I negrieri

On 06/07/2020 by alecascio

andamento-annata-2019

In Sicilia la raccolta dell’uva era un passo dovuto per tutti i ragazzi che non avevano lavoro e volevano tirare su un po’ di soldi. Il mezzadro ti squadrava da testa a piedi prima di accettarti, ti guardava le mani come a un cavallo si guardano i denti e non si rivolgeva a te ma a chi ti aveva presentato a lui.
“Bono è”, “Unn’è bono” gli diceva e tu non potevi neanche controbattere, altrimenti…
Non so cosa sarebbe successo ma a giudicare dallo sguardo sottomesso di Nanni, non dovevi farlo e basta.
La mia prima volta non venni accettato ma Nanni garantì per me. Così feci un po’ di esperienza e a Piana ci arrivai la quarta volta con le ossa già dure.
Ci alzavamo alle cinque del mattino, alle sei un camion per il trasporto dell’uva ci attendeva in Corso dei Mille e in quindici, ragazzi e persone anziane, ci ammassavamo dietro con ancora i vestiti macchiati della giornata precedente. Alle sei e un quarto si partiva e se non eri presente venivi licenziato, dovevi “pigghiari a via ri l’acitu”, andare a passeggiare, questo intendevano loro.
Ci portavano su queste colline sterminate con immensi vigneti carichi e da sfoltire, un bello spettacolo per i turisti e gli appassionati, ma per noi era come andare in un campo di concentramento. Ci attendevano tre mesi senza vita, senza alcun rapporto sociale. Non sempre rimanevamo nello stesso posto, facevamo un mese da una parte e poi il mezzadro ci cedeva a un altro. Ci davano quarantamila lire al giorno, venti euro e pochi centesimi di oggi, i più giovani non erano in regola ma allora non c’erano controlli, era consuetudine e quindi in un certo senso legale.
I fimminedde si vedevano già al primo giorno, si lasciava che lavorassero e a fine giornata gli si diceva di non tornare più perché erano stati troppo lenti.
Dovevamo tenere il passo degli anziani e nessuno poteva rimanere indietro altrimenti veniva sgridato e diventavi lo zimbello di tutti. Ci auguravamo sempre di non essere noi lo sfortunato dell’anno, quello che sarebbe stato trattato da femminuccia fino all’esasperazione. Un filaro, una fila, doveva essere concluso entro il tempo stabilito, sotto il sole cocente o sotto la pioggia, non aveva alcuna importanza. Il tirapiedi del mezzadro controllava ogni volta se qualcuno avesse lasciato dei grappoli per fare il furbo e andare più veloce e noi vivevamo con questo omone panciuto e scuro perennemente sulle nostre teste come un avvoltoio.
Il primo giorno a Santino, un ragazzo che presi a cuore, venne la febbre a quaranta per la stanchezza, ma aveva moglie e due figli e lo faceva per campare, quindi dovettimo insistere perché la settimana dopo venisse ripreso a lavorare.
Lo aiutavo io, quando lo vedevo indietro mi dirigevo da lui e gli dicevo di andare avanti che avrei fatto io. Non se lo faceva dire due volte, non ho mai visto nessuno così stanco e bisognoso in quei campi in tutta la mia vita.
Poi un giorno il tirapiedi venne da me e mi disse:
“Fimminedde nuatri u ni vulemu, chista è quarta vota ca resti n’arreri”
Voleva dire che le femminucce non erano gradite e che era la quarta volta che mi beccava a rimanere indietro.
Gli risposi che in una fila di venti persone ci dev’essere per forza una testa e una coda, ma non l’avessi mai fatto, da quel giorno fui preso di mira.
Santino non mi difese nonostante stessi raccogliendo i suoi grappoli per non farlo licenziare.
Finivamo alle sei e mezza della sera, avevamo mezz’ora per consumare un pasto che ci portavamo da casa alle dodici e mezza e poi per undici ore di fila non potevamo mai fermarci neanche per bere.
“Quannu aviti siti viviti a racina” ci dicevano.
Quando avete sete bevete l’uva. Così facevamo, serviva anche a darti forza, ma non potevi farlo spesso perché altrimenti ti sgridavano: “Vinisti ca pi manciari o pi travagghiari?”
