Compendio della fica e di virtù sconosciute

On 12/03/2019 by alecascio

Ho il naso a patata, la mia bocca disegna un arco all’ingiù come fosse sempre triste anche se amo sorridere. E’ la brillante ironia di madre natura. Ho le guance da rottweiler e un fisico endomorfo che non mi dà mai alcuna certezza. I miei occhi sono piccoli e marroni, le ciglia chiare e le sopracciglia rade non concedono alcuna luce al mio sguardo. Eppure non c’era ragazza che non potessi avere, centinaia di giovani ninfe perfette che avrebbero animato gli artisti del Bateau-Lavoir e le serate mondane di Montmartre. Ero privo di autocoscienza. Come una mosca che vola in tondo dentro una stanza piena di finestre chiuse, non avevo la facoltà di dirigermi verso l’unico spiraglio aperto, confuso da quei sensi condensati nel limitato encefalo di un insetto. Ciò che potevo dare all’altro sesso non era la bellezza e di certo neanche un briciolo della sopraffina intelligenza dei grandi amatori, ma per l’appunto, l’incoscienza, quell’assoluta mancanza di autocontrollo che viene equiparata erroneamente all’intrepidezza di un cavaliere. Eppure sapeste quanti eroi sarebbero stati sottratti alla storia, se la coscienza di sé avesse avuto in loro il sopravvento. La mancanza di paura di chi agisce d’istinto senza curarsi delle conseguenze, si contrappone a uno dei più grossi mali che l’uomo si attribuisce: l’immobilità emotiva. Un misero popolano che si atteggia a Re viene prima deriso, poi scrutato con attenzione e infine, se insiste nelle sue affermazioni, creduto ed elevato di rango. Ce lo ha insegnato Gesù Cristo.
Non c’era ragazza che mi piacesse che non provassi a portarmi a letto modificando le strategie in base al bisogno di ognuna di loro e una volta raggiunto il traguardo mi rasserenavo per una manciata di giorni fino a che la sostanza tossica che il mio cervello sintetizzava per rendermi felice non si fosse esaurita e allora tornavo nuovamente alla ricerca di un nuovo oggetto del desiderio. Amore in pillole, lo chiamavo.
Così dicevo a un amico di volermi scopare le tre grazie che passeggiavano su e giù per il corso mano nella mano e scommettevo venti euro sulla riuscita dell’operazione anche se le ragazze erano amiche inseparabili.
“Lascia perdere, non è strada che spunta” mi diceva T. cosciente che se fossi andato con una di loro, le altre due non si sarebbero avvicinate a me neanche per conversare.
Le scalinate del palazzo antico al centro della piazza erano la nostra torre di controllo, il miglior punto di osservazione che ci fosse in paese.
“Credi che le donne siano diverse da noi perché non hanno questo?” mi strizzai il pacco dei jeans, “forse vivono la cosa con più trasporto, ma sono disposte a odiarsi e tradirsi a vicenda per ottenere lo scettro”.
Il gioco più era difficile, più era piacevole, se non sentivo la scossa su per le gambe non ne valeva la pena. Mi diedero per perso in partenza perché tra quelle c’era anche la bambolina, un essere a cui niente durante lo sviluppo era andato storto. Il naso all’insù, la pelle scura, gli occhi grandi e luminosi, i seni perfetti e la perfetta geometria del viso la rendevano uno degli esseri più desiderati del posto e delle zone limitrofe, ma se l’avessero conosciuta nel resto dell’isola, in nessun modo avrebbe avuto ugualmente rivali. Era stata con ragazzi grandi, quelli con la moto di grossa cilindrata, il petto pieno e con i soldi sempre in tasca, era stata perfino con il più bello del Liceo.
“Te ne concedo due” mi disse T., “ma non tutte e tre”.
E invece la prima s’innamorò dopo un paio di giorni e per quello evitai di scoparmela una seconda volta. Ci avevano visto assieme in spiaggia per ferragosto, un terzo della scommessa era vinta. La regola era che se si fossero innamorate bisognava abbandonare il treno. C’è un detto qui, “i figghie ri patri un si toccanu”. Vuol dire che ogni ragazza ha un padre e ogni uomo è un potenziale padre. Il detto ci mette di fronte a un quesito: “Se fossi genitore, come vorresti che trattassero tua figlia?”.
