Soli insieme

On 15/12/2020 by alecascio
Io e Mia ci siamo vestiti bene questo Capodanno. Le ho comprato un bell’abito nero a cascata che l’esalta le forme e ho ballato con lei Twentysomething di Jamie Cullum, il suo piano Jazz non è mai stucchevole e rievoca lo spirito delle feste senza eccedere come quell’altro tizio che si chiama come un chewingum.
Ho acceso le candele profumate ai frutti di bosco e preparato una splendida cena, leggera ma saporita, tanti piccoli assaggi per non appesantirci troppo intervallati da un vino bianco Leroy Cote con un leggero retrogusto fruttato.
La pestilenza l’abbiamo lasciata fuori dalla porta, ho fatto un bagno caldo con lei vicino e le ho raccontato dei miei viaggi intorno al mondo, di come in un modo o nell’altro in quasi ogni nazione c’è sempre stato qualcuno disposto a uccidermi o a derubarmi.
“Non so cosa veda in me la gente, credo che io abbia la faccia da sfidante perfetto, richiamo al confronto animale. Già, credo sia questo, devo ammettere che non mi dispiace affatto, io amo l’impeto cavernicolo di noi uomini, amo duellare, amo la sfida, amo le botte, sentire la carne viva che sanguina, ti ricorda che sei vivo”.
Lei non è molto d’accordo con me ma è pur sempre una donna, ci amano perchè siamo rudi, cattivi, possenti e infantili e ci odiano per lo stesso motivo.
“Hai acceso tu la TV?” le chiedo.
Parlano di morte, anche in un giorno di festa e ci dicono di rivolgere un pensiero a chi come noi non può godersi questo giorno speciale. Non so chi siano, non li conosco, come posso pensare a qualcuno di cui non ho chiara la fisionomia? Come potrebbe un mio pensiero sollevarli se neanche loro mi conoscono?
“Già, Mia, sono cose che si dicono, hai ragione, abbiamo questo cattivo vizio di dover riempire gli spazi vuoti con qualcosa: il silenzio con le parole, la nuda terra con parchi e monoliti di cemento, un foglio bianco con un disegno, una casa spoglia con mobili e inutili carabattole. Fin quando non troveranno la cura definitiva al vuoto emotivo, continueremo a usare gli oggetti come succedanei”.
Mi alzo in piedi e le chiedo di passarmi l’asciugamano. L’ha già s’una mano, sempre pronta ad agevolarmi la vita anche nei piccoli dettagli.
“Hai fame? Già, anch’io. Ho deciso di mettere quella giacca comprata in Cechia e che non ho mai potuto mettere, sarò un vero gentleman stasera”.
La bacio s’una guancia, la sposto sul divano e la lascio godersi un po’ di musica fino al mio arrivo. Le metto un bicchiere di vino in mano.
Suonano alla porta, lascio correre.
“Non muoverti, no, non aprire, potrebbe essere un infetto. Hai presente quel racconto che sto scrivendo sugli untori? Io ci credo veramente, essere positivi e poter uccidere o ferire gli altri passando impuniti è come avere un superpotere, un sacco di gente vive col desiderio di fare del male al prossimo e… quale migliore occasione”.
Mentre mi vesto il campanello continua a suonare. Non riesco a trovare nessuna buona ragione per insistere tanto. Suona, suona, ancora suona e Mia comincia a innervosirsi.
“Chi è?” chiedo.
“Aurora”
“Sei a due borghi di distanza, sai che se ti scoprono i Kapo ti pignorano la playstation?”
“Non possono, ho venduto anche quella”
“Che vuoi?”
“Sono rimasta intrappolata a Zafferana e non so dove andare”
“Perchè non te ne torni a Fornazzo?”
“E’ pieno così di posti di blocco e sono già le undici, pensavo che magari…”
“Pensavi male. So che a Fornazzo avete tre infetti, non posso lasciarti entrare”
“Non ho alcun sintomo, credimi, i tre infetti di cui parli erano tornati dagli Emirati Arabi, io non mi muovo dalla Sicilia da tre anni”.
Prendo Mia dal divano, la sposto in camera mia per evitare almeno a lei la fine di Sepulveda e poi passo sotto la porta una barretta di cioccolata tolta dalla confezione e avvolta nello scottex.
“Che devo farci?” mi chiede Aurora.
“Mangiala e dimmi che sapore ha”.
“E’ cioccolata, quale sapore vuoi che abbia”.
“Mi hai preso per imbecille? E’ aromatizzata, devi dirmi quale frutto contiene”.
“Dai, vuoi scherzare?”
“Ti sembro uno che scherza?”
“Non so, c’è una porta di mezzo, non posso vederti in faccia. Comunque ok, la mangio”.
Quella barretta era nel mio cassetto da mesi, me la diede il tabaccaio come resto perchè non aveva spicci o come penitenza per non avergli dato la cifra esatta.
“Sa tipo di pesca, una cosa così”.
Come immaginavo.
“E’ albicocca”
“Che è?”
“E’ un frutto inventato dalla Zuegg negli anni ’80 per farci i succhi per i bambini.”
“Io sono nata nel ’91, cosa vuoi che ne sappia”
“Non posso farti entrare”.
“Guarda che gl’infetti non sentono i sapori non è che l’invertono”.
“Vedo che a Fornazzo vi siete fatti una cultura con tutti quegli appestati”.
