, perché la propria vita non continuasse a essere un inferno di lavoro e noia. Nessuno aveva gli occhi aperti sulla realtà, troppo impegnati a guardare ciò che mai avevano visto”.

 

7.

 

Eirhnh arrivò da Miss Mary che era già sera e vide Jazz alle prese con la serratura del negozio d’uccelli.
“Cosa stai combinando?” chiese.
“Non ti ho sentita arrivare”, rispose Jazz senza neanche salutare, preso com’era a lottare con la porta.
“Vuoi un po’ di questa?” disse Eirhnh porgendo all’amico la sua coca, “sei così rosso che sembra quasi tu stia per esplodere”.
“Esploderà questa dannata serratura se non si deciderà di aprirsi”.
“Una serratura non può decidere niente, sei tu a essere troppo irruente, tutto qui”, rispose Eirhnh divertita. Poi si avvicinò e “fai provare me” disse dopo aver preso la sua chiave dalla tasca del cappotto.
“Vedi? Se la infili a fondo non troverai mai la serratura, devi fermarla nel mezzo. Ecco fatto!”, e consegnò la chiave a un Jazz visibilmente imbarazzato.
“Prendi la mia”, disse Eirhnh, “la tua è ormai divorata dalla ruggine”.
“Il concorso?” chiese Jazz.
“Bene e male”.
“Cosa vuol dire bene e male. Hai prima vinto e poi perso? O hai pareggiato forse?”
“Ho vinto un contratto con la K Cluster”.
“Non hai la faccia di una che ha appena vinto un premio di letteratura”.
“Infatti. Ho vinto con la storia di un’altra persona.”
Jazz non chiese altro, aspettò un senso a tutto quello che si augurava arrivasse presto.
Eirhnh sbuffò.
“Una persona, una certa Allan ha scambiato la mia storia con un’altra e mi ha regalato, tra virgolette, la vittoria”.
“Fantastico!” esclamò Jazz, “quindi hai, tra virgolette, vinto. Stupido da parte di questa Allan, insolito ma … fantastico. Ora potrai pubblicare le tue storie. Non era quello che volevi?”
“Non proprio, non credo”.
Jazz l’afferrò per le braccia e la posizionò proprio di fronte a lui, in modo da poterla guardare bene negli occhi: “Andiamo, non ti farai venire i tuoi soliti sensi di colpa. Dimmi che non lo farai almeno stavolta.”
“Sì, invece. E poi è una questione di orgoglio, di rispetto. Tu non puoi capire”.
“Perché”, domandò il ragazzo, “credi forse che non abbia orgoglio io?”
“Che stupido, certo che penso che tu abbia orgoglio, ma penso anche che tu sia più furbo di me”.
“Allora ammetti che è stupido cercare quella donna e rinunciare al tuo premio, non è così?”, chiese Jazz che dopo essere entrato nel negozio si sedette sulla poltrona e si mise a giocherellare con Pretty Boy, il cocoritos di Miss Mary.
“Non scherzare, io sto parlando seriamente, voglio capire perché”, ribatté Eirhnh.
“Anch’io parlo seriamente”, disse Jazz, “qualcuno per sbaglio scambia la tua storia con quella di un’altra persona e ti fa vincere un premio così importante per la tua carriera, e adesso vuoi metterti a cercare il vincitore, dando magari il tempo a chi ha sbagliato di rimediare l’errore e strapparti un contratto dalle mani? Io lo trovo stupido e tu, Pretty Boy, come lo trovi tu?” e continuò a dialogare con il cocoritos aggiungendo argomenti da volatile per non annoiarlo troppo.
Quando si voltò e vide Eirhnh pensierosa, si alzò e le posò Pretty Boy sulla spalla.
“Vuoi un consiglio?”, disse, “firma per la K Cluster e vai per la tua strada”.
Il cocoritos cominciò a mordicchiare l’orecchio di Eirhnh facendola sorridere.
“Come posso pretendere di insegnare agli altri quando sono io ad avere bisogno di un maestro? Come potrei starmene in pace con me stessa e andarmene in giro sperando che la gente prenda ad esempio ciò che ho scritto?”
Eirhnh posò la borsa, adagiò Pretty Boy sui semi di soia e andò nel retrobottega, si sedette al piano come soleva fare di solito e spinse il dito indice sul Do grave che rintronò nel suo petto.
Il cocoritos volò e si posò nuovamente sulla sua spalla, lì voleva rimanere.
Jazz la seguì, anche lui a suo modo, si posò sulla spalla di Eirhnh. Lì voleva rimanere.
Non ammise l’errore ma fece capire di aver sbagliato.
“Tu e la tua onestà, un giorno finirete per farmi sentire un verme, o forse ci siete già riusciti”, le disse: “Diventerò un bel pasto per Pretty Boy”.
Eirhnh continuò a pigiare i tasti, lasciava che la sua mano decidesse dove andare e quale successione di note scegliere, stonando per la scarsa conoscenza delle scale.
“Sai, da piccola desideravo tanto suonare il piano”, disse togliendo le mani dalla tastiera e posandoci sopra gli occhi, gli unici in grado di far suonare quel difficile strumento: “Mio padre era un appassionato di musica classica e desiderava che sua figlia diventasse una compositrice di successo. Io mi sedevo al tavolo con gli occhi chiusi sognando una piccola platea di spettatori, lì fermi ad ascoltare la mia musica”.
“E perché non prendesti lezioni?”, chiese Jazz.
“Non so, forse per le parole di mia nonna. Impara prima i tuoi doveri di donna, i tuoi fan possono aspettare, diceva. Sai, mia nonna era una persona all’antica, per lei era dovere di una buona moglie saper fare le faccende di casa nel miglior modo possibile, era una forma di rispetto verso il marito e forse verso il creato intero. Per lei la donna doveva accudire, doveva essere la madre del mondo. Allora ogni volta che mi vedeva seduta sulla sedia con i polpastrelli che battevano sul tavolo come fosse un piano, a intonare a gran voce pezzi che neanche esistevano, mi metteva tra le mani un mestolo e un cucchiaio di legno e ridendo mi diceva: ‘Perché non impari a suonare la batteria?’ e se ne andava a prendermi in giro con le sue amiche nella stanza accanto.
‘Mia nipote è un po’ matta, non fateci caso’ diceva a quelle megere tutte casa e salotto puntualmente ribattevano: ‘Non preoccuparti è solo una bambina, vedrai che questi sogni stravaganti passeranno presto’, così dicevano.”
Jazz l’aveva ascoltata, seduto sui suoi talloni le chiedeva di continuare come a volerla liberare dai ricordi che a ogni parola si facevano più nitidi.
Eirhnh si voltò verso di lui: “Ma sai una cosa Jazz? Io quel piano lo suonai veramente”.
“Certo, Eirhnh, con la testolina che ti ritrovi puoi fare anche il giro del mondo stando seduta su quello sgabello” rispose Jazz:
“Sei speciale tu, perché sai sognare lì dove non esistono sogni, e questa è una dote che pochi hanno”.
Si sentì una nota, spinta dalla voglia di Eirhnh di suonare quel piano che tanto avrebbe voluto far parlare, farlo raccontare di lei, della sua vita e delle sue insicurezze, dei suoi sogni e delle sue nostalgie. Ma il piano stava in silenzio, era un piano senza parole quello, almeno nelle sue mani. Eppure lei sapeva di aver suonato, una volta, molto tempo prima.
La nonna di Eirhnh era una buona donna e una brava tutrice, ma aveva la bontà degli ignoranti, che spesso non si cura dei sentimenti ma tende a curarsi piuttosto del corpo, l’involucro che quei sentimenti li racchiude. La piccola sognava di suonare come il padre lontano, ma si era ritrovata con in mano due utensili da cucina e nelle orecchie le risate delle donne della stanza accanto. Allora corse nella sua camera a piangere, perché a nessuno piaceva la sua musica e stette lì ore fin quando Abhik, il domestico indiano originario del Nord del Canada, andò da lei con il suo solito fare quieto e le chiese: “Cos’hai piccola, ti hanno rubato di nuovo il sorriso?”
“Lasciami, voglio stare da sola”, rispose Eirhnh.
Abhik si sedette accanto a lei, con quel viso burbero nonostante la purezza della sua anima, un viso contraddittorio, irto e puntuto come le montagne canadesi, ma come quelle, piacevole da guardare specie nei momenti di sconforto.
“Sai piccola Eirhnh, nel posto da cui provengo gli uomini credono che non si possa mai restare da soli perché o si sta con gli uomini o si sta con gli alberi, le stelle e tutta la vita che ti circonda. Noi, tutto quello lo chiamiamo Dio. Chi dice di voler stare solo, vuol dire che non sa stare con gli uomini e rifiuta il proprio Dio”.
Era il giorno in cui Eirhnh ricevette la lettera del padre. Doveva essere un giorno felice ma nonostante tutto non riusciva a mostrare alcuna felicità, anzi, le parole di Robert le avevano fatto comprendere quanto fosse lontano. Quel giorno Abhik prese una collana e la mise al collo della bambina. Il medaglione era in legno con un gran buco in mezzo e dentro vi era intrecciata una ragnatela fatta di un filo sottile e resistente. Al centro una pietra preziosa di scarsa caratura, lo rendeva quasi regale.
Legate al medaglione scendevano leggere delle grandi piume. Lui lo chiamava “l’acchiappasogni”.
“Ecco, con questa nessuno potrà più rubare i tuoi sogni”, disse Abhik.
“Che cosa stupida. Cos’è?”, chiese la bambina guardando il medaglione che le solleticava fastidiosamente il petto.
Abhik con il suo viso rugoso e serio ma che emanava uno sfavillio che poche volte Eirhnh aveva potuto vedere nella sua breve vita, la prese per mano e rispose:
“E’ un talismano che apparteneva a mio nonno, un vecchio Ojibwa del Canada, la terra da cui provengo. Lo terrai al collo e grazie a esso i sogni cattivi scompariranno restando impigliati nella ragnatela e quelli buoni scenderanno nel tuo cuore attraverso i pendagli di queste lunghe piume.”
“Non lo voglio” disse Eirhnh, “riprenditelo”.
Abhik le fermò la manina racchiudendola nella sua grossa mano scura.
“Aspetta”, disse, “c’è anche una storia dietro al medaglione”.
L’uomo conosceva l’amore che Eirhnh aveva per le storie e aspettò che la bambina chiedesse: “Che storia?”
La richiesta non tardò come non tardò la spiegazione di Abhik.
“Un tempo, una donna Sioux cui bimbo era affetto da brutti incubi si rivolse disperata alla vecchia donna ragno che viveva sui monti, per chiederle consiglio. Nessuno aveva mai visto la donna ragno in viso o nessuno era vissuto per raccontarlo. Non c’era guerriero coraggioso abbastanza da osare avvicinarsi alla sua tana, eppure l’amore di una madre per un figlio era stato più forte di mille combattenti. La donna ragno, che aveva a tutto una risposta, fu colpita da quel coraggio e diede alla giovane madre le istruzioni per costruire con i rami di salice il cerchio dell’eternità e con uno spago di cotone la rete della vita. Insieme stettero a tessere la tela, non c’era più né bestia né uomo tra loro, ma solo due esseri laboriosi in favore di un piccolo Sioux bisognoso. Quando la tela fu finita, la donna ragno la sistemò all’interno della grotta e chiese alla giovane madre di portarle il bambino. La donna, nonostante il capo del villaggio e tutti gli altri abitanti cercassero di destarla dal compiere ancora un’altra follia, decise di farlo. Lei al contrario della sua gente, credeva nella sincerità e nelle buona intenzioni della donna ragno, così dopo essere scesa a valle, risalì la cima con il figlio tra le braccia ed entrò nella grotta, buia e così piena di ragnatele da intrappolare lei e il bambino dopo qualche passo”.
Eirhnh mise entrambe le mani sul volto. Impaurita ne tolse una cercando di sfilarsi il medaglione che sembrava di colpo premere sul suo corpo come le zampette di un insetto.
“E poi? Cosa è successo poi?” chiese.
“Che domande” rispose Abhik, “la donna ragno era pur sempre una bestia e se li mangiò entrambi”.
La bambina scappò via ma l’uomo l’afferrò per il vestito e la tirò a sé:
“No, Eirhnh, stavo solo scherzando. Vuoi sapere davvero come finì?”
Eirhnh si calmò e rispose di sì. Si accovacciò tra le braccia dell’indiano che finì la sua storia.
“Di colpo le ragnatele si fecero polvere e d’innanzi al bambino e alla madre, si presentò un maestoso albero. La donna ragno era divenuta di colpo una meravigliosa Tsuga, un albero simbolo di maternità e fertilità che cresce tutt’ora nelle nostre terre. Grazie alla fiducia della giovane Sioux, era stata liberata anche lei, come il bambino, dall’incubo che l’aveva tramutata in ragno.”
“E cosa l’aveva tramutata in ragno?”
“La paura, la tristezza, la diffidenza, lo scetticismo, l’odio, spesse e robuste ragnatele che possono renderti un mostro e imprigionarti per sempre se solo qualcuno non verrà a tirarti fuori, come ha fatto la giovane Sioux con la donna ragno!”
Eirhnh sorrise. Guardò il suo talismano e decise di tenerlo con sé, per non tramutarsi mai in una bestia.
Abhik le accarezzò la testa e la invitò a tornare al suo pianoforte.

