Zineb (Il mio nuovo racconto per UT Magazine)

On 16/08/2012 by alecascio

Collaboro da anni con UT Magazine e la Ediland Edizioni perchè Massimo Consorti è uno dei pochi direttori al mondo capace di stimolare uno scrittore con temi che mettono alla prova la sua bravura. Ed è questo che a me importa davvero, mettermi alla prova, divertirtmi.
Io ho sempre cercato di dare il meglio e UT mi ha spesso premiato dandomi la copertina. Quando il mese passato Massimo è arrivato da me con la richiesta di un racconto sul “distacco”, io avevo da poco parlato con una ragazza islamica schiava della sua religione che in lacrime, si è aperta a me come non aveva mai fatto.
Anaya, 28 anni, è una ragazza marocchina, nera. La madre è stata venduta dal padre a un uomo che aveva bisogno di una seconda moglie nera in Italia.
Anaya non può avere profili Facebook, non può andare in giro vestita come un’occidentale.
“Quand’ero su Facebook” dice, “mi contattò l’Imam di ****** e mi disse che dovevo togliere le mie foto. Ero vestita normalmente. Mi contattarono i miei cugini e mi riempirono di offese. Mi vergognai con le mie amiche. Io sono nera, per i marocchini c’è differenza tra un’islamica nera e una mulatta. Quando arrivai qui, molte ragazze nere mi hanno voluto conoscere perchè io da nera riuscivo ad essere atea e moderna, loro invece avevano certe situazioni … “
Le chiedo: “Anaya, ma non ci sono, tra i musulmani, persone moderate, persone che lasciano vivere i propri fratelli e le proprie sorelle?”
Risponde: “Ale, mia zia era sposata a un uomo che non la toccava quando aveva le mestruazini e lui dal canto suo non voleva essere toccato. Una mia amica tempo fa riuscì ad andare in vacanza e non tornò più perchè era stata sposata dal padre, lei suo marito non lo voleva, ma funziona così spesso. I moderati sono molto pochi, alcuni fingono per integrarsi, ma se sei musulmano devi essere così perchè è la religione che te lo ordina, è il corano che parla delle donne con le mestruazioni come donne sporche e impure”.
Le chiedo cosa ha intenzione di fare, mi dice che ha voglia di andare a Londra: “Ti va di venire? Potrei fare la cameriera, so gestire la mia vita.”
Il mio racconto, che uscirà questo mese con UT e sarà presentato a San Benedetto del Tronto, è per le donne, non tutte, per quelle islamiche che hanno compreso la follia della propria religione e vogliono combattere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Zineb