La seconda fu facile, mi capitò tra le mani ubriaca in discoteca e fu lei a provarci per prima, ma la terza dovetti lusingarla per ore durante una festa in maschera e portarla fuori una giornata intera. Ricordo di averla terrorizzata portandola alle catacombe di Palermo di cui non sapeva l’esistenza. Un luogo poco incline al corteggiamento, pieno di cadaveri appesi o ancora impolverati dentro le proprie bare. Per farla riprendere la portai all’ortobotanico a mostrarle uno degli alberi più antichi della città, poi dormimmo a casa sua e l’indomani mi presentò agli amici per pranzo. Ci volle poco affinchè la concorrenza si mettesse in moto per portarmela via, funzionava così, se Alessandro stava con la più bella del paese, allora i più belli del paese dovevano togliergliela di mano per dimostrare che anche loro erano all’altezza. Così finii per rompere, gli altri si fecero una scappata con la bambolina e al quarto giro di lei non si sentì più parlare, considerata da tutti una preda facile e un oggetto di seconda mano.
I miei venti euro erano simbolici, li lasciai a T. che mi offrì da bere, ma non potevo sottrarmi dall’essere analizzato come un topo da laboratorio dal resto della gang del bar.
Un giorno vidi Francesca in motorino, occhi verdi, sempre sulle sue e il Rosso, un ragazzo che a malapena riusciva a scoparsi la propria mano, notò il modo in cui la guardavo e mi disse: “Se vuoi te la presento”. Ci misi un quarto d’ora ad andare via con lei e quando tornai il Rosso mi urlò contro che ero brutto e idiota, che non si capacitava come potessi piacere alle ragazze.
“Non me lo spiego” sbraitò con rabbia, “non me lo spiego”.
Accanto a me Christian e Massimo rimasero sbigottiti da tanto fracasso, il Rosso non ci fece una bella figura, ma lo capii, io ero un’icona lui una burla per tutti.
“Di Lunedì mattina poi” disse, “a quest’ora”.
Nessuno scopa mai il Lunedì mattina a mezzogiorno, credo che sia l’ora esatta in cui le palle di un uomo vanno in pausa, almeno stando alle parole del Rosso.
Per molto tempo, prima di diventare un uomo, studiai la mente delle donne, del perché fossero capaci di far passare un cesso per una jacuzi e la risposta che mi diedi la trovai nella coscienza collettiva di Durkheim, nella mia personale visione della coscienza collettiva di Durkheim, per essere esatti. Capii che in una piccola comunità l’individualità si affievolisce e ciò che è giusto per gli altri lo diventa per te, ciò che è bello quindi, se è bello per tutti lo diventa oggettivamente e chi si oppone è un outsider, l’eccezione alla regola.
Se tre ragazze considerate splendide da entrambe i sessi erano state con me o con chiunque altro, allora io o chiunque altro diventavamo l’oggetto del desiderio per antonomasia, oltre che per spirito di competizione, per coscienza collettiva: non può non essere un granché chi è stato capace di sedurre l’inseducibile.
Se in un piccolo Lycée professionel in cui studiavo sulle alpi francesi dovevo rifugiarmi nella stanza della mia professoressa per sfuggire alle cinque ragazze che mi pedinavano, a Parigi o per le strade di Chamonix nessuna si voltava a guardarmi. La coscienza collettiva che avevo modificato in una ristretta società non esisteva in un ambiente più ampio e privo di contaminazioni. Se anche quando pesavo novantacinque chili riuscivo a scoparmi tre ragazze in una sera della stessa comitiva, non potevo farlo in una comitiva in cui ero appena arrivato. Ma a questo punto credo sia chiaro cosa intenda.
Poi c’era lei, Elisa, la virgola che non fa quadrare i conti. Quando Elisa ti diceva “vieni con me?” tu salivi in motorino con lei e non ti chiedevi né dove ti stesse portando né se avessi altro da fare. Non era una domanda, era un ordine. Nessuno sapeva se fosse bella o meno, non aveva nulla del ritratto rappresentato nel libro sacro della bellezza universale, eppure in mezzo alla calca di capelli ben pettinati e labbra lucide, lei era la dottrina in un mondo d’ignoranti.
Capitava spesso che uno di noi, attratto da lei, chiedeva in modo disinteressato un consiglio:
“Che ne pensi di Elisa?”
Ma nessuno sapeva rispondere con certezza, nessuno sapeva definirla, il fascino non era ancora un universo conosciuto a quell’epoca.
Non era di moda, Elisa, nessuno ti avrebbe osannato per essere andato a letto con lei ma i detrattori ti avrebbero deriso e gli ammiratori si sarebbero chiesti come si potesse passare dalla bambolina a lei, l’indefinibile per eccellenza.
Con lei non si poteva usare alcuna strategia, non potevi sfruttare la coscienza collettiva, le mode, non faceva parte dello show e appariva di rado e per poco, poi chissà dove andava e cosa faceva.
La prima volta che le parlai mi ero appena lasciato. Si sedette al tavolo con me sistemandosi la borsa tra le gambe grosse e sgranchendosi la lunga schiena sullo spalliera della sedia.