*****

“Io, Jazz” disse Eirhnh, “quel piano lo suonai quel giorno”.
Dolcemente la nota si dissolse come si dissolvono le parole, fu assorbita dalla stanza e oscurata dal suono della campanella della porta e dal battito d’ali di Pretty Boy che tornava dalla padrona, appena rientrata.
“Pretty Boy, oh my pretty Boy” disse Miss Mary che si lasciò mordere il dito con il quale il piccolo cocoritos giocava sempre.
“Salve Miss Mary”, salutò Eirhnh.
“Eirhnh, sapevo che eri qui, ho trovato la chiave in terra davanti alla porta”, rispose la donna posando la spesa sullo scaffale di fronte.
“Jazz!”, si voltò Eirhnh con aria di rimprovero.
“Ah, c’è anche Jazz. Ciao Jazz, sei stato tu a far cadere la chiave allora?”
Miss Mary era una donna molto anziana, era scampata ai lager nazisti quand’era molto piccola e assieme a una zia si era trasferita in Inghilterra dove la comunità ebraica era stata ben accetta fin dall’inizio. Era quasi totalmente cieca, ma era straordinario il modo in cui riusciva a riconoscere la gente da un’ombra, anche in lontananza, e come era riuscita a organizzarsi la vita anche in quelle condizioni. Eirhnh l’aiutava ogni tanto a leggere foglietti volanti che si ritrovava in tasca, ricette del dottore, scadenza delle medicine, del cibo e quelle altre poche cose che non le era possibile fare. Il negozio d’uccelli non era un vero e proprio negozio, in verità Miss Mary non avrebbe venduto mai al mondo neanche uno delle bestiole che aveva: lei viveva bene con la sua piccola pensione. E Jazz? Lui diceva di lavorare part-time in un ristorante francese di nome “Le grand feu”, così riusciva a far fronte alle spese. Jazz era un bravo musicista, un magnifico poeta, un grandissimo disegnatore, in poche parole tutto quello che Eirhnh aveva sempre sognato in un uomo: dolcezza e vena artistica. La teneva sempre allegra, sapeva prendere tutto con un sorriso.
Eirhnh sapeva poco di Jazz, apparentemente un tipo aperto, ma che non sovraccaricava mai gli altri con i propri problemi. Non parlava mai neanche del suo passato, viveva nel presente e a quello si dedicava: una cosa che Eirhnh avrebbe voluto imparare. Quando gli facevi una domanda che sfiorava troppo il passato, lui rispondeva con una battuta e tutto finiva lì. Jazz era come quelle persone che sembrano entrare nella tua vita quando ne hai bisogno ma non aveva un gran feeling con Miss Mary, non che si odiassero, ma forse non avevano bisogno di molte parole. Avevano uno strano rapporto ma in fondo erano lì, sempre assieme. Anche il silenzio può essere un buon modo di comunicare e forse, per loro, era il miglior modo per farlo.

 

8.

 

Erano le nove circa ed Eirhnh si era alzata dal letto che era già stanca. Aveva sognato sogni sfiancanti, come al solito, sogni che non riusciva a ricordare.
Era ormai abituata a svegliarsi di soprassalto, come soffocata da un corpo estraneo in gola, tormentata da un senso di oppressione al petto. Era come se avesse sognato di correre per tutta la notte, ma non sentiva affatto quel senso di vuoto di chi rincorre qualcosa e in seguito ad un brusco risveglio è costretto a rinunciarvi, piuttosto aveva quella sensazione di sollievo come di chi stesse fuggendo e fosse stato messo in salvo dal mattino. Cercò di non pensarci e spostò subito la sua mente su ciò che avrebbe dovuto fare quel giorno. Cercare Allan Shovinskij era la cosa che più le premeva. Ma da dove iniziare? Avrebbe forse girato per mesi i parchi di Londra chiedendo a ogni anima di passaggio se conoscesse una scrittrice con quel nome, se avesse visto per caso una donna scrivere su fogli di carta come quello che teneva in mano. Ma la gente di Londra era così riservata che dubitava che qualcuno potesse aver notato una schiva scrittrice accovacciata sui suoi pensieri. Così stette immobile a osservare lo scrittoio di fronte a lei, confusa sul da farsi, forse sperando che si materializzasse una donna imbronciata che le chiedesse indietro il suo manoscritto.
Per un minuto Eirhnh cominciò a pensare di abbandonare tutto. L’unica alternativa era quella di tornare all’Albert Hotel a confessare quel furto involontario e chiedere chi fosse Allan Shovinskij. Ma quale scusa inventarsi? Rimediare a uno sbaglio è di certo più facile che ammetterlo, se ti si chiede poi di fare entrambe le cose, il gesto diventa quasi impossibile da compiere.
Forse aveva ragione Jazz, doveva lasciar perdere o forse avrebbe dovuto smettere di pensare a cosa fare per fare finalmente qualcosa.
Eirhnh si vestì prese un latte macchiato, salutò Mr Kermit, il canarino che aveva trovato in casa in un giorno di pioggia e che da quel giorno non se n’era più andato, e di fretta uscì dirigendosi verso il “Bad Movies” il negozio di noleggio film di Anderson. Lui non le avrebbe detto di no, per una volta avrebbe approfittato della sua disponibilità per una buona causa, in qualche modo lo avrebbe ripagato, magari accettando quell’invito a vedere un film a casa sua che tante volte aveva rifiutato.

*****

“Hai conosciuto una scrittrice e non ti ricordi che faccia ha. E’ ridicolo!”, rispose Anderson alla storia campata in aria di Eirhnh: “Come fai a scordarti di una persona con cui hai parlato per ore?”
“Ti ho detto mille volte che era seduta di spalle e l’avrò guardata si e no due, tre volte al massimo”.
“Perché non puoi farlo tu?”, chiese Anderson.
“Perché ho avuto una lite con l’addetto alle iscrizioni e non me lo direbbe di certo. Lui ha detto che io ero …”.
Eirhnh si fermò un attimo confusa dalle sue stesse bugie e a gran voce continuò: “Insomma Anderson, puoi farmelo o no questo favore? Se vuoi posso chiederlo a qualcun altro”.
Anderson girò il bancone e la fermò prima che andasse via:
“No, Eirhnh, sai che farei qualsiasi cosa per te, è che non mi va di … “.
Guardò in basso e si zittì.
“Al ritorno potremmo sempre guardare Elizabethtown assieme, se ti va”.
“Aspetta solo che chiuda e metta un cartello fuori”.

 

 

9.

 

Anderson ascoltava Busta Rhymes e rappava come un nero newyorkese per far sorridere Eirhnh che dopo aver finto un paio di volte, si voltò verso il finestrino per non essere esposta ancora all’insopportabile ma bonaria comicità del ragazzo. Notò che ad High Street un mucchio di manifestanti sfilavano in parata sotto la pioggia per il ritiro delle truppe inglesi in Iraq.
Al semaforo rosso, un giovane uomo, magro e con la barba incolta bussò al finestrino e le mostrò uno dei suoi volantini incollandoglielo al vetro.
“L’assassino è chi uccide, ma anche chi pur sapendo, tace!” disse il giovane ripetendo la frase del volantino con un impeto tale da spaventare Eirhnh, che si tirò indietro.
Anderson la scavalcò e bussò al vetro chiedendo all’uomo di lasciarli in pace.
“Pace, fratello? Mentre tu sei trascinato in questa carrozza gialla dal tuo cocchiere musulmano, ci sono migliaia di famiglie in ansia per i propri figli che combattono una guerra che non gli appartiene. Scendi e grida con noi.”
Anderson fece per abbassare il finestrino, ma Eirhnh lo fermò:
“Lascia stare, è verde” e poi disse al tassista di spingere sul quel suo maledetto pedale. L’auto si lasciò dietro il giovane manifestante che invase la corsia e gridò:
“L’assassino è chi uccide, ma anche chi pur sapendo tace … Eirhnh!”.
Aveva ripetuto il suo nome, l’aveva chiamata.
“Tu lo hai sentito, Anderson?”
“Sì, monotematico direi!”
“No, parlo del …”
Eirhnh chiese al tassista di fermarsi e quello, dopo aver messo la freccia e spento lo stereo, accostò. Quando uscì dall’auto l’uomo era già andato via.
“Entra” le disse Anderson, “ti prenderai una polmonite così!”
Eirhnh raccolse il volantino dal lunotto posteriore e lesse:
“Rivogliamo a casa i figli d’Inghilterra”.
Lo ripeté ad Anderson, due, tre volte.
“Risparmiami, per carità, l’ho già sentita dieci volte da quel barbone nazionalista”.
“La sua frase non era questa, lui ha ripetuto più volte che l’assassino è … !”
Anderson sorrise e si passò una mano tra i capelli.
“No, ha solo ripetuto quello che c’è scritto su quel volantino. Oddio, ce l’avrò in testa per tutto il giorno. A te capita mai di non riuscire a toglierti qualcosa dalla testa?”
Ma Eirhnh rimase in piedi lì dove stava, sicura di quello che aveva sentito, sicura che quell’uomo volesse rivolgere a lei quel rimprovero.
L’assassino è chi uccide, ma anche chi pur sapendo tace.
E lei si era sentita un’assassina per anni.
Aveva taciuto sui problemi di droga di Justine.
Aveva taciuto sulla morte del padre.
Dopo aver ricevuto la lettera di Robert, Eirhnh lo sognò, lo faceva spesso, ma questa volta non erano assieme alla tenuta di nonno Mondeau, non stavano cavalcando per i vigneti d’Orléans, piuttosto c’erano dune e case di fango, un piccolo presepe cadente senza angeli, in un posto lontano.
Un sogno troppo nitido e pieno di particolari per essere solo un sogno.

 

10.

 

“Resta in auto, non muoverti e soprattutto non farti vedere” disse Abdel Masson, voltandosi indietro, prima di aprire lo sportello della Renault Bianca sulla quale lui e Robert avevano viaggiato per quattro ore di fila.
“Me l’hai già detto, non sono stupido”.
Abdel si chinò e continuò i suoi ammonimenti da una visuale più sicura: “Questa è gente che non sta lì a pensarci molto, prima di spararti un colpo in testa. Li conosco bene io”.
Robert non era molto interessato a ciò che Masson stava dicendogli e che aveva continuato a ripetergli per tutto il tragitto che portava da Baghdad a Falluja, dove avrebbero dovuto incontrare un certo Ahamad Calabi, capo dei servizi segreti in Iraq. Di quell’uomo non ne conoscevano il viso, l’altezza, il taglio di capelli, la lunghezza della barba, né età, né numero di scarpe, eppure Abdel era sicuro di dover incontrare Ahamad Calabi. Robert si era chiesto perché un uomo di spicco come quello avrebbe dovuto incontrare un giornalista di così poca importanza e raccontargli le strategie di guerra tanto protette fino a quel momento.
“Non incontrano mai i grandi giornalisti. Cercano gente come noi, nuovi arrivati, sconosciuti sia agli americani che agli iracheni e agli europei, sconosciuti al mondo intero e specialmente agli organismi di Intelligence che tengono sotto controllo ogni movimento dei media”.
Furono queste le delucidazioni di Abdel che spense la sigaretta ancora sana e sputò fuori dal finestrino.
Tossì e continuò a parlare con la gola grattata dai granelli di sabbia desertica: “Noi non siamo schedati, non abbiamo addosso dei microfoni spia, non siamo nessuno. Sconosciuti uguale sicurezza, per loro: capisci?”
Robert capiva ma si chiedeva se tutto quello non fosse solo una convinzione di Abdel che invece sembrava così sicuro nonostante si guardasse attorno come fosse spaventato di ricevere un colpo da uno dei cecchini appostati dietro le mesopotamiche case di mattoni di fango: “E tu come fai a saperlo con certezza?”
Abdel si scrollò di dosso un cane arrivato a mendicare un po’ di cibo e che in tutto quel trambusto aveva ancora voglia di giocare. Gli disse di andar via, ma poi pensò che nonostante l’aspetto occidentale, i cani arabi capiscono solo l’arabo e disse “pussa via bestiaccia” nella sua lingua madre.
Abdel Masson era di padre parigino ma la terza generazione da parte di madre era di Mosul. Conosceva quei posti perché una parte impercettibile del suo DNA c’era cresciuta.
Era un freelance, passava dalla Reuters al Le Monde, al Washington Post, per lui tutto il giornalismo era un unico grande foglio bianco su cui piazzare una notizia.
Ascoltando il collega parlare di Falluja, Robert comprese che la sua esperienza da reporter non lo aveva portato a nulla, non sapeva ancora muoversi a dovere in un ambiente ostile e per questo aveva bisogno di giornalisti mercenari a fargli da balia, con l’anima più da soldati che da narratori.
L’ambiente ostile non aveva regole. Non esisteva un “se fai questo non ti succede quello, se fai quello non ti succede questo”, non bastava leggere il manuale del perfetto inviato di guerra per far sì che tutto andasse bene e che non ti ritrovassi una mattina con un bavaglio e una pistola alla tempia, prima del caffè.
Dovevi muoverti secondo direttive che cambiavano di situazione in situazione a ogni ora del giorno e spesso a ogni istante. Una delle regole ferree di cui chiacchierava spesso Martin Clarke del WP al Palestine era quella di non fissare mai a lungo un Fedayn negli occhi durante un’intervista, anche se indossa un passamontagna.
“Potrebbe insospettirsi” diceva, “potrebbe pensare che stai cercando di rivelare la sua identità o potrebbe prenderlo come un desiderio di supremazia intellettuale. I giornalisti per loro sono un mezzo, non sono persone, sono il tramite tra la loro bocca e le orecchie di chi deve ricevere il messaggio. Niente di più che aria, sono. I giornalisti non sono funzionari della comunicazione, sono la comunicazione. Filosoficamente ammaliante, ma realisticamente equivale, per loro, a essere una televisione, una telecamera e un microfono. Non vedono altro e non hanno tempo per la filosofia. Non guardate mai troppo un Fedayn negli occhi”.
Il discorso di Clarke non faceva una piega, era stirato come le camicie ‘Technicolor’ di Rosita Gomez della Reuters, che curava il proprio aspetto come se dovesse preparasi per un party tra vecchi collegiali. Poche feste al Palestine, ma, specie per le donne che passavano degli anni tra spari sangue e ‘Buonasera siamo qui in collegamento da Baghdad per le ultime notizie’, era l’unico modo per rimanere vicini al proprio animo femminile.
Robert era ancora steso sul sedile posteriore quando Abdel gli disse di fare silenzio, nonostante lui non avesse detto una sola parola.
“Cosa c’è? Chi sono quelli?” chiese Robert cercando di togliere ogni pacco o borsone che gli impedisse la visuale, dal vetro posteriore dell’auto.
“Niente paura, sono amici”, lo rassicurò prontamente Abdel.
Si avvicinò un’auto bianca, un po’ maltrattata e scese un uomo con la barba folta, un paio di occhiali alla George Michael e un viso burbero. Mostrò un tesserino della Polizia e parlò in arabo con Abdel, con un tono sommesso nonostante lì tutti fossero abituati a parlarsi addosso e a gridare.
Robert cercò di scrutare qualcosa che potesse servirgli a comprendere meglio ciò che stava accadendo.
“Perché guardi l’auto?” gli chiese George Michael.
Abdel parlò al posto suo: “E’ solo curioso”, disse.
“La curiosità costa cara qui in Iraq” rispose George in un cattivo inglese, “e voi giornalisti siete troppo curiosi.”.
Il tono di quell’uomo non piaceva affatto a Robert, ma non poteva fare altro che ascoltare in silenzio. Era lì, in guerra, vicinissimo alla casa di uno dei più importanti membri delle milizie ribelli, a scrutare gli sguardi di gente dall’identità indefinita per completarne verità incompiute.
Avrebbe finito il servizio, lo avrebbe venduto al giornale e sarebbe tornato a casa pochi giorni dopo. Sarebbe ripartito per qualche altra guerra o forse per la stessa, ma per un po’ avrebbe visto la sua piccola Eirhnh, avrebbe visto la moglie, avrebbe respirato un po’ di quell’aria che si respira dove c’è pace. Forse avrebbe fatto in tempo per la vendemmia.
Un uomo con i pantaloni color catrame si avvicinò e fece cenno con la testa, indicando un portone poco distante.
“Devi fare tu l’intervista” disse Abdel.
“Non dire sciocchezze, non posso farla da solo, mi serve qualcuno che tenga la telecamera” rispose Robert che non aveva idea di cosa ci fosse oltre quel portone.
“Ne vogliono soltanto uno, non si fidano di me, vogliono uno straniero, io sono considerato del posto, ormai” continuò Abdel che posò in terra le borse e aiutò Robert a indossare il giubbotto antiproiettile. Gli calzava stretto, ma era per la sua sicurezza, si sarebbe abituato.
Per qualche motivo che Robert non comprendeva, Abdel non riusciva a guardalo in viso. Senza alzare lo sguardo, il collega gli mise le borse a tracolla e gli indicò il portone: “Il terzo, dopo quel mucchio di legna”.
“Le domande” chiese Robert.
“Ah si, le domande” cascò dalle nuvole Abdel.
Prese un foglio e una penna e scrisse velocemente, troppo velocemente. Ma era probabile che due sole domande bastassero, il resto doveva essere parola di Calabi.
“Sei troppo infagottato amico mio” disse Abdel, mentre il burbero tirapiedi di Calabi si guardava intorno, “ti infilo il foglio nella tasca destra del giubbotto, leggilo quando sei di fronte a lui, è importante”.
Dopo la strizzata d’occhio di Abdel e il cenno del tirapiedi, Robert s’incamminò verso il portone.
Trovò aperto ma bussò ugualmente. Non ottenendo alcuna risposta entrò dopo aver chiesto permesso, con una cortesia inusuale in un ambiente come quello.
Della gente sopra le scale gli fece cenno di salire e così fece. Con fatica arrivò di fronte ad Ahamad Calabi che stava perdendo il suo sguardo fuori da una finestra, voltato di spalle. Uno degli uomini incappucciati cominciò a gridare, ma Calabi si voltò e non si scompose.
Robert tirò fuori il foglio che Abdel gli aveva dato e lo lesse:
“Sei morto per una grande causa! Non fuggire adesso”.
Mise una mano in tasca e strinse qualcosa con forza, poi di lui non restò che il ricordo.

