La sindrome di Ferbhen

On 21/05/2019 by alecascio

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Ho urlato allo specchio stamattina e Chico mi ha miagolato contro chiedendomi in gattese cosa fosse successo.
La mia immagine è cambiata di colpo e riflesso c’è un uomo che non sono io.
Chico invece mi riconosce, i gatti sniffano l’anima delle persone, sanno chi sei anche se indossi una maschera o arrivi a casa col volto sfigurato, ma non è l’anima il mio problema adesso.
“Mi sono trasformato in qualcun altro nel sonno” dico a Chico che si strofina alle mie gambe per dirmi che per lui va bene lo stesso.
“Non va bene neanche per il cazzo, Chico, noi umani non ci trasformiamo dall’oggi al domani, così, senza alcun motivo.”
Mi passo una mano sul viso sperando che come per magia l’incantesimo svanisca, ma rieccolo lì, quel muso da pitbull, quella testa tonda, quegli occhi scavati dal tempo.
Impasto la mia faccia come fosse plastilina per rimodellarla e farla tornare com’era prima che andassi a dormire, per un attimo si deforma ma poi torna al punto di partenza.
Mi siedo con le spalle alla vasca e mi specchio negli occhi di Chico che mi guarda come a dirmi: “Qual è il problema, anche oggi sei vivo”.
Ma vivo non basta, per loro forse è abbastanza, ma noi abbiamo un mucchio di impegni da affrontare: essere belli e piacenti per la donna che amiamo, per esempio.
Avevo un amico brutto un tempo, era sempre solo e gironzolava per le strade salutando amici e conoscenti e parlando con loro di argomenti futili per ammazzare il tempo. Alle cene non aveva mai una donna con sé e sembrava che il solo dialogare con una di esse fosse una vittoria per lui.
Un giorno, dopo un paio di rum mi chiese cosa si provasse ad essere carini:
“Non so, non ne ho la percezione” gli risposi, “ma anche tu sei… un tipo, potrei chiedere la stessa cosa a te”.
Mi guardò, sorrise come sorride un serial killer prima di squartare la sua vittima e andò via, per sempre. Lo trovarno penzolante sul soffitto alle tre del pomeriggio dell’indomani. Voleva dirci che senza l’amore la vita non ha senso, ci mandò un messaggio, ci disse: siate felici, siete stati fortunati.
Ed ecco invece, stamattina, svanire la mia fortuna in un sol colpo e non ho neanche una corda in casa per appendermi.
Chiamo il mio medico, l’ho memorizzato da qualche parte con il nome del tizo dei Ghostbusters perché è uguale sia nei tratti che nelle fattezze, ma adesso non ricordo come si chiamasse il personaggio e quindi non riesco a trovarlo. Scorro, scorro, scorro prima di capire che nessuno da queste parti potrebbe chiamarsi Egon Spengler e arrivo alla conclusione che non può essere altro che lui.
“Dottor Spengler?”
“Mi chiamo Baldo, lo sai benissimo”
“Sì ma sei uguale a…”
“Lo so, me lo hai detto mille volte. Cosa ti succede?”
“E’ difficile da spiegare, Dott Spengler”.
“Più della sindrome di Klinefelter?”
“C’è che mi sono svegliato brutto”
“Tutti lo siamo appena svegli”
“No, non coglie. Dico che non sono io, è tutto diverso, naso, bocca, orecchie, occhi, tutto completamente diverso. Il mio viso sembra essersi gonfiato, la testa è più tonda del solito.”
“Hai mangiato arachidi?”
“Non c’entra nulla l’allergia con questo, è una malattia nuova, ti cambia totalmente la faccia”
Lo sento sbuffare per telefono, sta scrivendo qualcosa, sta facendo qualcos’altro, lo sento.
“Hai quarant’anni, probabilmente stai solo invecchiando”
“Non s’invecchia dall’oggi al domani, succede gradualmente, come per gli uomini scimmia e le giraffe dal collo corto, l’evoluzione dice che…”
“Non sei una giraffa, sei un uomo, la percezione arriva dopo il cambiamento, sono convinto che sei esattamente com’eri ieri e non penso che…”
Chiudo la telefonata, indosso qualcosa e metto un cappello e una sciarpa che mi copre dal collo alla bocca. Poi inarco le spalle e mi reco da lui in totale incognito.
Busso e apre la signorina nonsocome che mi chiede se ho un appuntamento.
“Sì”
“Come si chiama?”
La conosco da vent’anni eppure non ha riconosciuto il mio viso. Forse è una ripicca perché dopo tutto questo tempo io non so ancora il suo nome o forse è perché ho la faccia completamente coperta.
Oltrepasso i suoi controlli, lei pesa 50 chili e io 90, non potrebbe fermarmi se non sparandomi alle spalle e in attesa ci sono solo un mucchio di vecchietti che insieme non spingerebbero una vecchia cinquecento per un paio di metri senza schiattare.
“Dottore” urlo.
“Eccoti qui, fai vedere il danno”