“Frutti di bosco, riso ai frutti di mare, salmone e burro, di buona qualità anche, frittura mista, lenticchie e zampone …”
Non è una donna, ma un segugio, controllo su Google se la peste crea sintomi tipo l’iperosmia ma trovo solo un articolo di un tizio su Medicitalia.it che chiede se ha per caso un tumore al naso.
Apro la porta.
Mi allontano di un metro.
“Mi avresti davvero fatto dormire nelle scale?”
“No, sul pianerottolo che è pianeggiante, ti avrei passato una coperta, del cibo, non ti avrei fatto mancare nulla”.
Entra e fa come se fosse a casa sua. Si avvicina al tavolo e prende un salatino.
Le urlo che è grazie a quelle come lei se abbiamo perso gente come Sean Connery.
“Guarda che non è morto di covid, era vecchio e soffriva di demenza”
“Quello di cui soffri tu. Vai a lavarti le mani”.
Torna dal bagno disinfestata e profumata, ha usato il mio Cartier, dice che non c’era altro quando invece c’è una vasta gamma di deodoranti nel mobiletto in alto a destra che puoi far profumare di gelsomino e lavanda i bagni pubblici di Calcutta.
“Stavi per cenare?”
“Sì”
“Hai preparato una tavola per due, come mai?”
“Soffro di fame nervosa, così quando mi alzo la notte almeno trovo apparecchiato”.
Non mi è antipatica, Aurora, prima della peste mi piaceva anche, è che dopo la pandemia ho cominciato a guardare tutti quanti come dei potenziali assassini, la vecchieralla del banco di frutta e verdura è di colpo Amelia Dyer, le maniglie delle porte sono tutte quante bombe a orologeria, non sono io, ma i tempi che corrono.
“Hai un posto dove dormire?”
Osservo l’uscio con insistenza, ma non me ne accorgo.
“Eccetto il pianerottolo”.
“Ho un solo letto, ma quel divano è comodo”.
“Il Chesterfield?”
“Perchè, cos’ha?”
“Non puoi seguire un film per intero senza che ti vengano l’emorroidi a fine primo tempo”.
L’ultimo giorno del 2020 ci sono stati 936 morti, me lo dice lei che in auto ha la radio, come tutti, ma lei la fa apparire come un’idea geniale ancora in via di sperimentazione.
“Siamo fortunati. C’è un sacco di gente sola per ora, sai, gente che piange, gente che vorrebbe riabbracciare i suoi cari, che farebbe carte false per un po’ di compagnia e una buona cena.”
Afferra il calice e dice: “Questo vino a tavola, per esempio, non è affatto scontato”
“Più che scontato direi che per te è gratis”.
Twentysomething di Jamie Cullum, di nuovo, sarà la terza volta che la sento, ho messo il CD in repeat.
Mi afferà per una mano e mi chiede di ballare con lei.
Mi trascina in pista e inizia a danzare come una del nord, una di quelle donne moderne che vivono in città in cui c’è un corso per ogni cosa e tutti sanno fare un quarto di tutto perchè poi hanno abbandonato le lezioni per via dei troppi impegni.
“Balli bene per essere di Fornazzo”.
Io sono un uomo di mondo, col vino in corpo riesco a farmi trascinare in ogni ballo anche se faccio sempre gli stessi movimenti ma cambio il tempo.
“Ho imparato nella mia stanza, amo ballare da sola”.
Si precipita alla TV per il conto alla rovescia.
Ci sono sei trasmissioni e tutti dicono di ricordarci dei morti e si augurano che il 2021 possa essere migliore. Lo sarebbe anche se mi arrestassero e mi dessero sei mesi, almeno per altri sei vivrei libero e spensierato. E’ come se avessero spedito per sbaglio a ogni presentatore lo stesso foglio con su scritte le stesse stronzate.
“Spegni” mi dice Aurora: “Non pensiamo alla morte per oggi, pensiamo alla vita”
“E il conto alla rovescia?”
“Decidiamo noi quando contare”.
Credo fosse il nuovo anno da un quarto d’ora quando ci siamo alzati da terra ubriachi per il 3,2,1.
Cantiamo, ridiamo e penso che quello potrebbe essere l’ultimo giorno insieme, che l’indomani un colpo di catarro potrebbe perforarci un polmone, così la bacio.
“Ti sei lasciato prendere dall’atmosfera” mi spinge via: “Credo che tu abbia frainteso la mia visita”.
Rimango come uno spettatore medio di fronte al finale di un film di Charlie Kaufman.
Ride. Mi tira a sè.
“Stavo scherzando” dice.
La notte con lei accanto mi scordo che fuori le orde di zombie stanno vomitando muco sulle strade sciogliendo l’asfalto prima e poi via via la crosta terrestre fino alle porte dell’Inferno.
“Bello il manichino” mi dice assonnata.
“Si chiama Mia”
“Perchè le hai dato un nome?”
“Do un nome a tutte le cose, le rende vive”
Non mi ascolta neanche, già dorme
Mi annuso le braccia, mi annuso le mani, non sento gli odori. Mi avvicino a lei e accosto il mio naso sul suo collo. Mi spinge a baciarla mettendo la mano sulla mia nuca. Sento un odore intenso di vita che mi apre i bronchi: li sento sì, gli odori, sono io che semplicemente non so più di niente.
s-l1600-1

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