*****

La piccola Eirhnh si svegliò di colpo boccheggiando.
“Papà” urlò dopo essere tornata a respirare.
Si ritrovò nella sua stanza, erano svanite le nuvole di fumo, erano svanite le grida incomprensibili di quegli uomini cattivi, erano svanite le case di fango e sabbia, ma l’affanno, la paura, l’angoscia la trattenevano a forza in quelle terre lontane. Tirò via la collana che sembrava volesse strangolarla e poggiò la testa sul cuscino, decisa a non dormire più per sempre.
Aveva ricevuto la lettera del padre appena tre giorni prima. A stento lesse parola per parola a costo di balbettarle una a una, a costo di star lì ore: quella era la sua lettera e nessuno doveva leggerla oltre lei, ci sarebbe riuscita da sola e l’avrebbe capita, proprio come le aveva scritto il padre.
Lei avrebbe capito.
Tenne il foglio di carta in tasca per giorni fino alla sera in cui tutti in casa Mondeau si riversarono nell’immensa sala da pranzo per festeggiare banchettando e lasciando ai bambini il compito di pregare al posto loro.
C’erano i figli del Signor Bosini uno dei tanti Italiani trasferitosi durante la guerra, la Signora Kolsen e sua figlia Marlene e il predicatore Nielsen con il figlio Joshua, per non parlare degli zii di Albertville e i vicini scrocconi di Villa Heinchër.
Natale, per i Mondeau, era la festa più grande, la festa che meritava il vino più vecchio, i polli più grassi e senza dubbio le poesie migliori dei loro figli e nipoti.
Eirhnh sapeva che in fondo il momento della preghiera dei bambini era un momento che tutti loro avevano sempre aspettato solo per avere i loro regali in cambio, non importava quanto fosse bella la poesia, l’unica cosa importante era che ogni bimbo avesse la preghiera che il predicatore Nielsen aveva assegnato loro, la stessa poesia che avevano recitato in chiesa con gli altri bambini del catechismo. Iniziò Marlene recitando la propria preghiera per Gesù bambino e poi a ruota Joshua e tutti gli altri che alla fine del loro omaggio e delle loro richieste, aprivano il proprio regalo. Il predicatore guardò Eirhnh negli occhi e le chiese: “E tu? Dov’è la preghiera che abbiamo scritto per te?”
La bambina tirò fuori dalla tasca la lettera del padre e la guardò intensamente: no, non aveva sbagliato, pensava solo alle parole di Robert e quel pezzo di carta era l’unico modo per sentire la sua presenza, per averlo vicino.
Posò la lettera sul tavolo e prese dalla tasca un altro foglio pasticciato con sopra un angelo disegnato. L’angelo aveva un casco militare e guidava un carro armato diretto verso un gruppetto di altri angeli. Tutti notarono subito che Eirhnh non teneva in mano il solito cartoncino con il disegno di Natale e le parole della preghiera riscritte in corsivo, in bella copia, come ogni bimbo dentro quella stanza aveva fatto e come da sempre faceva.
Eirhnh si guardò intorno, prese un gran respiro che le gonfiò il petto e cominciò a leggere.
“Caro Gesù bambino” iniziò la preghiera che sembrò essere come tutte le altre, “non voglio la bambola con il fiocco rosa che ho visto con la nonna al mercato, non più, donala ai bimbi della guerra, che loro non hanno il Natale, posso farne a meno, me la regalerai un’altra volta. Fa che papà ritorni, te ne prego. La mamma mi ha insegnato che sei tanto bravo, ma mi chiedo se è vero. Nel mondo c’è la guerra e il mio papà sarebbe con me se solo lo volessi. Caro Gesù bambino, noi ti vogliamo bene, ma anche tu devi sforzarti di volerne a noi. Buon Natale, Eirhnh Van Lippe”.
Ci fu un attimo di silenzio interrotto solo dalle risate nascoste dei bambini e dei rimproveri dei loro genitori.
“E’ una bestemmia” disse a gran voce il predicatore, “una bestemmia per il giorno di Natale. Non è Gesù bambino che permette una follia come la guerra, ma sono gli uomini, bambina insolente”.
La madre di Eirhnh la prese per le trecce e la portò fuori dalla sala da pranzo.
“Dov’è finita la poesia che ti hanno dato in chiesa?” e poi con tono più severo la intimò di rispondere, se non volesse prendere le sberle che aveva in serbo per lei.
“Ma mamma”, balbettò la bambina, “quella non era la mia poesia, la mia poesia è questa, quella non l’avevo scritta io”.
“Da quando in qua Gesù bambino non si sforza di volerci bene? Papà tornerà e lo farà presto, ma adesso smettila e recita la poesia come tutti gli altri”, e coprendosi il viso scoppiò a piangere.
La zia Rose arrivò proprio nel momento in cui la cognata andò via, accarezzò la piccola dolcemente e le disse che anche quei bimbi della guerra avrebbero avuto il loro Natale, perché suo padre stava aiutandoli a riprenderselo.
“Non fare caso alla mamma, sta male quanto te e come te soffre la lontananza”.
Poi porse un pacco alla nipotina dicendole: “Tu per adesso goditi il tuo, piccola mia, questo è da parte del tuo papà”.
Ringraziò la zia con un bacio.
“Ringrazierò anche Papà quando tornerà”.
Gli occhi della donna si riempirono di lacrime.
“Lui tornerà, non è così?”, chiese la piccola.
Ma non ottenne alcuna risposta.

 

 

11.

 

Robert fu ucciso la notte di Natale.
Venne usato come uomo bomba da uno dei ribelli infiltrati alla Reuters: Abdel Rahim Makhlouf era il suo vero nome.
Non fu mai arrestato, ma la Polizia irachena assicurò che il suo corpo era stato rinvenuto a Falluja due settimane dopo, nella zona in cui una volta sorgeva l’Abdoun Mall, un moderno palazzo che ospitava lussuosi negozi e ristoranti e di cui erano rimaste solo le insegne. Venne punzecchiato con dei bastoni da alcuni bambini per due giorni interi, prima che gli americani lo recuperassero.
Nella mente di Eirhnh una delle tante domande che hanno milioni di risposte: “Perché morire per raccontare la morte?”
Ma una domanda che ha milioni di risposte, per Eirhnh era una domanda che non ne ha nessuna.
Eirhnh tenne il sogno per sé, come se avesse timore che qualcuno potesse accusarla di aver taciuto nonostante sapesse.
Ma era solo un sogno, come poteva essere accaduto davvero?
Un sogno non è la verità.

*****
Si era fatto mezzogiorno e Anderson, da circa mezz’ora, si trovava dentro l’Hotel.
Eirhnh guardava insistentemente l’orologio sperando che l’amico venisse fuori in fretta. Non riusciva a spiegare il perché dell’ansia che la stava prendendo e il vecchio che diceva di chiamarsi “Il greco con la chitarra” e che le domandava in continuazione se poteva suonarle qualcosa, non migliorava il suo stato.
“Ti ho detto di lasciarmi in pace”, gridò Eirhnh, stanca di quella continua insistenza.
Ma l’uomo, inebriato dai fumi dell’alcol o più probabilmente della sua follia, non si scompose, come se fosse già abituato a quel comportamento: “Posso suonarti tutto ciò che vuoi, sono qui per servirti ma se continui a evitarmi, piccola Eirhnh …”.
“Come fai a sapere il mio nome?”, chiese Eirhnh che spaventata da quel bizzarro comportamento cominciò a indietreggiare.
“So tante cose sul tuo conto,” rispose il vecchio: “Non ti farò del male se tu non lo vorrai”.
Il greco con la chitarra si spostò tra gli alberi del giardino e le chiese di seguirlo.
“Sei un vecchio pazzo” gridò Eirhnh.
“I pazzi, sono solo persone che si sono stancate di fingere” sorrise il vecchio: “E tu, quando ti stancherai di mentire a te stessa?”
Quando lo vide avvicinarsi, Eirhnh cominciò a urlare ed Anderson uscì subito dall’Hotel.
“Cosa succede?”, chiese il ragazzo cercando di bloccare l’amica che si agitava come fosse impazzita.
“Liberami da quel vecchio, sa il mio nome, vuole farmi del male”, farfugliò la ragazza.

“Ma qui non vedo nessun vecchio, stai un po’ calma”.
“Si è nascosto tra gli alberi. Sapeva il mio nome”.
“Calmati”, la invitò Anderson a ragionare, “rifletti, può averci semplicemente ascoltato parlare e avrà sentito il tuo nome. Che male può farti un vecchio?”.
La fece sedere sui gradini e cercò di tranquillizzarla: “ Allora, dimmi com’era fatto”.
Eirhnh tremava ancora.
“Era basso, indossava un giubbotto di jeans, era insistente, voleva suonare qualcosa per me, diceva di chiamarsi ‘Il greco con la chitarra’, ma con sé non aveva nessuno strumento”.
“Lo strumento ce l’aveva”, la interruppe ridendo uno dei tanti guardoni che si era fermato ad ascoltare, “ma era ben nascosto!”.
Anderson si diresse verso di lui e lo afferrò per la camicia: “Senti stronzo, se non te ne vai di qui ti darò tanti di quei calci nel culo che non potrai più sederti neanche nella tazza del cesso”.
I due si scambiarono cazzotti e battute da film americano fino a quando non intervenne il portiere dell’Hotel a staccare loro la corrente.
“Andate via di qui o chiamerò la polizia, non voglio casini davanti all’Hotel”.
“Dillo al grassone e alla sua amica isterica e visionaria. Qui non c’era nessun vecchio, l’ho vista parlare da sola e poi iniziare a gridare, mi sembrava che stesse male e sono sceso dall’auto per aiutarla, ma vedo che qui non si è soliti ringraziare chi vuole aiutare una persona in difficoltà”.
Anderson guardò Eirhnh che rispose: “C’era un vecchio pazzo che per mezz’ora mi ha ballato intorno, credimi”.
Il passante la guardò storto e dopo un gesto di stizza se ne andò via: “Sei tu l’unica pazza qui!”
“Andiamo Eirhnh, ti porto a casa” disse Anderson prendendo la ragazza per mano e allontanandola da quella folla che si era fatta troppo vasta.
Salirono in macchina, i due, e ci fu subito un gran silenzio che durò per un bel po’.
Ci pensò Anderson a spezzarlo: “Allora Eirhnh, c’è qualcosa che devo sapere? Perché mi hai fatto venire fin qui?”.
Eirhnh non rispose.
“Siamo stati lì dentro a frugare nella lista delle iscrizioni e quel nome esce con il tuo recapito telefonico, la tua data di nascita, il tuo indirizzo …”.
Eirhnh fece un lieve cenno con la mano destra: “Lo so bene, volevo sapere per quale motivo”.
Scosse la testa.
“E’ assurdo” disse.
“A chi lo dici, sono io quello che è stato trascinato fin qui per un motivo e si ritrova con un mucchio d’idee strane in testa”.
Poi, vedendo Eirhnh confusa decise di non infierire ancora.
“Non pensarci più, anzi, ritieniti fortunata, mi hanno detto che a un concorso come quello non si possono fare quegli scherzi, ma terranno la bocca chiusa. Dopotutto sono stati incauti a non controllare attentamente la lista degli iscritti, ne varrebbe il buon nome del premio e il prestigio dell’organizzazione Queen Victoria. Non possono richiamare tutti e bandire un nuovo concorso, sarebbe imbarazzante”.
Ma Eirhnh sembrava non avere ascoltato una parola o per lo meno, sembrava soltanto che avesse recepito l’assurdo, ciò che bastava per metterle in ulteriore subbuglio lo stomaco e la mente.
“Lasciami qui, Anderson, voglio camminare”, disse Eirhnh facendo cenno all’amico di fermarsi.
Anderson cercò di trattenerla: “Sei ancora turbata, non farmi stare in pensiero, fatti accompagnare a casa”.
“Non preoccuparti voglio solo camminare un po’, sto bene, non preoccuparti”, rispose Eirhnh per tranquillizzare l’amico, “e poi sono solo a due isolati, sono quasi arrivata”.
“Ok, ma vienimi a trovare domani” e chiudendo lo sportello lasciò Eirhnh a ragionare l’irragionevole e a riflettere su un altro perché che non aveva risposta.
Iniziò a piovere e aumentò il passo.
“Bene, ci mancava solo la pioggia per completare la splendida mattinata, come se la tristezza debba avere sempre un suo sipario”.
Eirhnh continuò a parlare con se stessa, ma stavolta cosciente di ciò.
“Allora tutta Londra è triste, secondo te, mia piccola Eirhnh?” si sentì una voce rincorrerla.
“Di nuovo tu, vecchio ubriacone” disse Eirhnh al Greco con la chitarra che spuntò da dietro un albero con un ombrello, per ripararla.
Eirhnh non mosse un dito, non gridò, si limitò con coraggio a farsi riparare e a parlare sottovoce.
“Non dovrei parlare con te, la gente mi prende per matta quando lo faccio”.
“Sono loro quelli vuoti come il fondo della mia bottiglia, tu sei solo una che ha dimenticato, che ha rimosso”, rispose il vecchio.
“Rimosso cosa?” chiese Eirhnh incuriosita.
“Io sono qui per suonarti una canzone, la tua preferita, tutto qui, non fare altre domande. Non è mio compito rispondere”.
Eirhnh accennò un sorriso triste: “ Ma se non hai nemmeno la chitarra …”.
“Sì, ma posso leggere i tuoi pensieri. Credi che chi sia in grado di leggere ciò che hai dentro non possa poi procurarsi una semplice chitarra?”
Il vecchio distese le mani e poi le nascose dietro la schiena.
Guardò Eirhnh e le disse: “Sempre che tu lo voglia”.
Prese un po’ di tempo e poi, con un movimento da giocoliere, tirò fuori una chitarra dal nulla.
Eirhnh si sedette con l’ombrello e lasciò il Greco con la chitarra suonare “Cantando sotto la pioggia” una vecchia canzone di Gene Kelly.
“Mi spiace, vecchio, ma questa non è la mia canzone preferita”, disse alzandosi e chiudendo l’ombrello: “Hai sbagliato persona”.
Aveva smesso di piovere e l’uomo aveva smesso di cantare. Eirhnh restituì l’ombrello e s’incamminò verso casa, il vecchio rispose con un inchino che la ragazza nemmeno notò.