“Si prepari, sono certo che prenderà l’Oscar per la medicina per questo”.
“Il Nobel”
“Anche quello. E’ pronto?”
Non risponde, alza gli occhi al cielo come se volesse essere da un’altra parte, insolito per un medico con una scoperta sconvolgente di fronte a sé.
Tolgo cappello e sciarpa in un sol colpo ed “ecco”, gli dico: “Mi dica che passerà”.
“Mio Dio!”
“Lo so, lo so”
“E’ un caso da sindrome da liotomia multiforme perenne”
“Ne esistono altri casi?”
“Già, molti di loro sono seduti in sala d’attesa a bestemmiare perché hai scavalcato la fila. Si chiama vecchiaia. Sei solo più invecchiato dell’ultima volta che ti ho visto. Probabilmente se fossi venuto più spesso invece di telefonare continuamente non avrei notato la differenza”.
Mi siedo e chiedo una delle sue caramelle al lampone, gli dico che non posso uscire in queste condizioni perché oggi ho l’appuntamento con la donna dei miei sogni.
“Come si chiama?”
“Fede, la conosce?”
“Il nome mi dice qualcosa. Potrebbe essere una delle quindici milioni di Fede che abitano in questa nazione?”
“Sì, è una di quelle, non pensavo la conoscesse. Allora sa che lei è di una bellezza imbarazzante e che dopo anni ha accettato di uscire con me. Ora mi dica cosa dovrei fare. Ho visto in TV quella gente rifatta, hanno la pelle lucida e sembra che stiano trainando un tir con le guance per una gara del guiunness world record.”
“Devi semplicemente farti accettare per quello che sei. Sono certo che hai altre doti nascoste da mostrarle.”
“Non ne ho” chiudo i pugni stretti-stretti e rispondo disperato, “ho sempre puntato tutto sul mio aspetto”.
“Non ne avevo dubbi” dice.
Poi mi guarda e tira fuori dallo zaino protonico una boccetta con dentro degli ectoplasmi.
“Dottor Spengler?”
“Baldo”
“Baldo Spengler?”
“Baldo e basta”
“Mi dica che potrò vederla”
Mi dà delle pillole e mi dice che se prenderò quelle, forse potrò provare a incontrarla.
“Dice che devo drogarla?”
“No, devi prenderne una al mattino e una la sera, è Xanax, ti aiuterà a rilassarti e a tornare riflessivo per affrontare questo particolare momento della tua vita.
Mi alzo, indosso cappello e sciarpa e vado via attraversando il fiume di anziani che mi insultano come se gli avessi rubato le dentiere.
Il cellulare intona Lullaby dei The Cure. Un messaggio mi ricorda che lei esiste ed è bella come sempre, io invece sono trasparente per ogni donna che mi passa accanto e vorrei esserlo anche per lei.
“Alle nove allora?” dice il messaggio.
Mi tremano le ginocchia. Ha visto la spunta blu, sa che ho letto, devo scriverle qualcosa.
“Potremmo avere un appuntamento al buio” le scrivo.
“Non si definisce al buio se ci conosciamo già” risponde.
“Invece sì, se spegniamo le luci”.
Mi manda un emoticon sorridente. Pensa che faccia il simpatico. Se solo mi vedesse in queste condizioni….
E mi vede, ce l’ho qui, adesso, di fronte a me.
“Sei tu, sei proprio tu” dice lei sorridente di un sorriso sincero, anche se i suoi sorrisi sono disegnati talmente bene dal Dio Creatore che se anche non fosse sincero non lo capirei.
“Aspetta” le dico e chiamo il dottore al suo numero privato”
“Dottor Spengler?”
“Baldo”
“Esiste una sindrome che colpisce gli esseri umani e che fa veder loro ciò che non è? Che distorce la visione delle cose?”
“Sì” risponde seccato perché gli chiedo competenze che forse non ha mai raggiunto: “La sindrome di Ferbhen”
“E’ possibile che una ragazza di nome Fede possa averne una fin dalla nascita?”
“Quanti anni ha?”
“24”
“Sì, di solito colpisce tutte le donne dai 23 in su col nome che inizia per F e finisce per E”
“Il suo in realtà finisce per A, il suo vero nome intendo”
“Sì, vanno bene tutte le vocali in genere, basta che non finisca per H, in quel caso sono immuni”
“Non credo ci siano nomi che finiscano per H in Italia”
“Quella è gente fortunata, ragazzo mio, se avrai una figlia chiamala con un nome che finisce per H”
Chiudo e la guardo. Approfittando del suo disastroso stato mentale scopro il mio viso completamente.
“Che ne dici se stiamo insieme fin da subito? Le nove sono troppo distanti” le dico. Poi le passo la mano sulla testa come si fa ad ogni persona portatrice sana di una malattia rara.
“Ho un gatto di nome Chico” le sorrido e la spingo a seguirmi, “anche lui è come te, sai, però sa sniffare le anime della gente.
Le spunta un grosso punto interrogativo sulla testa, ma ride, nonostante tutto è felice e sembra in ottima salute.

AC – La sindrome di Ferbhen

 

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