Smoking

On 13/10/2012 by alecascio

Mio padre era un ex generale dell’esercito addestrato a mentire, a shakerare le teste dei combattenti di Kabul per far sputare loro quanto possibile sulle milizie talebane. Era in pensione perché la guerra gli aveva causato strani sogni, riusciva a dormire solo con l’aiuto delle sue pillole.
Era un peso, era ingombrante nel fisico e nella personalità, ma lo rispettavamo perché aveva compiuto il proprio dovere senza richiedere alcun diritto in cambio se non quello di rimanere seduto a guardare il camino e di continuare a chiamarsi Walcott.
L’Estate era quasi alle porte e il sole metteva di buon umore la gente per strada che si salutava a distanza più del dovuto.
Un giorno arrivai a casa presto da scuola, non trovando più il mio cane Smoking gli chiesi che fine avesse fatto.
Rispose, impietrito dall’apatia: “Ragazzo, quell’animale era solo nella tua testa.”
Girai per casa, controllai il giardino, la veranda e tutte le stanze una per una ma, a meno che non fosse diventato sordo o invisibile, ero certo che a quella bestia fosse successo qualcosa di brutto.
Quando entrò mia madre (povera donna con le anche a pezzi) chiamando “Smoking, qui – Smoking, qui”, il generale sbuffò.
“Sei schizzato dalla nascita, James, come tua madre e la madre di tua madre, che Dio se la venga a prendere.”
La nonna, che aveva conosciuto una nuova giovinezza dopo aver sconfitto il cancro, entrò con Foulard e Papillon, la coppia di barboncini che Smoking odiava perché arroganti come due puttane senza marito.
Disse, con quella sua voce fastidiosa: “Ragazzo, non so dove sia, ma lega il tuo sorcio, le mie bamboline hanno avuto una brutta giornata.”
Il mio sorcio, come lo chiamava lei, aveva conosciuto la strada, lo avevo trovato sudicio di sabbia e fango vicino la porta della Dwight Eisenhower finite le lezioni e avevo deciso di tenerlo per qualche giorno per poi scoprire che non si possono decidere i tempi dell’amore, si può solo aspettare e vedere cosa succede.
Mio padre si alzò, si guardò intorno come se fosse finito in un dedalo senza uscita e sbuffò ancora: “Il gene maligno è di famiglia. Non ingravidare nessuno, ragazzo, verrebbe fuori un altro visionario con la fissa per i cani”.
C’era del sangue nei suoi vestiti, la giacca militare che portava perché, diceva, la guerra non era mai finita, aveva una grossa chiazza sulla manica destra. Anche le mie mani erano imbrattate, la maniglia a vaschetta della porta d’ingresso aveva mantenuto quella verità che il generale aveva finto di scordare. Avrebbe mentito per tutta la vita piuttosto che dirmi che Smoking l’aveva ucciso lui, perché ne ero certo, lo aveva messo sotto o falciato durante l’ora di giardinaggio.
“Non ti sei mai chiesto come mai non hai neanche una foto di quel cane?”, mi chiese.
Presi dal camino un mucchio di rimasugli bruciati di vecchie foto e risposi: “Forse perché stai dando fuoco alle prove della sua esistenza”
Mi diede del paranoico.
Marea suonò alla porta. Era una mia vecchia compagna di scuola, tutti dicevano che l’avrei sposata un giorno. La gente per bene a West Hollywood sposava le amiche da generazioni perché quelle non ti avrebbero mai tradito e se l’avessero fatto, ti avrebbero prima avvertito o l’avrebbero spiegato come si spiega a chi si vuole bene.
“James” chiamò, “ti va di portare il cane al parco?”
Non passava mai se non per andare al parco, dove potevamo parlare di noi senza dover pensare a ciò che ci girava intorno, alla follia di mio padre, alla plastica al naso e ai vestiti stretti di mia nonna, alla silenziosa presenza di mia madre. E’ vero, per lo più le cose giravano attorno a me, lei sembrava non avere orbita.
Le aprii con un grosso sorriso che mi saliva su fino agli occhi: “Mi piacerebbe, ma credo che mio padre abbia ucciso Smoking”.
Lo dissi per ridere, ma mi resi conto che l’effetto sorpresa della nuda verità non aveva attecchito al cuore del mio pubblico come una battuta di Steve Martin. Fece il viso triste, Marea, si avvicinò, mi accarezzò delicatamente la guancia destra e mi disse: “Jamie caro, vedrai che tornerà da quella guerra sano e salvo”.
Mi chiese cosa avessi sulla guancia.
“C’è del sangue” disse e lo tirò via cercando di trovare la ferita. Quando si accorse che l’unto proveniva da lei, scrollò le mani come le scrolla un panettiere infarinato dopo l’impasto.