 

12.

 

“Caro D’Artagnan,
ho ancora lo spettro di quella dannata festa da Sophie. C’erano tutti i ragazzi del mio liceo, i più belli almeno, ma io ero così cotta di Marcel Leclerc che non avevo occhi per nessun altro, nonostante lui non mi guardasse neanche.
‘Passerai di moda un giorno’ dissi a Justine, ‘quando meno te lo aspetti, perché la gente cambia idea non appena cambi trucco, rincorrerai i loro consensi e cercherai di stare sempre al passo con ciò che si aspettano da te. Ma tu cosa ti aspetti da te stessa? Un giorno ti stancherai di cambiare i tuoi vestiti e resterai sola a pensare a ciò che sei veramente senza tutta quella gente attorno a dirti ciò che vuoi sentirti dire. Ti consumerai. E’ questo che vuoi? Vuoi distruggerti con questo schifo di eroina?’.
Justine aveva già penetrato la mia pelle con lo stesso ago che aveva appena usato lei, rideva perché sapeva che da lì a poco il mio cervello avrebbe viaggiato ed io avrei fatto qualcosa di avventato e stupido.
Mi baciò le labbra e mi chiese di liberarmi delle mie inibizioni, di farlo per lei.
‘Applaudila, festeggiala, inneggiala’ gridò, ‘la gente che si libera di qualcosa sta per diventare ricca, mia cara amica’.
Non mi avrebbe permesso di distruggerla nel momento in cui si sentiva indistruttibile. Aveva di nuovo tutti attorno, aveva smesso di piangere e di lamentarsi, aveva cominciato a vivere così come aveva sempre desiderato.
‘Io non aspiro a nient’altro che a questa terra’ disse e mi chiese a cosa aspirassi io invece. Ma i miei nervi si erano abbandonati al primo abbraccio di speedball e così non le risposi.
‘C’è già abbastanza inferno e paradiso in terra, ci sono già abbastanza diavoli e angeli, qui, adesso, per non credere che l’aldilà cristiano sia solo un plagio’, continuò al posto mio per non spegnermi la fiamma.
‘Mi sentivo sbagliata’, disse, ‘ma adesso ho capito che qui dentro sono la più giusta.’
Aprì la porta del bagno e ‘guardali’ disse, ‘se ne hai ancora la forza’.
Un gruppo di ragazzi la osservavano con lo sguardo di chi aspetta solo un cenno per leccare il pavimento sul quale avrebbe camminato.
La sua voce atonale, priva di anima, abbandonata all’evidenza, mi fece comprendere che non riusciva a vedere al di là dei limiti che la sua mente si era imposta, o forse non voleva perché è più facile morire se la vita la disprezzi.
‘Mi farebbero da schiavi, solo per una scopata.’
Per Justine la prostrazione era il peggiore degli affronti. Nessuno dovrebbe inginocchiarsi di fronte a nulla, né Dio, né uomo, né donna, ma, così come la madre s’inginocchiava al suo Signore, anche lei lo faceva per qualcuno o qualcosa: per Jean-Pierre, per l’eroina.
‘Quando Jean-Pierre mi diede la roba per la prima volta’, disse prendendomi per le braccia e scrollandole per far entrare bene in circolo lo sballo, ‘anch’io all’inizio ero scettica come te, ma adesso ho capito qual è il suo compito nella mia vita: mantenermi sempre viva anche quando la natura delle cose vuole tirarmi giù, questo è il suo compito’.
Mi fece paura, per la convinzione con la quale mi parlava dei suoi ideali, era stata inghiottita dai suoi stessi pensieri, inconsapevole di stare per sprofondare. Mi fece paura perché quella sua personalità forte, murata da mura insormontabili, mi sovrastava ogni secondo che passavo con lei. Poteva convincere un prete a spogliarsi dei suoi abiti, se solo avesse voluto. Iniziai a pensare a quale fosse la vera Justine, se quella che mi accarezzava la testa nei momenti di sconforto o quella che avevo di fronte.
Mio valoroso D’Artagnan, non scorderò le tue parole: ‘C’è gente, mia piccola Eirhnh, che dopo aver distrutto il proprio mondo e i propri sogni cerca di distruggere quelli delle persone come te che ancora hanno fantasia di vivere. Questa gente vuole sentirsi superiore rendendo inferiori gli altri e non cercando di elevarsi. Tu sii sempre te stessa’.
Mio moschettiere dal cuore d’oro, in quel momento pensavo a te perché stavo vanificando i tuoi pochi tentativi di rendermi forte, di rendermi donna.
Non saprei definire con precisione ciò che provai quando l’ago sputò fuori la sua ultima goccia.
Non fu il formicolio che avevo sempre immaginato ad attraversarmi il corpo, ma fu quasi come un’energia che ti sale pian piano lasciandoti prima smarrita e poi totalmente priva di controllo.
Iniziai a ridere per nulla, c’erano piccoli sprazzi di paura che mi bloccavano, ma Justine mi prese la testa tra le sue mani e cominciò a sussurrare ‘break on trough’ intonandola con la sua splendida voce che quando cantava acquisiva di colpo l’anima che sembrava aver perso.
Qualche minuto dopo uscimmo dalla stanza gridando a squarciagola ‘Break on trough to the other side’. Fuggire, dall’altra parte, dalla parte dell’ingiusto, del cattivo, del deplorevole, dalla parte in cui nessuno voleva trovarsi ma che inevitabilmente si riempiva ogni giorno di gente come noi.
Senza nessuna inibizione a farmi perdere tempo prezioso, cominciai a liberarmi delle mie parole e dei miei pensieri con chiunque mi si presentasse di fronte. Scoprii che proprio io, che pure ero sempre tanto silenziosa, avevo da dire qualcosa a tutti.
Forse l’indomani mi sarei pentita, ma nessuno poteva fermarmi ed io non stavo così bene da talmente tanto di quel tempo …
Sembrava che il DJ mettesse su la musica apposta per me, sembrava che tutti stessero vivendo per me, divertendosi per me, io ero il centro dell’universo di ognuno, ma non del mio. Marcel mi si avvicinò, lo vidi con la coda dell’occhio, ma non m’intimidì, anzi, forse era lui a sentirsi di troppo nonostante in quei due metri quadri eravamo rimasti solo io e lui.
Io giravo e il mondo girava con me, per me, era davvero come diceva Justine e ne ebbi la conferma quando Marcel cercò di fermarmi per provare a parlarmi. Che assurdità, in un qualsiasi altro momento sarei rimasta congelata, invece lo guardai come se già fosse stato mio e lo baciai.
‘Allora trottolina’, mi chiese, ‘dobbiamo stare ancora qui a girare su noi stessi o saliamo al piano di sopra?’
Lo fissai senza rispondere e continuai a baciarlo mentre Justine ridendo si avvicinò a me con quella sua aria vittoriosa: ‘E pensare che fino a un momento fa mi rimproveravi di non avere sogni. Adesso hai visto quanto posso sognare? E posso farlo ogni volta che voglio’.
Cedetti alla tentazione senza paura di alcun giudizio: la tentazione esisteva molto tempo prima che inventassero il peccato.
Io e Marcel facemmo sesso per ore nella stanza del fratello di Sophie ma, a differenza di ciò che mi aspettavo, non andò via dopo essersi divertito, ma restò abbracciato a me continuando a sfiorarmi il viso.
‘Pensi mai alla morte?’, disse osservando i poster che erano appesi nella stanza, ‘pensi mai a cosa significherebbe vivere per sempre?’.
‘Si’ risposi, ‘soffrire per sempre’.
Nonostante fosse nudo come un verme, ubriaco e sporco del suo stesso sperma, rise per l’imbarazzo che gli dava parlare della magia dell’universo, un nome carino che l’uomo ha dato al nulla.
‘Non dai l’impressione di una ragazza che soffre, anzi tutt’altro, sembri divertirti’, continuò voltando lo sguardo verso me.
‘Tutti soffriamo e penso che davanti a una scelta di vita eterna reale molti si tirerebbero indietro’.
Gli occhi di Marcel si fecero assenti per qualche istante.
‘Già’ disse, ‘capire che stai bevendo l’acqua di chi ha sete e il cibo di chi ha fame, cadere e cercare di alzarti sapendo che potresti ricadere’.
‘La gente non ha le palle per sopportare l’immortalità’.
Poi d’improvviso Marcel cambiò, cominciò a parlare degli Iron Maiden e del loro ultimo concerto, di come un bambino di sette anni come il fratello di Sophie potesse avere una passione così sfrenata per loro, tanto da tappezzare la stanza di quei poster giganti.
‘Che musica ascolti?’ mi chiese, ma non risposi perché era evidente che quella non fosse una vera richiesta di conversazione.
Cosa l’aveva turbato? La morte forse, o la consapevolezza che anche una ragazza come me potesse pensare? Si alzò, si vestì e scese giù dicendo una cosa che mai avrei voluto sentirmi dire in quel momento: ‘Sei stata fantastica, ma se resto ancora con te quassù, domani potrei avere problemi con Severine. Tu sai come vanno queste cose, la gente inizia a parlare e …’.
Io lo guardai fredda come se giacessi in un letto di ghiaccio.
‘Non preoccuparti’ risposi, ‘non devi farti nessun problema con me’.
‘Grazie’ disse, ‘sapevo che avresti capito, sembri una in gamba tu’ e andò via.
Forse se avessi saputo che stava con un’altra ragazza, quella sera avrei lo stesso fatto l’amore con lui con tutte le conseguenze che ne sarebbero scaturite. Forse, mio coraggioso D’Artagnan, fu in quel momento che iniziai a perdere i miei sogni, nel momento in cui il cuscino cominciò a sporcarsi di lacrime e rimmel”.

 

 

13.

 

