Fruta Fresca

On 19/07/2020 by alecascio

Mi aveva urlato contro che avevo il diavolo negli occhi, per questo ci lasciammo qualche mese prima che morisse, perché se non credi in Dio non credi neanche ai suoi antagonisti e lei doveva saperlo. Eravamo entrambi pieni di energia e questo sfociava spesso in situazioni al limite del legale. La nostra prima volta la consumammo sul cofano della mia auto, un gruppo di ragazze con una Punto Blu passò di lì, suonarono il clacson e una di loro urlò “viva l’amore”.
Tutto per una sfida, ne facevamo a decine e le vincevamo tutte entrambi.
“Ti avevo detto che l’avrei fatto”.
“E io ti avevo detto che non mi sarei tirata indietro”.
Per noi era stata l’esperienza più bella dal nostro primo incontro, quando una notte d’Estate mi scrisse un messaggio al cellulare.
“Ciao, mi piaci”.
Pensai a uno scherzo.
“Mi piaci anche tu” risposi.
“Non sai neanche chi io sia”.
“Come hai avuto il mio numero?”
“L’ho rubato a un tuo amico”.
Si presentò verso le tre ed era talmente bella che pensai che fosse decisamente il mio periodo fortunato.
Di una persona ami anche il suo amore per te e lei era in grado di fare follie pur di starmi vicino. Un giorno saltò fuori dal finestrino di un’auto in movimento perché mi aveva visto uscire da una discoteca. Il conducente era un amico in comune innamorato di lei alla follia.
Ricordo ancora le sue parole, quelle di lui intendo.
“Vai, raggiugilo se lo ami. Io fossi innamorato come te lo farei”.
Da quel giorno non ci staccammo più l’uno dall’altra.
Roberta aveva un carisma invidiabile, piccola, scura, un viso bellissimo e sempre sorridente, era matta ma faceva volontariato e pensava sempre al prossimo: agli amici, a chi era in difficoltà, lei veniva sempre dopo qualcun altro. A volte era una rompiballe micidiale e finivamo per urlarci contro per interminabili minuti fin quando lei se ne usciva con una battuta stupida e allora tutto tornava alla normalità. O forse ero io il rompiballe tra i due.
Quando uscivamo in gruppo giocavamo come due cuccioli di animale a ruzzolarci sulla spiaggia, di noi la gente diceva che ci eravamo ritrovati ma che avevamo caratteri troppo forti per durare a lungo.
Al tempo era appena uscito il primo The Sims, un videogame in cui potevi crearti una vita virtuale sognandone una reale. Si sedeva nella mia stanza di fronte la Tv e mi diceva:
“Questo sei tu e questa sono io”.
“Non sono così fichetto, sono più rude e tu sarai anche scura ma non sei africana”.
“E questa è la nostra casa”.
“E’ una stamberga”
“Quando diventerai famoso compreremo quest’altra, quella del vicino”.
Ero appena tornato da Roma dove studiavo da anni e fantasticavamo di andarcene via per sfondare nel mondo di qualcosa, qualunque cosa andasse sfondata per riuscire a comprare una casa come quella del vicino dei nostri Sims. Credeva in me e in quello che facevo, credo fosse stata la prima a leggere il mio romanzo in paese.
Ballavamo sempre, ogni sera e lo facevamo in modo plateale per ore ed ore, avevamo il cuore di un elefante e al mattino sostavamo sotto casa sua a parlare fin quando non riuscivo più a tenere gli occhi aperti.
Un giorno ci addormentammo in auto e al mio risveglio non la ritrovai. La vidi tornare dal bar con la colazione in mano per entrambi.
Ci lasciammo, ma questo non voleva dire che non ci rivolgessimo la parola, eravamo ancora grandi amici, io c’ero quando aveva bisogno di me e lei c’era anche quando non avevo bisogno di lei, perché aveva il vizio di essere sempre un gradino sopra di me nonostante mi arrivasse alla spalla.
L’ultima volta che la vidi viva mi disse: “Chicco, ti ho pensato tutto il giorno”.
Era fuori da un locale in cui ci riunivamo spesso con gli amici. Mi abbracciò col suo solito abbraccio, quello di chi vuole darti energia per almeno una settimana. Il giorno in cui morì un amico mi chiamò e mi disse che si era suicidata. Chiusi il telefono e rimasi seduto sul mio divano a pensare per chissà quanto tempo. Quando accesi la TV tutti parlavano di lei, le reti Mediaset, la Rai e quando si cominciò a sospettare dell’omicidio cominciarono ad arrivare in paese orde di mostri con le telecamere e i microfoni. Al suo funerale mi si avvicinò un giornalista di Canale 5 e non fece in tempo a chiedermi quel che doveva per obblighi lavorativi, che gli urlai contro:
“Ma ti pare il momento?”
“Eri un amico?”
“No” gli dissi, “non so chi sia, ho solo la passione per i funerali, ora lasciami in pace”.
Non riuscivo a sopportare quelle facce prive di espressione alla ricerca di uno scoop, quel distacco delle TV che passavano dalla sofferenza dei suoi familiari all’intervista a Lory Del Santo. Li compativo, il loro era uno dei mestieri più meschini del mondo.