Non ho gambe, non ho braccia, non ho seni, non ho fianchi, non ho chioma, non ho natiche, le mie sembianze le disegna un vecchio sarto di Taourirt e sono fortunata che abbia questo smodato amore per i fiori. Ma sono pur sempre una margherita ricamata s’una tappezzeria di seta, come potrebbero mai accorgersi di me?
Zineb prima di partire mi disse che non avrebbe mai permesso che continuassi a vivere nell’ombra.
“Se gli uomini di Firenze potessero vedere quanto sei bella” disse, “cambierebbero credo solo per te”.
“Io non voglio questo” risposi, “diventerebbero anche loro come papà Nabil”.
Mi scrollò le spalle ed io risi e mi coprii il viso, che non so il motivo, a ridere provo vergogna.
“Nessuno, Anaya, è come papà Nabil” gridò, “lui non ha nulla a che fare con Allah, sarebbe marcio anche se professasse le parole di un rabbino, un lama o un sacerdote. Le religioni sono scritte e praticate dai malvagi e dagli onesti e vengono intese come meglio conviene alle loro esigenze.”
Le misi una mano sulla bocca per zittirla che a offendere il corano si fa peccato, lei la spinse sulle sue labbra tinte di rosso e la baciò, l’annusò ad occhi chiusi e quando sospirò la tolsi e la nascosi, quella mano, perché smettesse di pensare all’adulterio, che a commetterlo tra donne è come commettere un delitto.
Mi disse che non avrebbe mai permesso che papà Nabil continuasse a farmi del male, ma è da due anni ormai che non ho più sue notizie.
Mi chino, raccolgo un piccolo orecchino d’argento e lo allungo all’uomo che sta rinfrescandosi il viso con l’acqua della fontana del Nettuno.
“Non ho soldi” mi dice ed io rido e mi copro il viso nonostante non abbia la bocca.
“E’ suo” gli mostro l’orecchino, “l’è caduto, è suo”.
Un giorno io e lui vivremo insieme in una casa a Londra, una di quelle che hanno la soffitta col tetto di vetro, l’ho vista s’una rivista per donne occidentali abbandonata s’un muretto al giardino di Boboli.
Io mi vestirò con una maglietta con tante scritte americane divertenti e lui invece sarà sempre elegante e farà il chirurgo. Mi farà ridere tanto ed io non avrò paura di farlo. Mi dirà che sono bella, mi prenderà la mano e la bacerà come faceva Zineb.
“Allah” mi dirà mentre mi accarezza le guance, “è una sensazione, l’appagamento di una persona innamorata, la meraviglia negli occhi di una madre il giorno del parto, la serenità del gioco, una bella notizia d’improvviso, la spensieratezza della giovinezza. La puoi chiamare Allah l’esultanza per aver vinto un premio tanto combattuto, la sorpresa di un regalo inaspettato, non è un fantasma perverso che si fa gioco di te con sadici trabocchetti, è una percezione benigna delle cose, è il piacere, gioia e appagamento, non è preghiera, non è sottomissione, non è nulla che chiunque, dal più erudito al più cretino, non possa predicare o scrivere. Il Paradiso è un luogo temporaneo che si rinnova: è una festa, un buon concerto, un bel film, una scopata, un’abbuffata, un bacio, un giorno al mare, una vacanza. Non è poi così difficile”.
E poi mi farà l’amore con la lingua, come fanno gli uomini alle donne occidentali.
“Grazie” dice, ma non mi chiede scusa per aver creduto che io sia una mendicante. Però è imbarazzato, pensa di avermi fatto un torto e cerca di rimediare parlandomi.
“Ne incontro tante come te, Firenze sta allargando i propri orizzonti”.
Rido perché lui non sa che sono io quella che incontra ogni giorno, mi copro il viso anche se un viso io non ce l’ho. Un giorno io e lui voleremo per il mondo e mi porterà a vedere Mama Mia a Broadway, poi mi chiederà di sposarlo al Planet Hollywood mentre indossa uno di quei vestiti delle star in vetrina.
Questa è l’ultima volta che mi vedrà, quando scomparirò penserà che d’un colpo solo tutte le donne islamiche siano tornate a casa propria.
“Allah è una sensazione? Anche un cretino può predicarlo?” grida papà Nabil: “Che storia è questa?”
Le sue manate non mi provocano alcun dolore perché chi non ha corpo non può avere ferite.
Sventola il mio racconto seminando fogli per la stanza, ma io l’ho tutto qui nella mia testa, posso scriverlo mille volte ancora con le stesse identiche parole, potrà tagliarmi le dita e io lo porterò a termine con la bocca.
“Non vivrai mai in nessuna casa di vetro” mi dice, “hai già un marito, hai già un’abitazione”.
Zineb mi chiese se volessi fuggire con lei.
“Cambieremo aereo all’ultimo momento, faremo due biglietti e uno lo nasconderemo. Nessuno saprà che saremo a Londra, ci faremo bionde e ci metteremo un cappello azzurro, vestiremo come due battone inglesi e ci faremo chiamare con nomi occidentali. La nostra vita, Anaya, sarà meravigliosa”.
Io non sono una persona coraggiosa, lei lo sapeva bene, a me l’ombra piace perché le figure e gli ambienti sono indefiniti e sembra quasi che Allah ti stia dando l’opportunità di riempirli con la fantasia.
Mi disse: “Provaci o non mi vedrai mai più” e mentre lo faceva piangeva, si vedeva chiaramente perché lei gli occhi ce li aveva.
Zineb non lo sapeva che avremmo vissuto assieme per sempre nelle mie storie: è lei l’eroina della casa di vetro, è lei in realtà la sposa che gira il mondo, io sono solo la mano che scrive nell’ombra le straordinarie gesta di una donna coraggiosa.
“Tu cosa pensi che sia Allah?” le chiesi ricomponendomi come meglio potevo, prima che decidesse di andare via per sempre.
Comprese quel giorno che se non fosse fuggita, papà Nabil si sarebbe stancato di me e allora sarebbe toccato a lei. Si avvicinò, mi rassettò il vestito come meglio poteva e strinse il mio viso tra le sue mani.
Mi baciò dandomi un po’ del suo amore e mi chiese cosa provassi.
“Non so”, sorrisi e mi coprii con entrambe le mani, “ma è una bella sensazione”.
“E’ questo, Allah, piccola Anaya: è questo!”

Alessandro Cascio

 
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