“Allora cosa ne pensa, Dottor Mills?” chiese la Signora Van Lippe preoccupata, “è da tanto che si comporta così. Non sappiamo più cosa credere, abbiamo anche contattato il predicatore Nielsen, pensavamo vedesse fantasmi o roba del genere, lei capisce, non sapevamo più cosa credere, ma a nulla sono valse le preghiere” e nervosamente cominciò a maltrattare i suoi capelli.
Robert stava in silenzio, lo era stato anche il giorno in cui il predicatore arrivò in casa sua riempiendo Eirhnh di tutte quelle diavolerie che non avevano di certo aiutato la sua bambina a smettere di parlare da sola.
Il predicatore arrivò con una croce in argento e oro in una mano e una “particolare”, come la definiva lui, bibbia, nell’altra mano. Cominciò a parlare con la bambina come se stesse parlando con il demonio, ma non c’era nessun demonio presente, Eirhnh lo sapeva e rideva divertita.
“Non sono demoni, predicatore Nielsen, sono solo i miei amici e per ora stanno ridendo di lei. La smetta, giochi con noi anche lei, stiamo giocando a nascondino, ma loro mi trovano sempre”.
Il predicatore non ascoltò nessuna delle parole della piccola, come se non fosse lei a parlare. Tutta quella messa in scena fece alterare Robert che interruppe il silenzio e invitò l’uomo ad uscire.
“Non preoccuparti, chiameremo un medico, amore” si rivolse alla moglie.
Il medico era lì adesso.
“I bambini si creano spesso degli amici immaginari, Robert, lo fanno per compensare una mancanza di affetto, una perdita di un amico, di qualcosa di caro. Ha mai perso qualcuno di caro?”
Il dottore cominciò a fare domande, parlando delle continue lontananze di Robert e dello sviluppo mentale dei bambini, mentre, in un angolino, Abhik stava ad ascoltare.
Robert si allontanò un minuto e il domestico indiano approfittò di quella fuga per avvicinarsi a lui.
“Non si preoccupi Signor Van Lippe, sua figlia non è malata e non è nemmeno posseduta, sta solo sognando”.
Robert guardò il vecchio Abhik con disprezzo e gridò: “Ti sembra normale, Abhik, ti sembra normale? Guardala!” e dopo averlo afferrato per un braccio lo portò fino all’uscio della stanza dove Eirhnh giocava.
Sopra uno sgabello recitava i testi de I tre moschettieri, un libro che forse non capiva ma che l’aveva appassionata fin dal giorno in cui lo trovò nella stanza del nonno.
“Vedete, Signor Van Lippe? Non sta piangendo, non sta soffrendo, sta soltanto giocando e ridendo. Cerchi di scorgere il bello che è in lei, si preoccupi solo della sua originale capacità di sognare, cerchi di capire la poesia che trova nelle mille cose che le stanno attorno, non faccia prendere le medicine a un sognatore”.
Il vecchio Ojibwa guardava la bambina con gli occhi pieni della stessa luce che illumina le stelle, una luce che gli uomini possono ammirare soltanto da lontano.
“Per un sognatore la realtà è una pausa” disse: “E non importa, se la vita e chi ci sta dentro diventa man mano così fatua da indurlo all’esilio psichico: il sognatore sa di esistere meglio in luoghi più che decorosi per una dignitosa esistenza. Quei luoghi si chiamano ‘altrove’, ‘verso’, ‘attraverso’. Il sognatore muore durante il viaggio, come ogni altra volgare creatura, ma quei pochi che arrivano a destinazione rimangono eterni: sono rari e i viventi li chiamano artisti”.
Robert chinò la testa e si appoggiò schiena al muro quasi fosse senza forze: “Lo so, la mia piccola è sempre stata in gamba, non è come le altre bambine, non lo è mai stata e non lo sarà mai, le ho sempre parlato come fosse già una donna e lei mi ha sempre capito”.
Robert cominciò a piangere attirando l’attenzione della bambina che fece finta di non vedere e non sentire.
Eirhnh smise di ridere e alzò il capo verso il vuoto: “Adesso dovete andare via”, disse sottovoce.
“Anche tu”, puntò il dito verso una piccola porzione di spazio in un angolo buio, “per sempre, dovete andare via per sempre”.
Rimase in silenzio un istante: “Mi spiace, ma non posso più giocare con voi. Mi mancherai anche tu!”
“Papà” gridò la piccola.
Robert levò gli occhi in alto e ascoltò: “Io non sono malata, stavo solo scherzando, era tutto uno scherzo” poi sorrise e abbracciò il padre, “lo sai anche tu che non c’è nessuno qui dentro, ma volevo giocare un po’, tutto qui”.
Robert abbracciò la figlia e sorrise:
“Lo so, mia piccola luna, l’ho sempre saputo”.
Abhik sorrise e senza destare scompiglio in quell’atmosfera di sollievo che Robert provava si allontanò rivolgendosi al vuoto che aveva attorno: “Andiamo via, moglie mia, la gente non è ancora pronta per affrontare i propri sogni“.

 

14.

 

Eirhnh arrivò a casa che era già sera. Aveva una tale confusione in testa. Guardò il pavimento, così scarno d’immagini che sperava la liberasse da tutto quel confuso affollamento di pensieri e ricordi. Mr Kermit, libero per la stanza, passava da un tavolo all’altro, forse chissà, sognando di essere in un bosco a scegliere il posto più sicuro per un nido.
Mr Kermit.
Eirhnh lo chiamò così perché da piccola teneva sempre accanto il Muppet che il padre le aveva mandato quel Natale in cui scoprì che non sarebbe mai più tornato dalla guerra. Come tutti i giocattoli dei bambini l’aveva abbandonato e dimenticato per poi rimpiangerlo negli anni in cui si rimpiange il tempo del gioco, della fantasia, dell’immaginazione.
Eirhnh riusciva ancora a vedere suo padre in uno degli ultimi istanti felici passati assieme. Teneva per mano Robert che le spiegava come si mangia la “Crêpe Grand Marnier”.

 

“Non la faranno di certo come a casa nostra, ma questo è l’unico ristorante dove ci vanno molto vicino” spiegava Robert, “vedi, ti portano la crêpe e poi…”.
“Poi danno fuoco a tutto” rispose Eirhnh giocando con il suo pupazzo: “E il cameriere dice Et voilà le grand feu ma petite!”.
Robert guardò la figlia e le chiese: “E tu come lo sai mia piccola luna? Non vai mica a ubriacarti di crêpes Grand Marnier quando io sono fuori”.
“No, ma che dici” rispose la piccola ridendo “la mamma mi ha portato al ristorante per il mio compleanno, quando tu eri partito”.
Robert arricciò il viso: “E’ vero, non ci sono mai nei momenti importanti”.
Eirhnh alla vista del padre intristito, subito cercò di risollevarlo: “Non ti preoccupare papà, io il compleanno lo faccio ogni anno”.
“Lo so” rispose Robert, “ma volevo essere presente il giorno della tua prima crêpe infuocata, tutto qui”.
Un lampo gelò l’istante come un flash di una macchina fotografica, seguito pochi secondi dopo da un tuono così forte da far scattare gli allarmi delle auto posteggiate nel viale e far saltare la corrente.
Eirhnh cominciò a chiamare Mr Kermit inciampando qua e là per trovare almeno una candela, ma dei rumori persistenti la convinsero a fermarsi.
“Mr Kermit. Chi c’è in casa? Chiamerò la polizia”.
“Aiutami Eirhnh” si sentì una voce affannata echeggiare per il corridoio: “Aiutami, ti prego! Non stare lì ferma, fai qualcosa”.
“Chi sei?” chiese Eirhnh: “Cosa ti è successo?”
Per un attimo rise di se stessa, una risata tremolante e isterica, sapeva bene che quella era un’altra delle voci arrivate da qualche parte dal suo passato per confonderla. Così ripeté insistente la chanson de l’eau.
“Eau si claire et si pure, bIenfaisante pour tous, J’aime ton doux murmure, d’où viens-tu? Dis-le-nous”.
Nonostante la filastrocca le riempisse la mente, il grido di aiuto dell’uomo era così disperato che a nulla serviva alzare la voce e ripetere i versi più velocemente.
“Je viens de la montagne” ripeteva la nenia, “des glaciers azurés” ma non riusciva a zittire quella sua follia, quell’insensata richiesta di soccorso, proprio lì, nel mezzo di un bilocale buio.
“Non perdere tempo, mia piccola luna, sto per morire!”
Quando si fece chiaro di chi fosse quella voce, Eirhnh smise di combattere le sue paure e in fretta cercò una delle sue candele profumate in uno dei cassetti riservati alle carabattole comprate a Camden.
“Papà” chiamò, “dove sei, resisti un attimo soltanto”.
Trovò un accendino, pescò nel mucchio di candele con alla base il piattino di ceramica e le posò sullo scrittoio.
“Ti ho tradito, non è così? Ti avevo promesso che sarei tornato!”
Dopo aver fatto luce, Eirhnh si voltò e si trovò nel presepe senz’angeli che aveva sognato da piccola, attorniato stavolta da un fumo denso e soffocante.
Non c’era traccia del padre, eppure ne sentiva la voce, ormai quieta.
“Non volevo che finisse così, non era questo che volevo. Perdonami!”
In piedi in mezzo ai detriti di una vecchia casa caduta, Eirhnh cercò di rovesciare alcuni dei cadaveri riversi in terra e ricoperti di pietre e polvere.
“Vai via” le gridò il padre: “Stanno arrivando!”
“No, se non mi dici dove sei” rispose Eirhnh.
Un uomo con una folta barba e dei grossi occhiali entrò scostando ciò che rimaneva della porta d’ingresso, tossì e porse al tale dietro di sé un fazzoletto.
Abdel Rahim aveva una digitale tra le mani e dopo aver scacciato via il fumo in vano smanacciando l’aria, cominciò a scattare delle foto.
“Sei tu che l’hai ucciso, non è così figlio di puttana?” urlò minacciosa Eirhnh, ma Abdel non si scompose, non sembrò accorgersi né della sua presenza né di avere una pistola puntata contro.
“Tocca a te adesso” continuò la ragazza con le guance sporche di fango, misto di polvere e lacrime.
La voce di Robert si fece vicina tanto che per un attimo Eirhnh pensò di averlo accanto, ma era solo un’illusione.
“Non farlo, Eirnhn, tu non sei come loro!” le disse.
“Sono stanca di sentirmelo dire. Lo sono invece, sono esattamente come tutti gli altri” rispose e subito iniziò a sparare verso i due uomini che, immuni alle pallottole, si incamminarono verso la porta passando attraverso il corpo della ragazza.
Un lampo l’accecò per un istante e la costrinse a chiudere gli occhi.
Era da un attimo tornata la luce ed Eirhnh si ritrovò per terra a mani giunte a piangere, mentre qualcuno bussava alla porta.
“Eirhnh, stai bene?” chiese la vicina di casa: “Cos’erano tutte quelle grida? Per poco non chiamavo la polizia”.
“Non si preoccupi Signora Nelson, mi ero addormentata con la tv accesa, non succederà più, lo prometto”, tranquillizzò Eirhnh, la vecchia.
“Bene, altrimenti la prossima volta finirò per prendermi un colpo”.
Quando si rialzò, trovò Mr Freddy sul divano. Lo prese tra le mani e lo avvicinò al viso che puntualmente il canarino beccheggiò. Tutto fuori era scomparso, ma dentro lei, quel tutto era ancora nitido più della realtà.
Piangeva Eirhnh, trasformando i suoi sentimenti in materia, trasformando l’irreale in reale.
“Abbiamo allagato un mondo con le nostre lacrime” recitava una frase del racconto che aveva scritto per il premio Queen Victoria, “se non ci credi lecca il tuo pianto e bevi un sorso di mare”.
Per la prima volta nella sua vita Eirhnh aveva veramente paura.

 

15.

 

“Caro D’Artagnan,
i pupazzi non hanno anima, non hanno cuore, eppure è a loro che i bambini di tutte le generazioni donano da sempre il proprio amore. Se si potesse raccoglierlo tutto, si guarirebbe il mondo in un istante. L’amore per un pupazzo è un amore perduto, dilapidato inutilmente.
Il giorno in cui vidi Marcel abbracciare Severine, capii d’essere anch’io un avido e insignificante pupazzo, non mi sarebbe rimasto niente dei suoi abbracci ed io non avrei lasciato altro che un ricordo di spensieratezza e disincanto da abbandonare per crescere, per realizzare qualcosa e non perdersi in infantili fantasie.
Io avevo contribuito a crearmi quell’immagine e ne subivo impassibile le conseguenze. Come ci si può innamorare di una persona che si fa di eroina e ti si concede senza nessun giudizio? Come ci si può innamorare di un pupazzo? Non lo biasimavo, non potevo odiarlo, potevo solo odiarmi per quello che pian piano ero diventata.
Mi feci per un po’ perché avevo bisogno che Justine mi stesse accanto. Veniva in casa mia carica della sua scorta con quell’idiota …
“Posso prenderlo?” disse un giorno Jean-Pierre indicando Kermit, “il mio fratellino ne sarebbe contento”.
“Sarebbe contento anche di vederti in queste condizioni?” chiesi carica di rabbia.
Rise perché sul mio viso i segni della droga erano visibili quanto nel suo, che era intriso di una tale apatia di vivere che i suoi occhi sembravano privi di esistenza, perennemente assenti per non dover guardare il mondo in cui erano finiti a vivere.
“Non c’è bisogno di offendere”, s’intromise Justine, “vuole solo far un regalo a suo fratello malato, tutto qui”.
“Prendi quello che vuoi e vattene” dissi e subito mi alzai. Entrai in bagno, mi sedetti e cominciai a fare pipì senza neanche abbassare le mutandine. Me ne accorsi un attimo dopo e misi le mani sul viso. Avevo perso la mia lucidità, il mio cervello sembrava voler trasmettere impulsi ai miei arti, ma qualcosa in mezzo ne ostacolava ogni sana comunicazione. Non mi disperai, l’apatia crea questo, appiattisce perfino la disperazione.
Justine s’inginocchiò di fronte a me e mi sfilò via gli slip qualche centimetro bagnandosi le mani, dicendo che anche a lei era successo una volta, che non dovevo preoccuparmene.
Arrossii, nonostante l’eroina nelle vene avevo ancora quella maledetta timidezza che lei diceva di amare.
“Allora, si può sapere cos’hai?” mi chiese: “L’altra notte hai fatto sesso con Marcel, non sei contenta? Non è quello che volevi?”
Non c’era alcuna contentezza nel mio sguardo, un po’ di confusione e insicurezza, nient’altro.
“Ok, ti prometto che questa è l’ultima” cominciò a baciarmi le ginocchia Justine, “poi smetterò di farmi s’è questo che vuoi, torneremo grandi amiche e verremo fuori da qualsiasi cosa ci ha inghiottito, insieme”.
Aveva un tono così convincente che per un attimo mi fidai delle sue parole, forse un po’ ci credeva davvero anche lei che fosse possibile sconfiggere un così invincibile male, che non ha forma né sembianze e che soprattutto non si presenta come tale.
“Allora vuoi che la finisca tutta io?” gridava Jean-Pierre dalla stanza accanto: “Cosa fate voi due in bagno. Lasciatemi guardare almeno!”
“Vado a farmi l’ultima” mi disse Justine, “lo faccio per lui, solo per lui. Non è così male come pensi. Si è dimostrato così gentile e premuroso nel farmi trovare la roba quando ne avevo bisogno”.
Le volevo bene, Dio quanto gliene volevo, ma sapevo che quella non sarebbe stata l’ultima volta e lo scoprii molto presto.
Da due giorni non se ne avevano più notizie. La Signora Daunas telefonò disperata a casa mia, m’implorava di aiutarla, di dirle qualcosa che lei non sapeva a costo di inventarmela.
“State sempre assieme, tu sai dov’è nascosta” urlava con voce tremante dal troppo pianto. Sapevo benissimo con chi era e cosa stava facendo, ma non lo dissi alla madre: la odiavo tanto quanto la odiava Justine.
“Signora Daunas” dissi, “non si preoccupi, vedrò di fare il possibile per trovarla, sarà a festeggiare con qualche amico”.
“Grazie Eirhnh, sei una brava ragazza” mi rispose la donna e quelle parole mi fecero sentire peggio di come già mi sentivo.