Quello scherzo mi stava stancando, presi lo zaino, misi dentro un sacco di patatine fritte, un iPod e una coca cola e le dissi di aspettarmi fuori, che anch’io speravo che mio padre tornasse, ma ero sicuro che non sarebbe mai successo. Lo guardai, seduto con lo sguardo perso nella fiamma che andava scemando: “No, non tornerà”.
Sbuffò, il generale, per la quinta volta in dieci minuti, ma poi fece il viso beato godendosi il calore della sua borsa d’acqua calda.
“Non hai ancora smesso di lamentarti?” chiese: “Chiudi quella porta, sii uomo o fingi di esserlo almeno, è quasi la stessa cosa”.
“Se non aveste nascosto il mio cane forse non avrei neanche iniziato”
“Cristo, nessuno ha nascosto nulla. Ci sono solo io qui dentro”.
E poi tornò a bruciacchiare le sue foto.
“Anch’io sento delle voci, sai, James?”
Mi sedetti, lo assecondai: “Quali, generale?”
“A volte quella di un’anziana signora con due cani col nome di un indumento” sorrise, “a volte voci provenienti dal giardino, a volte quella di mia moglie da giovane e … a volte la tua, ragazzo”
Poi chiamò “Smoking-qui” e Smoking lì andò e ci restò.
“Mi avevi detto che il mio Smoking non esisteva”.
“Il tuo”, rispose, “il mio esiste eccome, è l’unica cosa che mi mantiene vivo “.
Un tipo entrò di colpo nella stanza, sudato come se avesse corso nel deserto per trovarmi.
“Marea”, gridò, poi si avvicinò a me, cercò di togliermi le foto che avevo tra le mani ma riuscì ad afferrare delle piccole punte di carbone che andarono in frantumi sulla moquette.
Mi disse di non entrare più in quella casa.
“E’ passato troppo poco tempo dall’omicidio, non sei ancora pronta, non sei ancora pronta ragazza mia”.
Mi accarezzò la testa come fossi un cane, abbaiai, mi venne naturale. Mi disse che: “Assistere a un omicidio ti segna per tutta la vita, non devi dimenticare ragazza mia, devi solo rielaborare, considerare il fatto che la follia è parte naturale dell’uomo”.
“Come la guerra”.
“Ognuno ha la sua guerra, Marea, sei fortunata ad essertela cavata”.
Mi ritrovai con un mucchio di foto strette forte nei pugni: un giovane, una donna e un’anziana signora.
“E Smoking?” chiesi: “Lui che fine ha fatto?”
Ma non sentii altro che “warf” e poi ancora un altro “warf”.
Mi guardai intorno. Sbuffai, ma lo feci col naso.
Posai le foto sul tavolo, c’era una pistola poggiata come fosse un soprammobile sopra il cesto della frutta. La impugnai e mi ritrovai altro sangue negli spazi tra le dita.
“Cristo santo” disse l’agente dietro di me, appena entrato dalla porta lasciata aperta: “Che cazzo è successo qui”.
E poi m’intimò di gettare l’arma.
“Generale”, mi chiamò: “Posi quella pistola sul tavolo e metta le mani dietro la testa”.
“E’ un sogno”, chiesi, “è un altro sogno, non è così?”
In guerra, i mujaheddin mi tennero in ostaggio dentro una camera buia per più di cento giorni. Quando gli occhi non vedono è la mente che ti dà le immagini necessarie per vivere, prende in prestito odori e rumori. Fu l’insistente abbaiare di un cane a mantenermi in vita, ne potevo seguire l’esistenza, immaginare cosa stesse facendo, cosa stesse vedendo, contro chi si stesse scagliando.  La maggior parte della nostra vita è pensata, la realtà è solo una piccola parte di quello che è l’esistenza di ognuno di noi. Più hai immaginazione, più sottrai tempo alle poche concretezze che il mondo offre all’essere umano, più sei costretto a immaginare, più impari a fare a meno di ciò che si trova fuori dalla tua testa. Quel cane lo aspettavo come un bel film in Tv, così feci fino a quando non arrivò una nuvola di fumo a soffocarmi e un giovane mi coprì il viso con una maschera antipolvere.
“Walcott” mi disse: “Sono il sergente James Gossard, sono qui per salvarla, ce la fa a camminare?”
“Il cane” gridai, “voglio il mio cane”.
“Sarà a casa ad aspettarla assieme alla sua famiglia, generale, non si preoccupi, è tutto finito”.
Non lo era ancora.
Mi muovo tra i corpi in terra pattinando sul sangue ancora buono in cerca di Smoking, lo hanno nascosto da qualche parte, lo so, vogliono togliermelo per farmi ingoiare dal buio, dalle mie angosce, è così che questa gente uccide le proprie vittime.
Marea si muove ancora, c’è un piccolo coagulo di vita dentro di lei, ma s’è addensato in fretta.
“Stia fermo”, grida l’agente, ma lui non sa che fermarsi senza freni equivale a schiantarsi e quelli come me devono schiantarsi se vogliono davvero che tutto finisca.
“Warf” sento, ma non riesco a capire da dove provenga.
E’ Smoking, ma non riesco ancora a vederlo.
Non importa, finché rimarrà in vita lui, anch’io continuerò a vivere.

A.Cascio – Smoking


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