“Vieni con me?” mi chiese e risposi di sì perché nessuno mi aveva legato all’albero come Ulisse quandò costeggiò la penisola sorrentina.
Per un lungo tratto rimanemmo in silenzio e io inerme come ogni passeggero nelle mani di una donna alla guida cercai nella mia testa una domanda qualsiasi che non mi facesse passare per stupido. Io sapevo, in cuor mio, che pensava con tutta se stessa che lo fossi, che aveva preso un pesce all’amo e con sadismo stava trascinandoselo via contro corrente.
“Non pensi mai che ci sia altro oltre tutto questo?”
“Oltre cosa. Ci sono i negozi, i pub, le case, le strade come in qualunque altro posto”.
“Vuoi dire che questo posto è come Londra e Berlino?”
“No, lì ci sono più negozi, più pub, più case e più strade, è una specie di modellino in scala però”.
Sorrise e le donne non sorridono per le idiozie, sulle loro risate si basa lo studio di ogni commediante di alta qualità, fosse per gli uomini nei teatri verrebbe rappresentata ancora l’iconica scena della buccia di banana.
Ci fermammo nel piazzale adiacente alla villa comunale, posteggiò la moto e si girò sul sedile finendo faccia a faccia con me che non sapevo dove mettere le mani. In paese si era sparsa la voce che ci eravamo appartati, così ogni tanto vedevo passare qualcuno di nostra conoscenza che senza alcuna riservatezza ci fissava e poi chiacchierava di noi col passeggero. Lei lo notò e mi chiese cosa ne pensassi.
Risposi come un mulo, se avessi risposto diversamente oggi ricorderei la mia splendida replica ma non ce ne fu una degna.
“Mi baciò sulla fronte, poi mi strinse a sé e si mise labbra a labbra”. La baciai anche io, ma ero così a disagio che le morsi la lingua. Per la prima volta ero io a chiedermi come potesse, una come lei, voler baciare uno come me, per la prima volta ebbi un minimo di autocoscienza che sapevo sarebbe tornata presto nella cella in cui l’avevo rinchiusa.
Nella mia testa un mucchio di sirene e lampeggianti rossi avvertivano i secondini dell’evasione.
“Volevo vedere cosa si prova ad essere quella di moda, questo è il mio giorno da showgirl, domani sarò sulla bocca di tutti”.
Elisa avrebbe inventato l’energia a schiocco, un accumulatore che immagazzina e moltiplica l’energia generata dallo schioccare delle dita. Avrebbe presenziato a uno dei tanti matrimoni dei regnanti inglesi battendo sul bicchiere di cristallo per zittire il mormorio in sala prima del suo discorso di apertura. Poi avebbe girato il mondo in bicicletta e scoperto lembi di terra inesplorati sui quali nessuna nazione aveva mai rivendicato il proprio governo. E lì, a Elistown, avrebbe messo su famiglia e regnato per il resto dei suoi giorni con il suo popolo di schioccadita da cui sarebbe dipeso lo sviluppo energetico dell’intero pianeta.
Si annoiò presto, tornò al suo posto e mise in moto, mi scaricò dove mi aveva preso e l’indomani non mi rivolse neanche la parola. Quando gli amici mi chiedevano di noi, io rispondevo che non c’era stato nulla ma loro avevano visto, sapevano e mentre le ragazze sorridevano additandomi senza alcun rispetto per la mia riservatezza, Elisa si era ritrovata accerchiata da nuove amiche che lei, ne ero certo, considerava galline col culo troppo stretto per poter essere utili alla causa del pollicultore.
Fu lei che mi insegnò l’incanto del fascino cosciente, contrario per tutto a quello del dannato che azzarda azioni spinto dal disagio e allora per mesi non andai con nessun’altra fin quando la società non m’inghiottì nuovamente.
“Sei innamorato?” mi chiese T. un giorno.
Non ne avevo idea, avevo visto il fuoco e non ne conoscevo le virtù.
Vorrei potervi raccontare che da quel giorno divenne lei la ragazza più ambita, che la coscienza collettiva cambiò di colpo e cominciammo tutti a considerare l’anima più del corpo, ma non fu così.
Ma questo è solo un racconto, potrei mostrare un pizzico di disonestà intellettuale e regalarvi un lieto fine.
E allora: “Grazie ad Elisa la nostra coscienza collettiva cambiò di colpo e cominciammo tutti a considerare l’anima più del corpo, il pensiero l’essenza stessa della vita e la fica la porta spalancata di una bettola gratuita nella quale sbronzarsi con la persona amata. Questo è il racconto di come i canoni della bellezza cambiarono in un annoiato pomeriggio di una piccola provincia dimenticata e si diffusero in tutto il mondo nell’arco di due sole primavere”

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