Preziosi scarti (Tutta la maledetta verità su Escobar)

On 26/05/2021 by alecascio

Mi accartoccio sul mio stomaco che a quanto pare sa di me più di quanto io sappia di me stesso. Puoi essere duro quanto vuoi, il tuo corpo lo trova sempre un modo per piangere.
La mia nuova Catarina si avvicina, mi chiede se può prendersi cura della mia vita ed io l’allontano con le poche forze che mi rimangono, perché so che nel momento in cui una donna comincia a occuparsi di te, le tue palle smettono di essere il segno distintivo della tua mascolinità, cominci a perderle, ne dimentichi una all’altare di una chiesa, un’altra ti scivola via nel trambusto di una sala parto e ti ritrovi senza nulla con cui giocare. Nonostante sventolino all’aria come un mazzo di chiavi, non c’è nessun maniscalco per le tue palle, quelle se le perdi non te le riprendi, devi averle sempre sott’occhio e fare delle rinunce per tenertele strette, non devi accettare mai alcun baratto, per nulla al mondo. Non potrai quindi ricominciare una nuova vita in una nuova città, con nuovi amici, nuove donne: uno che ha perso le palle lo si riconosce subito, è differente da uno che le palle non ce le ha mai avute.
Chi è sempre stato senza palle si adatta alla vita, vive al sicuro nel suo recinto, nella sua routine, prende le sue scorciatoie per evitare d’incappare in situazioni spiacevoli, sa cosa dire e con chi provarci, conosce tutte le varietà e intensità di ombre nelle quali nascondersi a tutte le ore. Chi le palle le ha perse, invece, sembra vivere la vita di un altro, i racconti delle sue gesta ed i suoi gesti non combaciano, non conosce i propri limiti, balla fuori tempo, canta fuori tono, e non trova mai la posizione giusta sullo sgabello quando conversa con una donna al bancone. Chiedete a un uomo che ha perso le palle di allargare le spalle e spingere il petto in fuori, vedrete nel suo viso un senso di smarrimento, come di chi ha appena perso le chiavi appunto, come se quella postura da leone combattente sia diventata di colpo innaturale, perde il passo anche stando fermo, si sbilancia: il motivo è che non ci sono più le palle a fare da contrappeso.
Credetemi, se una donna vi chiede se può fare qualcosa per voi, rispondetele: “Faccio da solo”.
Non importa se morirete tra disumani dolori, se rimarrete soli per il resto della vita, dovete mantenere il vostro corpo saldo alle vostre palle, siete voi l’aggeggio non loro.
Quando San Pietro vi chiederà di infilare le vostre palle nella serratura dei cancelli del Paradiso, farete bene ad averle con voi se non vorrete rimanere fuori da quell’harem benedetto da Dio, perché non ci sarà modo di tornare indietro quando vi accorgerete di averle lasciate sul tavolo.
“Non avevo idea che i cancelli si aprissero con le palle”, vi giustificherete.
“Con una soltanto” risponderà San Pietro, “ma Dio ha pensato bene di farvi un duplicato da portare sempre con voi”.
Vi guarderà con il sopraciglione bianco alzato e vi chiederà: “Non avete per caso perso anche quella, vero?”
E voi, assieme a tutti gli altri uomini fuori, farete di sì con la testa e guarderete oltre l’inferriata le orde di donne acconsentire alle richieste del loro uomo, settantadue adoratrici di un unico eletto.
“E quelle?” chiederete: “Come l’hanno aperto il cancello?”
“Uguale” risponderà San Pietro: “Con le palle”.
“Ma loro non hanno le palle!”, riderete voi.
“No, ma hanno le vostre”, riderà San Pietro.
E se vi siete chiesti come mai così tante donne per ogni uomo nel regno dei cieli, guadatevi bene attorno, guardatevi accanto, guardatevi prima ancora le spalle.
Catarina Jackson si avvicina con un panno bagnato e mi asciuga la fronte sudata, poi mi dice che ha appena messo sul fuoco l’acqua bollente per una tisana. Tengo le mie budella dentro e le colpisco con un pugno nonostante apprezzi la sincerità con la quale esternano la mia profonda sofferenza psichica.
“Cristo Dio, vai fuori da qui” grido: “E porta con te tutto il tuo amore e tutta la tua grazia che io so gestire un mal di pancia da solo, non voglio donne con me”.
Dice: “Non sono una donna, Shaun”, ma si arruffa come una gatta randagia all’ennesima richiesta di stabilità. Falsa e inerme come una serpe tra le mele, mi dice: “Non sono la tua Catarina!”
Adesso è fuori dalla porta, ma so che busseranno altre settantuno come lei entro lo scadere della mia esistenza, così giro la chiave, due volte e poi la metto sul tavolo, dove sarà sempre quando ne avrò bisogno.
Sì che lo sei, Catarina, e lo sarai per sempre.
Poi torno al mio letto e mi contorco: avrei davvero bisogno di quella tisana.

 

 

 

 

 

 

 

 

 
2.

