60 giorni al borgo

On 31/05/2018 by alecascio

Iniziammo a sentire il rumore dei cingolati un’ora prima del loro arrivo, andavano a passo d’uomo e forse ancora più lentamente, una decina di soldati in gruppo si fermavano ogni tanto sotto i pini che adombravano la strada e si accendevano una sigaretta per ingannare il tempo. Dalla torre di vedetta sembrava più una parata che un’invasione, speravano forse che qualcuno di buon senso e con poco coraggio decidesse la ritirata prima del loro arrivo, per risparmiare pallottole e vite, le loro, perché a sentire la stampa le nostre non valevano nulla. L’ultima roccaforte della rivoluzione italiana era un borgo colmo di granai in disuso, di case dalle fondamenta secolari e terre incolte, lo avevamo scorto per caso durante il cammino di montagna fuggendo dagli spari delle milizie che s’erano spostate ad Est subito dopo, invece di finirci all’istante. Dicevano che Carlo Mangiapane andava preso per ultimo, lui e i suoi soldati li avrebbero impiccati in diretta nazionale e alle quattro del pomeriggio in barba alla censura.
Le mosche in sciame si spostavano tra una carogna e un uomo senza fare distinzione, un paio di noi erano morti di fame ma non li avevamo seppelliti o bruciati, la terra era argillosa, non avevamo né forza né pale e i due fratelli avevano chiesto espressamente di non ardere i loro corpi perché di fede cristiana.
“Una cosa è certa” mi disse Paolo rullando un po’ di foglie e pagliuzze in carta di giornale, “i libri di storia ci ricorderanno, forse non in questo secolo ma prima o poi…”
“Hai davvero intenzione di fumarla quella roba?” gli chiesi.
“Hai di meglio?” rispose.
Prima della rivoluzione eravamo tutti tipi a posto, non dei santi, ma rigavamo dritto. Chi allevava buoi, chi gestiva una palestra, una dozzina facevano i camerieri nei locali estivi, nessuno c’aveva famiglia tranne Mangiapane che però si comportava come se fosse lui a non avere nulla da perdere, io invece, che scrivevo brevi articoli per riviste e giornali e nella mia vita avevo costruito una casa grezza e una dozzina di relazioni senza futuro, io che non c’avevo un sogno ancora sano alla mia età ero terrorizzato.
“Hai sentito che ci impiccheranno in diretta? Se non funzionasse dico”
“Se avessi del vino brinderei”
“Non ti spaventa?”
Tirò a pieni polmoni quella sua bizzarra sigaretta d’emergenza e rise come si ride alle barzellette:
“Proprio non capisci che ci stanno facendo un regalo? Ci stanno consegnando alla storia, nessuno potrà mai scordare i nostri nomi e quel che abbiamo fatto, non siamo i greci, né gli spagnoli, quei codardi non hanno mosso un dito, ridotti a mendicare una punta di sovranità ai tedeschi, noi siamo i figli dei figli dei conquistatori più tenaci che siano mai esistiti. Che lo ricordino, i posteri, come uno sputo di terra abbia da sempre deciso le sorti del mondo, che lo ricordino”.
All’inizio l’Europa unita ci sembrava un miraggio, ma eravamo ancora dei ragazzini e quella cosa di poter viaggiare senza passaporto e di non dover cambiare denaro continuamente ad ogni interail ci bastava. Poi crescendo imparammo a nostre spese che la democrazia è il modo che hanno i potenti di farti credere che sia tu a comandare. La Germania lentamente si impossessò degli aeroporti di Atene e Araxos, venduti per pochi spicci a risanamento di un debito disastroso che non si sarebbe mai estinto, poi iniziò con le fabbriche e le banche. Sapevamo che sarebbe arrivato il nostro turno, tenemmo duro più della Spagna ma cedemmo anche noi e il dominio tedesco si fece così forte che quello stivale sulla cartina era divenuta la lunga coda marina del mostro crucco.
Non con le bombe ma con il denaro, così ci avevano cancellati un passo alla volta. Geniali, astuti, avremmo continuato a scoparci le loro donne nei lidi estivi almeno, se non avessero cominciato a ritenerci talmente accattoni da guardarci dall’alto in basso.
Sentimmo un colpo di pistola e un urlo inferocito provenire dalla cappella di fronte.
Mangiapane cominciò a correre verso il giovane che aveva sparato e incurante del fatto che quello fosse armato lo prese a schiaffi e continuò a calciarlo con il tacco dello stivale.