*****
“Ti rendi conto che tutti ti stanno cercando da due giorni?” dissi a Justine quando la scoprii seduta in un angolo nel vecchio garage di Jean-Pierre.
“Quanta gente mi vuole bene, buon Natale a tutti”, rispose.
“Avevi promesso” dissi e ripetei la stessa frase per tre, quattro volte almeno: “Avevi promesso”.
Si voltò verso di me, per un attimo le sue labbra si contrassero come prese dal dispiacere.
“Non c’è altro modo di guarire dalle disgrazie” disse, “se non quello di dar fuoco alla propria vita e guardarla bruciare fino a che diventi cenere”.
Nonostante il consueto distacco dal mondo ormai tipico del suo sguardo, non vedevo nessuna siringa, nessun cucchiaio accanto a lei, neanche quell’ idiota di Jean-Pierre.
“Dov’è lui?” le chiesi.
Rise, alzò il braccio indicò fuori con la mano pesante: “Gli ho spaccato il cranio con una lampada”.
Non mi dispiacque, non mi precipitai neanche per capire cosa fosse successo, pensai invece a portarla via con me.
“Tutti ti aspettano”, le dissi.
“Fai strada, ti raggiungerò tra un po’, adesso vai, lasciami sola”.
Sapevo che non sarebbe venuta, ma non avevo idea che non l’avrei mai più vista.
Si uccise buttandosi nel fiume qualche ora dopo, stando agli accertamenti che fece la polizia. Morì proprio la mattina del 25 Dicembre, anche lei, proprio nel momento in cui in tutte le case si festeggiava la nascita di un essere umano, poco distante un altro ne stava morendo. Tremo al pensare che mentre noi ci riempivamo di dolci e panettoni lei ingoiava quell’acqua che l’avrebbe a poco a poco soffocata. Ad ogni mio morso un suo respiro affannato, ad ogni buon Natale lei si dibatteva e andava giù fino a toccare il fondo, l’ultimo fondo che avrebbe mai toccato.

 

16.

 

“E’ uguale a qualsiasi altra carta, e comprandola contribuirete a salvare la natura”, gridavano i ragazzi dello Stand di Greenstorm, “ciò che è scritto rimane scritto anche qui, non preoccupatevi”.
“Hai mai provato a pulirti il culo con quella carta igienica?” domandò ridendo un passante in cerca di un palcoscenico.
“E tu hai mai provato a trattenere il fiato per più di cinque minuti?” rispose Kim, il capogruppo lasciando a bocca aperta il passante che, voltandosi dall’altra parte, si lasciò dietro una scia di “stronzo” da parte di tutto il resto del gruppo.
“L’uomo è stato creato da un mucchio di fango”, sorrise Kim, “in alcuni si nota più che in altri”.
Eirhnh si avvicinò allo stand e prese tre sterline dalla tasca.
“Credete davvero di poter salvare il pianeta?” chiese.
“Per nulla” rispose il ragazzo lasciando Eirhnh stupita: “E’ l’irrimediabile che ci spinge a continuare le battaglie perse. Noi non vogliamo cambiare il mondo, siamo troppo in gamba per ignorare che non è possibile farlo. Il nostro unico obiettivo è di tracciare una linea di demarcazione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e porci dalla parte del giusto. Ma non vogliamo cambiare il mondo, è un’idea che non sta né in cielo né terra: in fondo neanche Dio è riuscito a liberarsi dell’Inferno”.
“Ci si deve convivere!”
“Hai detto bene amica mia” disse Kim: “Il solito pacco?”
Eirhnh inarcò le sopracciglia e sorrise.
“Ci conosciamo?” chiese.
“Scherzi?” rispose Kim: “Tu da sola stai salvando la foresta amazzonica, tutti gli Mpingo e gli arbusti di Sant’Elena rimasti sul pianeta”.
“Mi scambi per qualcun’altra. Capita spesso ultimamente” disse Eirhnh abbracciando il suo pacco e andando via senza né salutare né firmare il registro degli ambientalisti.
Kim, stupito, si rivolse ai compagni: “Eppure avrei giurato fosse Allan”, ma non aveva dubbi che quella fosse davvero chi credeva che fosse.
Eirhnh si fermò, per un attimo strinse i pugni nervosamente e decise di ritornare sui suoi passi.
“Possiamo fare altro per lei, signorina?” chiese gentile un’altra ragazza, tirando via Kim dallo spazio vendite.
“Sì, potete fare altro” balbettò impacciata Eirhnh, “ho dimenticato di firmare”.
“Ecco la penna” mostrò una biro l’attivista in maglia bianca e verde, “e lì c’è il registro”.
Eirhnh firmò e cominciò a sfogliare il registro sotto gli occhi dei ragazzi ammutoliti.
Kim si fece avanti e con uno scatto d’indice bloccò una pagina tra il mucchio di pagine già sfogliate e rigonfie d’aria, alla destra della ragazza.
“E’ questa che cerchi?” disse: “Controlla tutti i Mercoledì, chiunque tu sia.”
E così fece. Eirhnh li controllò uno per uno.
Allan aveva firmato ogni settimana, anche il Mercoledì prima del concorso “Queen Victoria”.
“Sei tu!” disse Kim guardandola: “C’è qualche problema, posso aiutarti?”
“ No… io mi chiamo Eirhnh”, gridò la ragazza lasciando cadere il pacco per terra, “io sono Eirhnh Van Lippe ” e scappò via correndo verso il negozio di Miss Mary e lasciandosi dietro i ragazzi di Greenstorm confusi ma discreti.
“Il tuo pacco” gridò Kim, ma lo fece una volta soltanto.
Arrivò affannata a destinazione e trovò Miss Mary affaccendata in mille pulizie e Jazz seduto, in silenzio come al solito perché per lui, diceva, il silenzio era il miglior modo per prepararsi al Paradiso.
Eirhnh rimase sull’uscio a godersi ancora per un po’ il contrasto che c’è tra la sicurezza di una tana e il pericolo del mondo fuori.
“Cos’hai?” le chiese l’amico preoccupato.
“Allan Shovinskij mi perseguita ancora. Non ce la faccio più”.
Miss Mary si voltò seguendo la voce di Eirhnh e chiese: “Allan? Cos’ha? E’ una così brava ragazza. Buon Dio, perché mai ti perseguita?”
“Lei conosce Allan?” chiese Eirhnh alzando il viso in lacrime.
“Certo, è venuta un paio di volte per comprare un canarino, ma io le ho detto che i miei animali non sono in vendita. Si è offerta di suonare per me in cambio di …”.
Stette un attimo a pensare e poi: “Mr Kermit. Sì, credo lo abbia chiamato così”.
“Cosa le ha suonato, Miss Mary?” chiese Eirhnh trattenendo le lacrime.
“Sai quel pezzo che Gene Kelly cantava in quel film?”
“Cantando sotto la pioggia” la interruppe Eirhnh.
“Sì, proprio quello” disse Miss Mary che cominciò a canticchiare stonata, “lo conosci?”
“No” disse Eirhnh, “ma dovrei”.
Poi si rivolse a Jazz.
“E tu?” chiese: “L’hai mai vista?”
Miss Mary sorrise: “Lui va sempre via quando vai via tu, ed è qui solo quando ci sei tu”.
L’innocente imbarazzo di Jazz fu come tornare a casa dalla guerra, assorbì ogni malinconia e paura, per qualche strano motivo lui era capace di darle quiete anche quando niente e nessuno sembrava poterla rasserenare. Puoi regalare denaro, amore, arte e musica, ma se vuoi che la gente ti ami davvero e per sempre, liberala dalle sue paure e dalle sue dipendenze.
Eirhnh si avvicinò al suo unico rifugio dai pericoli della vita, gli si chinò di fronte e gli posò la testa sulle gambe. Jazz si piegò e l’abbracciò.
I due restarono immobili in quel modo, l’uno nel conforto dell’altra, mentre il saltellare e il cantare del “greco con la chitarra” rintronavano ancora nelle orecchie di Eirhnh.

*****

Lungo il Serpentine Lake le anatre sembravano accompagnare Eirhnh e Jazz per tutto il tragitto come un padrone di casa fa quando riceve i suoi ospiti. Eirhnh raccontò senza censure tutto ciò che le era successo in quegli ultimi giorni. Accanto a Jazz, ogni cosa perdeva il suo peso e anche le cose più strane e terribili cominciarono a dileguarsi nei pensieri buoni pensieri.
“Sembri circondato da un’aura immensa e profumata” disse Eirhnh: “Sai di mosto, di rose di giardino”.
“Sei tu che mi vedi così, Eirhnh, sei tu che vedi in me quello che hai dentro di te”.
“Secondo te cos’ho dentro?” chiese Eirhnh.
“Tanta voglia di quell’aura immensa e profumata” rispose lui lasciando la ragazza pensierosa a osservare il lago al tramonto.
“Perché non parli mai del tuo passato, Jazz? Da quando ti conosco non hai mai detto una sola parola di quello che sei stato, di come e dove sei cresciuto. Perché ami così tanto stare da solo?”.
“Perché nulla è davvero grande se non puoi anche farlo da solo. Leggere, scrivere, dipingere, pregare, suonare, per esempio”.
Eirhnh rispose, ma Jazz non l’ascoltò neanche.
“E’ poi così importante?” la interruppe, “Il passato è la vita che se n’è già andata, il futuro non è altro che la vita che se ne andrà, vivi l’unica cosa certa che hai …”.
Poi anche lui guardò il lago e lanciò un sasso che non fece cerchi:
“Il presente, Eirhnh. Impara a vivere del tuo presente, perché è l’unica cosa che hai realmente”.
I due distolsero lo sguardo dal resto delle cose per posarlo l’uno sul viso dell’altra.
“Se una volta ti chiedevi perché si potrebbe desiderare di vivere per sempre, eccoti la risposta” e la baciò come nessun altro prima aveva mai fatto, semplicemente con amore.

 

17.
Bussarono alla porta di Eirhnh che erano le otto del mattino. La ragazza si alzò controvoglia e andò ad aprire.
Anderson, fermo sull’uscio, si grattava con due dita la tempia destra e faceva fatica ad alzare lo sguardo.
“Cosa fai qui a quest’ora?” chiese Eirhnh, ancora in pigiama.
“Scusa se ti disturbo, ma la Signora Nelson ha pensato di chiamarmi … Sai, visto che ti conosco, per non dover chiamare la polizia”.
“Polizia? Ma di cosa stai parlando?”
“Ho detto loro di non entrare, che è tutto a posto, che verrai con me in ospedale senza fare resistenza” disse Anderson sottovoce.
“Loro? Loro chi?” rispose Eirhnh che indietreggiò di qualche passo.
Anderson fece cenno di fare silenzio: “Ti prego Eirhnh, non rendere le cose più difficili di come sono”.
Tre infermieri entrarono senza neanche chiedere permesso e la presero di forza.
“Spiacente” disse uno di loro, “ma il tempo è scaduto e noi abbiamo altro lavoro da fare”.
Anderson cercò di fermarli, ma non poteva far altro che chiedere almeno un po’ di garbo: “Piano, fate piano” diceva, “è solo una ragazza, fate piano”.
Eirhnh urlava e scalciava gridando di non essere pazza e di essere stata tutta la notte con Jazz e che lui poteva confermare.
“Ecco che ci risiamo!” borbottò la Signora Nelson alla sorella, “tutta la notte a fare baldoria e a ballare da sola parlando con questo Jazz. Mi sono dovuta sporgere quasi a rompermi l’osso del collo per capire che era da sola in casa. Ed è da mesi, sai, è da mesi che si comporta in questo modo. Che Dio la protegga”.
“Jazz” chiamava ma non c’era nessuno in casa oltre lei e un mucchio di gente che credeva fosse pazza. Il calmante che le avevano iniettato lentamente le circolava in vena attraversandole il corpo, annebbiandole la mente. Quelle sensazioni non le erano nuove.
“Non sono pazza” gridava Eirhnh, “non sono pazza” e poi chiuse gli occhi.

*****

Di ritorno dal Serpentine Lake, Jazz ed Eirhnh erano andati a casa di lei.
Jazz preparò le crêpes Grand Marnier, mentre Eirhnh mise su un Coltrane e accese le candele di Natale, rimaste lì per mesi, sulla sporgenza interna della finestra che dava su Regent.
“Sono le ultime candele rimaste” disse e continuò a imbandire la tavola.
“Perché non mi avevi mai detto quello che provavi?” chiese Eirhnh.
“Per lo stesso motivo per cui non l’hai fatto tu”, rispose Jazz.
I due si guardarono negli occhi per quell’imbarazzante attimo che svela per sempre i cuori di tutti gli innamorati.
“Et voilà le grand feu ma petite!” disse Jazz dopo aver incendiato le due crêpes.
Mangiarono e ballarono per tutta la notte fino all’alba.
“E’ da quando ti conosco che osservo il medaglione che porti al collo” disse Jazz ripassando negli stessi passi di danza, una danza quieta che ondeggiava leggera, mantenuta come fosse un moto perpetuo al solo scopo di tenere tra le braccia la sua Eirhnh.
La ragazza fece per sfilarsi l’acchiappasogni di Abhik e lo strinse in una mano.
Jazz la fermò.
“Non toglierlo, ti sta bene” disse.
“Che stupida. E’ da così tanto tempo che ce l’ho che a volte dimentico di averlo addosso. Me lo regalò un amico molto tempo fa”.
Piano distese il pugno e tirò fuori dalla minuscola bisaccia nascosta tra i pendagli piumati del medaglione, una lettera finemente piegata.
Ripose il foglio sullo scrittoio e distolse gli occhi da quelli di Jazz.
“Questo è invece il regalo di Natale più bello che abbia mai ricevuto: una lettera di mio padre. La porto sempre con me fin da piccola”.
Poi recuperò i pensieri riportandoli al momento per non lasciare che il passato rovinasse la magia della serata. Vivere il presente, adesso, era la cosa più importante.
“Se te ne andrai anche tu” disse Eirhnh, “non darò più posto a nessuno nel mio cuore”.
“Non me ne andrò se tu non vorrai, ma ricorda che se dovesse succedere, il mio posto nel tuo cuore me lo sono già guadagnato e per sempre resterà mio. Ma il tuo cuore ha tanto di quello spazio … ”.
Eirhnh zittì subito Jazz con un bacio: “Non dirlo neanche per scherzo” disse e abbracciati si lasciarono custodire dalla notte.
*****