Fu trovata nel suo letto col cranio perforato da un corpo contundente. Dapprima fu sospettata la sorella ma io la conoscevo, era un individuo docile e incapace di fare del male a una mosca e soprattutto era la persona che più l’amava. Ma i giornali dovevano additarne uno e lei fu la prescelta. Iniziammo a sospettare l’uno dell’altro, di tutti gli amici, dei conoscenti, ci guardavamo con occhi storti perché pensavamo che qualcuno, tra noi, doveva essere l’assassino. Un ragazzo che la sera dell’omicidio era stato con lei un giorno per la paura di essere incriminato vomità sul marciapiede.
Durante le lunghe telefonate col mio migliore amico cercavamo di capire chi avesse visto prima di morire, chi frequentasse, ma non ne venivamo a capo perché lei non aveva alcuno scheletro nell’armadio, era una persona semplice, amorevole, stava con noi, con le amiche, gli amici di sempre e diceva tutto quel che le passava per la testa senza frenarsi mai.
La situazione divenne insostenibile quando cominciarono a interrogarci tutti, tutti tranne me, che decisi di partire per la Puglia, andare da un’amica e tenermi lontano da tutto quello.
“Sei matto?” mi dicevano, “se te ne vai sospetteranno di te”.
Tutti i miei amici erano già stati sentiti dagl’inquirenti ma nonostante lei in casa avesse i miei libri, le mie foto e le mie lettere, non fui mai chiamato.
Un giorno un tizio mi riportò le parole che gli aveva riferito un amico sbirro:
“Non abbiamo la minima idea di chi sia stato, non abbiamo neanche un sospetto”.
Roby mi chiamava Chicco, come il protagonista del mio secondo romanzo, mi diceva che ero come lui ma che al contrario di lui non parlavo con Dio.
Ci provò a portarmi in Chiesa con lei e una volta ci riuscì. Per tutto il tempo mi guardò ridendo del mio disagio e della mia incapacità di ripetere anche la più semplice delle preghiere, del mio rifiuto a sedermi, inginocchiarmi e alzarmi a comando. Era fiera di aver portato Satana al cospetto della croce, fiera che avessi fatto un tale sforzo per amor suo.
In paese un tossicodipendente conosciuto a tutti, cercò di stuprare una donna anziana ma non ci riuscì. La polizia lo prese e lo portò in cella. Provarono a indagare più a fondo e in casa sua trovarono foto e ritagli di giornale che trattavano la morte di Roberta. Un video girato da una telecamera di sorveglianza lo inchiodò, la sorella del tossico testimoniò contro il fratello e alla fine lui confessò l’omicidio.
Lo chiamavano Diabolik perché era capace di arrampicarsi dovunque. Si era arrampicato durante la notte s’un tubo che dava sulla camera di lei, aveva tentato di stuprarla e poi l’aveva colpita a morte.
Tutto il carcere del mondo non avrebbe mai sopito la voglia che avevamo di ucciderlo con le nostre mani, di farlo a pezzi e bruciare i resti. Oppure lasciarlo morire lentamente come una vespa parassita nel corpo di una blatta.
Era una fantasia, un sogno e speravamo in cuor nostro che qualcuno trovasse il coraggio di farlo.
Pochi giorni prima Diabolik e un altro suo amico conosciuto per la sua passione per gli acidi, si erano messi in testa di rubare lo stereo della mia auto, alla luce del giorno, di fronte a me.
Io e i miei amici ridevamo di loro, erano talmente fatti da non capire che li stavamo osservando mentre, guardinghi, cercavano di aprire lo sportello.
“Guarda che ti vedo” gli urlai.
“Stai zitto” mi rispose.
Li scacciammo via come si scaccia un cane con la rogna.
Non piansi un solo giorno, non piansi per lei per anni perché ho sempre considerato il pianto una manifestazione di debolezza, specie se è un uomo a farlo. Poi una sera incontrai la sua migliore amica in una discoteca in spiaggia. Parlammo di lei e quando la ragazza mi salutò per andarsene i miei occhi cominciarono a lacrimare.
“Ale, no” mi disse, quasi intenerita.
“Perché no” le risposi.
Un giorno io e Roberta eravamo in auto a gironzolare ascoltando una canzone di Carlos Vives intitolata “Fruta Fresca”, la mettevamo a ruota per riuscire a capire cosa dicesse. Eravamo fissati con le canzoni spagnole e volevamo imparare la lingua.
“Lui la ama” mi disse Roberta.
“Non ci sono dubbi, altrimenti non ci avrebbe fatto su una canzone. Ma cosa c’entra la frutta?”
“Dice che il suo bacio sa di frutta”
“Lei ha mangiato frutta?”
“Non so, non riesco a capire. Forse a lui piace la frutta e quando baci qualcuno ti ricordi del gusto che ami di più”
Le dissi di baciarmi. Lo fece e:
“A cosa hai pensato?”
“Alle patatine alla paprika” rispose.
Mi fermai e le comprai delle pringles alla paprika.
Rise. Nessuno rideva come rideva lei, sembrava una bambina. In fondo lo era. Adesso in Dio un po’ provo a crederci anche se non mi è facile, ma semmai non riuscirò profondamente, so che almeno potrò credere in lei.

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