“Si sposti comandante” intimò il giovane, “o sarò costretto a spararle in faccia”.
Mosso dalla fame aveva cercato di abbattere un uccello del quale manco conosceva la razza e che non avrebbe sfamato un neonato. Neanche il migliore dei cecchini sarebbe riuscito ad abbatterlo da quella distanza e con quell’arma, ma lui ci aveva comunque provato.
“Hai barattato la morte di un crucco per un uccello, vuoi continuare con me adesso?” urlò Mangiapane: “Fallo, allora”
“Avevo fame, non voglio fare la fine di Castaldi e di suo fratello”.
“Morirai ugualmente, stanno arrivando, vuoi combatterli a mani nude?”
“Non voglio combatterli affatto, comandante, non c’è più alcuna ragione”.
E invece la ragione c’era. Diceva Mangiapane che se avessimo continuato a combattere forse un focolaio ancora in stato embrionale avrebbe dato fuoco a Roma prima o poi. Poi c’era anche quella cosa della dignità che quando pesi sessanta chili e c’hai dei cani rabbiosi che ti ringhiano contro è difficile da digerire. Avevamo fame di pasta e carne, non di dignità.
Smise con le botte, mise la mani alla vita e dopo una manciata di interminabili secondi di silenzio disse al giovane di alzarsi e di andar via, di correre verso le montagne e di nascondersi se proprio non voleva combattere. Si fece consegnare la pistola e quello corse verso il boschetto.
Altri due lo seguirono, poi ancora un altro, eravamo in venti la settimana prima, adesso eravamo quattordici, come quelli che uccisero il presidente Matteoli il 2 Giugno dell’anno passato.
Altri quattro potevano andare, non di più, i crucchi europeisti si aspettavano una decina di insorti e dieci gliene avremmo fatti trovare, altrimenti avrebbero seguito anche gli altri e quel sacrificio non sarebbe servito a nulla.
“Allora? Abbiamo bisogno di quattro codardi” disse, “fatevi avanti”.
Paolo si distese con entrambe le mani dietro la nuca, io invece mi misi in piedi sperando che fosse il comandante stesso a scegliermi, di non dover fare io il primo passo, forse così un po’ di dignità mi sarebbe rimasta per vivere il resto della mia vita serenamente a ingozzarmi di salsicce.
“Non farmi ridere” mi sussurrò Paolo, “davvero pensi che li stia lasciando liberi?”
“Rullati un’altra paglia” risposi, “e fa silenzio”.
“Oltre quei boschi ci sono i cacciatori, li ha tramutati da eroi in bestie. Sei uno scrittore, ti facevo più scaltro”.
“E se ce la facessero?”
Sentii un colpo aperto e uno sordo, uno era andato a vuoto, l’altro aveva centrato la preda.
“Cecchino uno, bestia zero” rise Paolo.
Mi sedetti di nuovo, imbracciai il fucile e lo caricai.
C’erano ciliegi ovunque eppure nessun frutto, castagni anche, io non ne sapevo nulla di alberi anche s’ero cresciuto in campagna, ma qualcuno di noi era abbastanza preparato da scovare un po’ d’erba buona da mangiare. Avevo scritto che la morte era arrivata prima di noi a Borgo Pira e in nostra attesa s’era portata via piante e animali. Quando Petrelli lesse quelle pagine mi disse di conservarle e di non farle leggere a nessun altro, che non c’era spazio per la poesia in quel posto.
“La poesia anticipa o rimanda la realtà, le due cose non si trovano mai nello stesso posto allo stesso momento”
I crucchi si appostarono nella valle arida che stava sotto di noi, mi misi comodo sulla mia terrazza e cominciai a sparare, gli altri fecero lo stesso sperando di prenderne almeno uno.
Finite le munizioni Mangiapane sventolò una maglia bianca.
Li trovarono mani in alto proprio al centro del cerchio di fuoco, sarebbero arrivati i crucchi per portarli via con loro e una volta dentro al cerchio io avrei fatto esplodere la dinamite dalla cappella. Ce n’era tanta da creare un varco fino al nucleo della terra, racimolata nei sessanta giorni con costanza e dedizione.
Poi piazzai la telecamera e urlai in tedesco: “Mandateci questo in diretta nazionale!”
Spedii alla Das Erste una copia sperando in una sensazionale prima serata.

 

AC – 60 giorni al borgo

timthumb

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