“Allora, Dottoressa cos’ha di preciso?” chiese Anderson preoccupato.
“Non lo sappiamo con certezza, presenta alcuni aspetti della schizofrenia, come allucinazioni, delirio, disturbi catatonici, ma a volte sembra essere del tutto padrona dei suoi pensieri, dovremo trattenerla per ulteriori visite, ma lei non si preoccupi, ha fatto già abbastanza, vada a riposarsi, ci occuperemo noi di lei”.
Il ragazzo entrò nella stanza e chinò la testa chiedendo scusa ad Eirhnh per quello che era successo.
“E di cosa?” disse la ragazza sveglia ma intontita dai tranquillanti, “era inevitabile, non preoccuparti, starò bene”.
“Volevo solo dirti che per me non sei pazza, un po’ strana forse, ma chi non lo è, insomma, tutti in fondo siamo …”.
Eirhnh puntò il dito indice verso l’amico chiedendogli un po’ di silenzio, poi lo ringraziò ancora. Lui le strinse la mano e andò via. Si chiuse dietro la porta lasciando la ragazza da sola con Miss Mary.
Fissava il muro di fronte a lei come se in quel vuoto colore grigio riuscisse a vedere qualcosa.
“Lei ha paura della morte Miss Mary?” chiese.
“Chi non ha paura del buio cara la mia Eirhnh? Il buio mette a nudo le nostre debolezze”.
“Quindi lei crede al buio dopo la morte?” rispose Eirhnh.
Miss Mary sorrise: “Ho creduto alla luce durante la mia vita ma sono rimasta al buio, crederò al buio dopo di essa speranzosa di trovare la luce” e allungò la mano per accarezzare quella di Eirhnh.
“Ma io e te siamo diversi, piccola mia” proseguì Miss Mary, “è diverso il modo in cui percepiamo il mondo. Mettimi di fronte a un Van Gogh e poi sfregia la tela, mentre chi ama l’arte penserà che sia finito il mondo io ti risponderò che per me non è cambiato nulla”.
La donna si alzò dalla sedia e si mise a sedere ai piedi del letto. Poi, accarezzando le gambe coperte della ragazza, raccontò una storia.
“Non tanto tempo fa” disse, “decisi di riesumare la salma di mia sorella Sara per seppellirla qui a Londra, per averla più vicina a me. Il ricordo che ho di lei è quello di una donna grande e grossa, una donna dal carattere forte con una piccola voce da ragazzina che mi aiutò molto dopo la scomparsa di mio padre: prese praticamente il suo posto. Ricordo l’esclamazione del guardiano del cimitero di Dussendolf nel momento in cui aprì la bara: ‘Oh Gott, qui i morti fuggono via’.
Poveretto, credeva che non avrei sentito, ma io non ero sorda”.
Una risata ammorbidì il discorso e diede un po’ di colore alla stanza.
“Di lei” continuò Miss Mary “era rimasta solo un piccolo pezzettino di teschio e nulla più”.
Guardò verso la finestra come mossa dalla speranza di potere ancora vedere le stelle e “Cara la mia Eirhnh” disse, “c’era solo un po’ di polvere. Ricordo d’aver pensato a mia sorella e alle sue forti braccia che da piccola mi sorreggevano: dov’era finita quella donna grande e grossa che mi amava tanto? Stranamente mi sentii piena di felicità, proprio così, felicità. Sapevo che Sara era tra noi, tra gli alberi attorno al cimitero, nei venti che tanto malediciamo quando ci scompigliano i capelli e ci soffiano via le acconciature e mucchi di scartoffie, nelle nuvole e nella terra colorata da viole e rose bianche: l’unica cosa importante era il fatto che non si trovasse più dentro quella squallida bara in legno, era ancora una volta vita. Questo non mi persuase dalla paura della morte ma mi aiutò a non pensarci più di tanto. La morte è una sorpresa e come tutte le sorprese bisogna riceverla a tempo debito” e strinse la mano della ragazza che in quegli ultimi anni era stata come una figlia per lei.
Per la prima volta dopo ore, Eirhnh distolse lo sguardo dal muro e guardò Miss Mary.
“Jazz verrà? Cosa le ha detto?” chiese.
“Non mi ha mai detto niente piccola mia, l’unica che poteva vederlo e sentirlo eri tu. Anch’io da piccola avevo un amico immaginario, si chiamava Teodor. I miei lo trattavano come uno della famiglia riservandogli perfino il posto a tavola, ma poi Teodor se ne andò con l’età”.
Si fece rigida, ma solo per un istante: “Non so se sia un bene abbandonare i sogni, non so se sia un bene che loro ti abbandonino, ma è qualcosa che avviene nella vita di tutti, prima o poi.”
Si alzò e s’incamminò verso la porta fermandosi proprio sull’uscio.
“Dimenticavo” disse, “Mr Kermit è con me, mi occuperò io di lui fino a quando non starai bene. Avevo intuito dalla voce che Allan fossi tu, ma dicevi sempre di non essere in grado di suonare il piano e Allan era così brava”.
Sorrise, in quel sorriso c’era tutta la saggezza della vecchiaia: “Ce ne vuole per mettere in difficoltà una persona con anni di cecità alle spalle, ma devo ammettere che tu mi hai proprio fregato”.
Eirhnh cercò di nascondersi dietro una finta risata, ma Miss Mary capì che era solo tristezza quella che la ragazza aveva dentro e decise di lasciarla riposare.
“Vedrai che tutto passerà” disse e andò via anche lei.

 

18.

 

“Il sole aveva da un pezzo portato con sé il giorno e aveva lasciato un lume acceso a dare vista ai ciechi, a schiarire il cielo durante la sua assenza per quei piccoli uomini che la notte hanno paura del buio …”
Così iniziava il racconto di Allan Shovinskij che Eirhnh teneva tra le mani.
“Tutti a casa Fournier dormivano già da qualche ora: l’indomani sarebbe stato giorno di vendemmia …”
Una voce maschile nascosta nella luce come fosse ombra, continuò a leggere per lei.
“Il comodino dove il nonno teneva il suo rosario e il coltello da lavoro, stava accanto al letto, di fronte alla porta d’entrata, proprio a un passo dalla finestra.”
Quando la voce cedeva il passo, Eirhnh proseguiva la sua narrazione:
“Lì, su quel mobile in legno, tre candele guardavano la Luna: e la Luna la si guarda per amore o per odio, per gioia o tristezza, per invidia o umiltà.”
E poi, quando il misterioso narratore tornava, in silenzio ascoltava senza più nessuna paura di ciò che era e non era reale.
“La piccola Adriëlle le portò al nonno di ritorno dal mercato giù in paese e aveva lasciato a lui il compito di dar loro un nome.”
Eirhnh avrebbe dovuto capirlo. Il nonno, il tempo della vendemmia, la bambina e la costante paura del buio: non poteva che averlo scritto lei, quel racconto.
“Allora non esisti” disse Eirhnh, “sei come Allan Shovinskij, come gli oggetti con cui parlavo da piccola, come il greco con la chitarra.”
Ma il narratore non le dava ascolto, continuava a leggere il racconto senza curarsi delle domande della ragazza che nonostante tutto continuava a chiedere speranzosa di una risposta.
“Ora capisco. Ecco perché non parlavi con Miss Mary, ecco perché non avevi alcun passato, ecco perché lasciavi cadere tutto quello che ti mettevo tra le mani. Eri così perfetto, Jazz, ma solo perché sei frutto della mia immaginazione”.
Si guardò intorno e gridò: “E adesso? Adesso dove sei? Eppure ti sto immaginando, dovresti essere qui con me”.
Scoppiò in lacrime e cominciò a stringere tra le mani le lenzuola: “Sono stata così bene con te, ero così felice, ma quando tutto è troppo bello per essere vero, semplicemente non lo è”.
“Ricordi?” fecero eco nella stanza le parole di Jazz tra le lacrime di Eirhnh, “ricordi quando da piccoli giocavamo a nascondino? Ricordi il predicatore? Quante risate assieme, vero Eirhnh? Ma tu mi dicesti addio senza darmi spiegazione. Ci si chiede come possano sentirsi i sognatori quando i sogni li abbandonano, ma non ci si chiede mai come possano sentirsi i sogni, quando perdono i loro sognatori”.
“Anche i sogni vogliono spiegazioni, adesso?” chiese Eirhnh.
“Solo se abbandonati”, rispose Jazz.
La voce del ragazzo si sdoppiò, una continuava a leggere il racconto con lo stesso strepitio in sottofondo di un vecchio nastro registrato, l’altra, più vivida, parlava con Eirhnh.
“Sei tu”, diceva, “che muti il tuo mondo quando tutto ti sembra troppo bello”.
Jazz apparve agli occhi della ragazza come un’immagine sfocata, gli si poteva guardare attraverso.
“Non sai ancora se desideri vedermi o meno, per questo non sono apparso prima, per questo mi vedi così, come fossi aria”, disse Jazz, confuso con gli angoli delle immagini reali.
“Sono rinchiusa in un manicomio e tu vuoi che desideri ancora vederti?”
“Lo stai già facendo, ma hai ancora troppa paura. Se non fosse stato per quel talismano che porti al collo, io non esisterei neanche, mi avresti cancellato per sempre come hai fatto con il greco con la chitarra, come hai fatto con la platea di gente che veniva ad acclamarti ogni giorno quando recitavi le tue poesie.”
Per la prima volta c’era dell’astio nelle parole di Jazz. Mai Eirhnh avrebbe pensato che la sua immagine di perfezione potesse essere così piena di ostilità.
“L’acchiappasogni di Abhik, è questo che vi ha tenuti in vita”.
“Proprio così Eirhnh, quel talismano ha evitato che venissi inghiottita dal tuo passato e dalle tue angosce fino a impazzire. Ti ha aiutato. Ha aiutato noi sogni a non tramutarci in incubi nonostante tu ci abbia trascinato a fondo con te”.
La ragazza pensò a se stessa bambina dai grandi sogni e a quel giorno in cui Abhik le donò il talismano raccontandole di una donna coraggiosa che affrontò le mostruosità celate nel buio di una caverna per amore. Rifletté sul fatto che se si trovava in quel letto a parlare all’aria probabilmente né il cerchio dell’eternità né la rete della vita avevano fatto il proprio dovere.
“Allora se lo strapperò via guarirò e tutti voi scomparirete” rispose Eirhnh afferrando il filo sottile che legava al suo collo l’acchiappasogni.
“Oppure sprofonderai nei tuoi incubi” disse Jazz, con una calma insolita per chi è cosciente di stare per morire.
“Lo dici per restare in vita, Jazz? Anche i sogni sono egoisti come le persone reali?”
Il netto strattone della ragazza al medaglione fu accompagnato dall’ennesimo bagliore nel cielo che a Londra accompagna ogni freddo inverno. Eppure il cielo era sereno. O così sembrava. Le lampade a neon persero intensità e rimbombò tra le mura il più chiassoso dei tuoni.