Sei venuto per mangiare o per lavorare?
I momenti distensivi c’erano, di solito i vecchi cominciavano a raccontare storie e si rideva di loro o con loro. Storie di vita quotidiana, di donne, di sbirri, di liti, di fuitine, così un paio d’ore passavano liete.
Un giovane non poteva superare un vecchio, venivi redarguito, era un affronto, così la prima volta che lo feci mi venne spiegato che per loro è come fottergli la figlia, ne valeva l’onore.
Una volta finito tornavamo a casa, mangiavamo e crollavamo sul letto. Il tempo di chiudere gli occhi ed erano già le cinque. Così alcuni di noi, per guadagnare poche ore di vita, decidevano di dormire direttamente nei campi, dentro la cascina. C’erano dei materassi senza lenzuola e una fontana dove lavarci. A volte il mezzadro si dirigeva nel centro abitato e ci chiedeva se volessimo qualcosa, gli davamo i soldi e lui ci prendeva le sigarette.
La prima notte la passammo a parlare e fumare fino all’una del mattino, ma dopo la sfacchinata dell’indomani nessuno volle più farlo perché capimmo sulla nostra pelle che le ore di sonno erano vitali.
Poi arrivarono i temporali e sotto la pioggia era più difficile lavorare, io avevo con me una ceratina leggera per non infradiciarmi ma al tirapiedi non andava giù che la mettessi. Mi dava del frocio perché non volevo prendermi un malanno. Aveva un cane, un beagle, e con quello girava per le vigne offendendo e sgridando chiunque. Non lo sopportavo, non lavorò un solo giorno, non raccolse un solo acino se non per assaggiarlo.
“E’ il suo lavoro” mi disse Nanni, “è pagato per controllarci”.
Quel giorno era venuto a farci visita il padrone delle terre, un ricco avvocato magro e con gli occhialetti tondi alla Jhon Lennon che ci guardava come fossimo bestie.
Il mezzadro e il suo tirapiedi ne approfittarono per farsi belli:
“Vede?” disse il tirapiedi, “lavoriamo anche sotto la pioggia, non ci fermiamo mai”.
Lavoriamo, disse, come se lui facesse qualcosa.
“Tranne il frocetto”.
Si rivolse a me.
Mi voltai preso da uno scatto d’ira e dissi all’avvocato che stava pagando uno per passeggiare undici ore al giorno. Quello non mi rispose.
Calò il silenzio.
Non potevi rispondere, non era consentito, specie poi se eri un giovane.
Il tirapiedi si avvicinò e mi disse di prendere la via ri l’acitu, di andarmene subito e a piedi.
Presi la cesoia e gliela puntai allo stomaco.
L’avvocato si nascose dietro un albero.
“Ha rotto il cazzo, lei e il suo cane”.
Nanni arrivò e mi tirò indietro.
“Che fai?” mi disse, “qui prima ti ammazzano e poi ti sotterrano”
Fui allontanato e Nanni parlò con loro per un’ora almeno.
L’indomani mi portò mezza paga, l’altra mezza sarei dovuto andare a prenderla a casa del mezzadro, in un paese di mare poco vicino.
“Non andarci” mi disse.
“Perché mai?”
“Non andarci e basta”.
Non tornai più nei campi se non una sola volta cinque anni dopo, quando studiavo sceneggiatura a Roma e decisi di fare un mese in Sicilia per non so neanche io quale motivo.
Della mia ultima volta ricordo il padrone delle terre, taciturno e austero, odiato e sbeffeggiato alle spalle da tutti. Non mi rivolgeva mai una parola. Io parlavo in italiano, l’ho sempre fatto perché così sono stato allevato e per lui, che non sapeva leggere e scrivere e che non sapeva parlare se non in siciliano arcaico, era una gran cosa.
Un giorno ci sedemmo a mangiare sotto gli alberi di ulivo.
Lo sentii borbottare:
“Io chiddi comu a tia” mi disse, “l’ammiru, picchì su sturiati e puru vennu a travagghiari a campagnedda”.
Fu la prima e ultima cosa che mi disse.
“Quelli come te li ammiro perché sono istruiti eppure vengono a lavorare i campi”.

AC – I negrieri

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