*****

Il caos si tramutò in musica, in mormorii di ragazzi ubriachi, poi le immagini accompagnarono i suoni e tutto si fece chiaro.
Eirhnh si ritrovò qualche anno addietro, in bagno, ubriaca e col viso chino su un sudicio water.
Justine era splendida come sempre. Appena entrata si avvicinò all’amica accovacciata in uno dei pochi angoli puliti rimasti e le disse: “Allora, ancora una e si va a ballare, Marcel e Jean-Pierre ci stanno aspettando”.
Poi salì sul lavandino aggrappandosi allo specchio e si tenne in equilibrio allargando le braccia come un funambolo.
“Anche tu, se vuoi, puoi partecipare alla grande festa dell’onnipotenza, basta un tuo cenno ed io ti accontenterò” disse.
“Ok, inizia a preparare la tua, da quel che vedo ne hai a sufficienza per entrambe”, rispose Eirhnh.
“Sono contenta che ti sia ricreduta. Pensavo dicessi sul serio prima, con quella noiosa morale da bacchettona” continuò Justine ridendo all’impazzata e prendendo per sgualdrine le scialbe ragazze da oratorio che entravano a rifarsi il trucco.
“Cos’hai da guardare, la bambina ha paura della punturina?” le scherniva e poi continuava il suo lavoro con fare d’artista.
“Noi amica mia” continuò Justine dopo aver tirato fuori una siringa già pronta, “non inganniamo nessuno con la nostra fiamma luminosa e chiediamo solo una piccola scintilla alla pietra di zolfo, per aiutare l’uomo a vedere dove cammina mentre sogna all’ombra della Luna.”
Eirhn alzò la testa un attimo per guardare l’amica ballarle attorno e porse la mano chiedendo la sua dose.
“Hai ragione” disse, “adesso che vedo la forza della tua luce, provo rabbia per aver creduto di essere nulla di fronte alla Luna.”
S’iniettò fino all’ultima goccia e respirò affannosamente prima di subirne l’effetto e calmarsi.
“Il tuo Jean-Pierre per il mio Marcel” fece il gesto del brindisi con la siringa vuota.
“Così ti voglio, sono agnelli, soltanto dei patetici agnelli”, gridò Justine esultando assieme all’amica in un coro: “Carne morta inconsapevole”.
Le due uscirono dal bagno e si scontrarono con un gruppo di ragazze che chiamarono “puttanelle”: “Chiassose e volgari puttanelle da due soldi”.
Spinsero una di quelle al muro e dopo averle afferrato ognuna un’estremità della gonna di velluto, tirarono nel tentativo mal riuscito di farla girare su se stessa come una trottola.
“Ho visto gente splendida indossare mediocri vestiti” disse Justine alitando la sua rabbia sulla ragazza spaventata: “Ma ci sono un sacco di splendidi vestiti che indossano gente mediocre”.
Iniziarono a ballare sopra al tavolo del salotto di Sophie e in poco meno di un attimo si ritrovarono in quattro nello stesso letto nella stanza del fratellino metallaro della padrona di casa.
Justine cominciò il rito degli agnelli dando inizio a degli improvvisati versi satanici per impaurire i due ragazzi.
“Satana prese il suo coltello e tagliò le vene ai suoi figli, ne bevve il sangue e festeggiò con loro in una danza”.
Jean-Pierre si lasciò leccare le ferite.
“La danza di un diavolo a cena”, cantò una, due, tre volte.
Poi guardò Eirhnh e le chiese: “E tu cosa aspetti? Tieni il coltello”.
La ragazza agguantò la lama d’acciaio con una tale forza da ferirsi le dita. Guardò Marcel con l’odio con il quale si guarda un infame criminale, gli afferrò il polso e lo tagliò come fosse la gola di una gallina.
Il giovane era troppo ubriaco per accorgersi di ciò che stava accadendo e nonostante il sangue sgorgasse come olio denso dalle tubature rotte di un motore, si limitò a tossire e a chiedere aiuto con un filo di voce.
“Chiedi aiuto? Sei una femminuccia, sei un … ”.
La frase di Justine si spezzò appena alzò la testa.
“Cristo Jean-Pierre vai a chiamare qualcuno, Eirhnh dev’essersi ammattita”, gridò allontanandosi dal corpo morente di Marcel.
“Posa quel coltello Eirhnh, questa non è une vendetta è solo un gioco. Posa quel coltello”.
Fu nel momento in cui arrivarono gli altri e videro il corpo del ragazzo privo di sensi che Eirhnh cominciò a gridare e tutto si fece ancora una volta confuso. Si ritrovò legata a una pietra in riva al lago una notte in cui tutta Albertville era illuminata a festa.
Era assente, il suo sguardo si era perso in quelle luci che proprio non si addicevano al buio dei suoi sentimenti e di quella vita al quale lei, come tanti prima, non avevano saputo dare alcun senso.
Sperava tanto che anche quel bastardo di Jean-Pierre stesse soffrendo orribilmente i dolori che lei provava, sperava tanto che quell’uomo che le aveva nascosto d’essere sieropositivo, abbandonasse anche lui il suo mondo in una lenta e sofferta agonia, più lenta e sofferta di quella che lei stava per procurarsi col suo ultimo folle gesto.
“Pregate che niente vi succeda” disse Eirhnh guardando verso la città, “che niente venga a sconvolgere la vostra vanitosa vita, pregate il vostro Signore e aspettate che il vostro grasso uomo dalla barba bianca vi porti più di quello che avete, vi doni più di quello che già vi hanno donato, più di quello di cui necessita la vostra vita”.
Si spinse in avanti e infilò entrambe i piedi nell’acqua.
“Guardatevi, candele ingorde di potere, ve ne state lì a credervi chissà chi mentre pian piano andate scomparendo tra le gocce della vostra incoscienza”, sentì una voce provenire dall’ombra.
Alzò la testa, la Luna fu l’ultima immagine del mondo emerso che si volle portare all’inferno.
“Amen” disse, chiuse gli occhi e si gettò in quel freddo fiume che pian piano cominciò a gelare ogni suo arto.
Consapevole di quel poco ossigeno che aveva nei polmoni, lentamente andava giù e la discesa sembrava non finire mai. Quegli occhi abbandonati al loro destino si aprirono quando le ultime bolle d’aria uscirono dalla sua bocca. Allora cominciò a dimenarsi, a cercare di liberarsi da quella corda. Sentiva l’acqua che entrava non lasciando più spazio a una sola molecola d’ossigeno, la morte che entrava non lasciando più spazio a un solo scampolo di speranza.
“No, non lo fare, non è questo ciò che voglio”, sentì risuonare un grido nella testa.
Si ritrovò seduta a osservare il corpo senza vita di Justine sulla riva, circondata dai pianti della signora Daunas e dalle luci dell’ormai silenziosa ambulanza.
Alle sue spalle, il corridoio di casa sua profumava di rose, ma dalle mura sbriciolate non si intravedevano gli interminabili vitigni e i ben curati giardini, ma un desertico paesaggio privo di vita.
Sentì gelarsi la mano destra. Quando la strinse si ritrovò a impugnare una vecchia pistola.
Abdel Rahim la intimò di gettarla.
“Una bambina non dovrebbe maneggiare le armi, non credi?” si rivolse all’uomo con i grossi occhiali che aveva accanto.
“Non sono una bambina, posso dimostrartelo se vuoi” rispose Eirhnh.
“Cosa vuoi fare, spararmi forse?”, domandò l’uomo a braccia aperte: “Allora? Perché non mi dai un assaggio del potere della tua fiamma? Tu sai qual è il suo potere, non è così, o devo supporre che lo hai dimenticato?”
“Come dimenticare l’immensità di un cielo se sei un uccello che vi passeggia ogni giorno?” rispose Eirhnh che cominciò a sparare uno per uno tutti i colpi del caricatore cercando di centrare il petto dell’uomo, immune ai proiettili che lo attraversavano senza ferirlo.
Quando ripose lo sguardo su Abdel, c’era Robert al suo posto, vestito con una cenerina mimetica impolverata.
Era ricoperto del suo sangue e gli tremavano le gambe.
“Non è questo che volevo, non volevo che mia figlia diventasse un’assassina.”.
Eirhnh piangeva, stringeva l’arma e piangeva: “Papà, l’ho fatto per te, dovevo vendicarti”.
“Non è la vendetta che ti ho insegnato, piccola” e mentre vedeva scorrere via la sua vita goccia dopo goccia, il suo grido si mescolava alla voce della nonna che rideva con le amiche: “Non fateci caso, mia nipote è un po’ tocca”.
“Non preoccuparti Nadine, è ancora una bambina, vedrai che crescendo non farà più di queste sciocchezze” rispondevano le tre donne attorno al tavolo da gioco.
“Non lo so. La bambina sogna troppo ad occhi aperti. Non credo che le vostre nipoti passino il loro tempo a parlare con delle candele, a recitare filastrocche o a suonare il tavolo da pranzo. Almeno lo suonasse veramente il piano, potremmo dire così d’avere un’artista in casa”.
“No, mia nipote no senz’altro” disse l’anziana signora che mischiava le carte da ramino: “Lei balla, le piace ballare, ma lo fa con dei veri maestri”.
Eirhnh fuggì via piangendo. Abhik se la vide passare davanti e decise di andarle dietro.
“Allora, piccola Eirhnh, non riescono ad apprezzare la tua musica, quelle vecchiacce?” chiese l’uomo accarezzandole la testa.
“Non c’era alcuna musica”, rispose arrabbiata Eirhnh, “vattene via, voglio stare sola!”.
“Sai, Dio potrebbe offendersi per quello che stai dicendo” disse Abhik, “nel nostro paese esiste un detto…”.
“Non esiste nessun Dio”, rispose freddamente la bambina.
“Ah si?” disse il vecchio indiano, “e chi ti avrebbe detto una così grande stupidaggine?”
“Me l’ha detto la mia amica Lauren. Dio non esiste, perché l’uomo è andato sulla Luna e non ha visto nessun Paradiso tra le nuvole”.
Abhik rise e si tolse una collana dal collo: “Dio non si trova in cielo piccola, lì ce l’hanno collocato gli uomini per dare un posto fisso alle loro stupide credenze e visto che il cielo era irraggiungibile come il loro Dio, hanno pensato che il Paradiso fosse in cielo, ma come tu stessa hai visto il cielo è raggiungibile eccome”.
Eirhnh tolse il viso in lacrime dal cuscino e indirizzò lo sguardo verso l’indiano che continuò:
“E visto che il cielo è raggiungibile ciò vuol dire che anche Dio lo è, proprio come il cielo, basta solo un po’ di buona volontà, basta sapere dove cercare” e mise la collana attorno al collo di Eirhnh.
“E allora dove si trova Dio?” chiese la piccola asciugandosi le lacrime.
“Si trova nella musica del tuo pianoforte, nelle tue poesie e in tutti i tuoi sogni”.
“Non c’era alcuna musica” ripeté ancora una volta la piccola.
“Tu dici?” disse Abhik: “Io sono sicuro di averla sentita”
Si alzò, si diresse verso la porta canticchiando un vecchio brano di Gene Kelly e poi si voltò indietro un attimo: “Sei piuttosto brava per la tua età, sai?”
Robert, ch’era rimasto dietro la porta per tutto quel tempo bussò prima di entrare: “Sono io, Mme Bonacieux, che Dio ha mandato per vegliare su di voi”.
“E’ con questa intenzione che mi seguivate?” rispose la piccola.
Robert entrò sorridendo: “Allora ricordi ancora la storia” disse sedendosi sul letto assieme alla figlia.
“La seguivo perché vorrei che tornaste a recitare poesie per me, vorrei che mi sposaste e viveste per sempre felice e contenta con il vostro D’Artagnan”.
“Non è così” rispose la bambina: “Non è così che la storia finisce!”
“Ma noi siamo quelli che miglioreranno il mondo, non ricordi? E anche le storie quindi. Tutte le storie possono essere cambiate, basta volerlo.”
“Possono?” chiese la piccola.
“Devi solo decidere di farlo” rispose Robert.
Eirhnh sorrise, un sorriso fin troppo amaro per una bambina.
Lasciò il padre dov’era e corse nella stanza del nonno dove tre candele giacevano spente nel comodino di fronte la porta d’entrata, il comodino dove il nonno posava il coltello da lavoro.
Eirhnh prese la pietra di zolfo che il signor Mondeau usava per accendere le candele “come faceva suo padre e il padre di suo padre” diceva lui, e dopo qualche minuto si avvicinò alla finestra.
“La superbia è la tua, insolente candela che priva dei sogni chi ancora riesce a sognare e cerca di acquistare valore togliendolo a ciò che ha attorno”, urlava Mezzatacca a Duetacche, la candela che aveva il fuoco in sé più di ogni altra.
“Taci, vecchio sognatore morente che nei tuoi sogni si scioglierà la tua cera, fai parlare chi sa di aver valore e vuole dimostrarlo al mondo”, disse Eirhnh.
“Una scintilla per dimostrare il tuo valore?” chiese poi rivolgendosi alla giovane candela che indietreggiò.
“Perché lo fai Eirhnh?” disse Abhik che aveva seguito la piccola per il corridoio fino alla stanza: “Perché non lasci che i tuoi sogni continuino a vivere? A cosa serve ucciderli?”.
“Ha ragione Duetacche, la Luna tradisce gli uomini, non bisogna ammirarla”, rispose Eirhnh.
“Chi ti ha detto che gli uomini non sappiano cosa sia la Luna? Lo sanno Eirhnh, lo sanno benissimo, ma nonostante tutto non rinunciano ai propri sogni”, continuò il vecchio indiano che in un gioco sottile di luce e ombre assunse lentamente le sembianze di Jazz mentre un’Eirhnh non più bambina non si accorgeva quasi dei cambiamenti attorno a sé.
“I sogni t’illudono, ti fanno perdere il contatto con la realtà. Adesso che ho l’occasione di cambiare la mia vita non sarai certo tu a fermarmi”, disse Eirhnh strofinando una pietra di zolfo ad un’altra.
“Ma non hai visto come cambierà la tua vita e come finirà se farai a meno di quei sogni?”, disse Jazz cercando di fermarla: “Diventerai come Justine, ti distruggerai, giacerai sola su un fondo di un fiume: è questo che vuoi?”
“I sogni mi hanno portata in un letto d’ospedale. Pazza o morta, questa è la scelta”.
“Non è vero” disse Jazz, “tu non sai come finirà la tua vita, non le hai lasciato il tempo di mostrarsi a te per intero”.
Nonostante Jazz, il greco con la chitarra e mezzatacca la implorassero di fermarsi, Eirhnh era decisa ad abbandonare per sempre le illusioni, l’infanzia e se era necessario anche i ricordi per cominciare finalmente a vivere laddove avrebbe dovuto.
“Lo hai detto tu, Jazz: vivi il tuo presente. Mi dispiace”, e una fiammata illuminò la casa.

 

19.

 

“Caro D’Artagnan,
C’è un libro pieno di fantasia nel cassetto di ogni giovane. Ha ispirato scrittori di ogni epoca, stimolato l’immaginazione dei più grandi uomini e ha aiutato generazioni di bambini a crescere. E’ un libro senza parole e dal titolo breve: si chiama Diario. Senza queste lettere forse non avrei mantenuto vivo il tuo ricordo e anche se so che non potrai mai leggerle, voglio sperare che qualcosa delle mie parole ti arrivi, dovunque tu sia, perché oggi so che ogni cosa è possibile se sei anche capace di sognarla.
Ricordo quando, tornando dalla chiesa la domenica, non ti vidi sulla poltrona a scusarti per non esserti svegliato anche quella volta e a giurare che avresti chiesto perdono al signore da solo, nell’intimo della tua stanza. Eri poco credibile, ma neanche la mamma riusciva a rimproverarti. Prima di allora non avevo mai fatto caso alla tua scomparsa, ma quando qualcosa di consueto ti viene a mancare inizi allora a percepire il vuoto, quel vuoto che, se è male interpretato, svuota anche te fino a trasformarti del tutto in un essere senza ideali.
Forse è a questo che servono i sogni, a riempire i vuoti, ma solo fino a quando non riusciamo a sopportarne il peso e l’angoscia.
Jazz aveva ragione quella notte nella stanza del nonno. “Ricorda le frasi di MissMary”, mi disse una volta accesa la fiamma che avrebbe per sempre distrutto i miei sogni.
Una alla volta quelle parole mi vennero in mente.
“Avevo intuito che Allan fossi tu” disse Miss Mary, “ma dicevi sempre di non sapere suonare il piano”.
Sì, MissMary mi sentì suonare e lei non era un sogno. Io suonavo veramente, io quel piano lo suonai eccome.
Anche il premio che vinsi lo vinsi per merito mio. Allan Shovinskij o Eirhnh Van Lippe, cosa cambia? L’importante era che quella storia l’avessi scritta io e il resto non contava.
Il talismano era andato bruciato e con lui Jazz e tutti quei compagni d’infanzia che non avevano voluto abbandonarmi e avevano fatto di tutto per rimanermi vicini.
Dovevo camminare con le mie gambe, dovevo essere me stessa, senza ripari, senza inganni, dovevo finalmente contare sulla realtà e sulla gente.
La cosa che più mi manca di Jazz sono i suoi baci, le sue battute, il modo in cui mi stringeva la mano timidamente. Qualche volta lo sogno e in quei sogni facciamo ore a parlare. Parliamo delle giornate passate assieme, di MissMary, di Mr Kermit di Pretty Boy e parliamo del mio libro di racconti che uscirà questo Natale a cui ho dato il titolo di Tre candele, dal nome della storia che mi ha salvato la vita e portato ad essere quella che sono adesso.
A volte penso di aver dormito mesi, anni e che tutto non sia mai accaduto, ma devo ammettere a me stessa che ci sono sogni vividi fatti di materia che l’uomo non è pronto ad affrontare, che esiste un mondo non ancora svelato che il vecchio Abhik e gli Ojibwa conoscevano bene, ma per cui noi uomini non siamo ancora pronti. Io ho la prova della loro esistenza qui con me e la osservo ogni giorno per non dimenticare che la realtà non è l’unica vita disponibile, ma solo quella a cui ci siamo meglio adattati.
Nella stanza del nonno, prima che io strofinassi le pietre tra loro, Jazz mi mise nella tasca un vecchio foglio d’argilla lavorato a mano, di quelli che si vendono ai turisti per le strade e mi disse che qualunque cosa fosse successa, non mi sarei mai dimenticata di lui.
Era il foglio d’argilla che mio nonno teneva accanto alla porta.
C’erano su scritte le parole di una vecchia poetessa russa:
“La felicità è saper guardare il Mare senza volerlo attraversare,
saper guardare il Cielo senza volerlo esplorare,
saper guardare la Luna senza volerla toccare”.
Era firmato Allan Shovinskij, 1919

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