 

 

 

 
Houston Baby, nulla è eterno eccetto il nulla.
Ho appena sparato a Woody ma non provo alcun rimorso perché sono certo che Dio lo avrebbe comunque mandato all’Inferno se non lo avessi fatto io.
L’ultima volta che uccisi qualcosa stavo pulendo casa. Spazzai via miliardi di acari con una passata di mocio e durante la strizzata nel secchio mi soffermai a pensare all’Universo.
Catarina, penso di aver capito cosa faceva Dio durante il diluvio: puliva casa.
Ho le mani sporche di sangue, ma i miei pensieri sono lindi come il celito di Quirino Mendoza, perché so di star tenendo fede alla mia promessa.
Io, Catarina, sto finalmente occupandomi di te.
Ci sono un mucchio di neri e bianchi avvolti da una nuvola di fumo che parlano tra loro, fuori dal Banana Chic. Alcuni imprecano, altri piangono, altri cercano una sigaretta nei pantaloni a blusa di Yohji Yamamoto che tanto si usano adesso.
Il governo ci ha vietato di fumare negli unici posti in cui vale la pena farlo: al bar con gli amici, al tavolo dopo l’ammazzacaffè, al bancone di un bar.
I politici ci hanno reso la vita difficile, adesso vogliono complicarci anche la morte.
“Allora” chiedo a Bubba Cuban facendomi spazio tra le sedie lasciate fuori posto dalle centinaia di clienti fumatori: “Tu non fai la pausa nicotina?”
Ha dei cerotti nelle dita e mastica un chewingum che gli fa odorare l’alito di posacenere.
“Fa silenzio” mi risponde indicandomi la TV.
Una TV! Io ero …
” … assolutamente certo che fosse un acquario!”
“Non hai abbastanza soldi da permettertelo. Di solito metto uno screensaver! Sai, quello coi pesci”.
Dovevo immaginarlo, i pesci non si dissolvono ogni volta che salta la corrente, ma sopratutto la realtà non ha una così alta risoluzione.
Mi fa “shh”, m’indica l’acquario con dentro lo staff della Fox News e “fa silenzio” mi ripete, “stanno parlando della morte di Michael Jackson”.
Io ho smesso di fumare, ma non di stupirmi della gente che si stupisce per la morte delle star.
“Un infarto e adesso balla il Moonwalk in Paradiso!”
Dubito quando qualcuno dello star system muore d’infarto. Ho sempre pensato che non l’abbiano un cuore, loro.
E poi chi dice che …
“… in Paradiso accettano i pedofili?”
“Non era un pedofilo, aveva solo il cuore di un bambino”.
Ora si spiega l’infarto.
Catarina fa una smorfia d’odio, ma non le riesce bene. Ha già il bicchiere tra le mani. Mi fissa con i suoi occhi lucidi: sa cosa voglio. Da un paio di giorni le permetto di fare jogging al Griffith Park, le sue gambe stanno cominciando a diventare belle come dovrebbero essere, ma non ha ancora le giuste movenze, per quelle rimedieremo.
Mi si è scaldata la vita dalla gola alla vescica con un solo sorso di quella roba, sangue di Cristo e Belzebù mischiati assieme e versati in un’elegante bottiglia dal corpo piatto, nascosta come un adulterio nel retrobottega di un droghiere.
Lei mi guarda come se stessi pisciando sul Monte degli ulivi fischiettando “Malted Milk” di Robert Johnson.
Le allungo il bicchiere e le chiedo cos’abbia da fissare.
“Ho sete” le dico, “ho bisogno di bere”.
Mi risponde che loro, “gli esseri umani” sottolinea come se io non fossi di questa terra, usano bere dell’acqua quando provano quella particolare sensazione.
Non mi alzo, ma è come se l’avessi fatto perché il mio sguardo, seppure parta dal basso, ritrova nella sua intensità un pari livello che aumenta man mano che le spiego una volta per tutte la maledetta verità sulla dipendenza e su quella sua bevanda divina che ci costringe tutti a temere perfino il Sole, che ci induce a cercare di tenere sotto controllo l’intero ecosistema.
“Beviamo alcolici per rilassarci” le dico, “e ci sentiamo ansiosi se saltiamo qualche serata al bar. Beviamo l’acqua per sopravvivere invece e solo tre giorni senza ci causano febbre, vomito, diarrea e conseguente morte. Un eccesso di alcolici ci uccide così come un eccesso d’acqua ci provoca intossicazione, nausea, coma e un decesso tra atroci sofferenze.”
Mostro il mio bicchiere vuoto e gliene allungo un altro come invito a tenermi compagnia.
“Nessun alcolico porterà mai più dipendenza della semplice, pura e apparentemente mansueta acqua”, continuo, “quindi smetti di bestemmiare gli alcolici, smettila di guardarmi in quel modo e versami un altro bicchiere, Cristo Dio, che quella roba non travolgerà mai villaggi, non inghiottirà mai terre, non spazzerà via il genere umano dovesse fornicare tre volte i sodomiti.”
Smetto e il silenzio sopraggiunto mi permette di sentire il rumore che fa il Southern quando bacia il cristallo.
“Ci vuoi anche un po’ di ghiaccio?” mi chiede Catarina pescando con la mano in un secchiello.
La fermo in tempo: “Cos’è, hai deciso di uccidermi?”
E questa volta gusto a sorsi i miei dieci minuti di quiete.
Un gruppo di teenager ubriache è appena rientrato nel locale per prendere una boccata d’aria, si sporgono al bancone e chiedono se ci sono altre notizie su Michael.
“Lo hanno già seppellito?”
Il sedere della quinta di sinistra sembra che stia soffocando nei suoi pantaloni attillati e più quella si sporge, più credo che dovrei smettere di smettere di fumare e pensare a godermi la vita alla faccia delle leggi antifumo, degli agenti che non sono in grado di farmi lavorare e delle star plastificate che ballano come fossero granchi.
Si rivolge a me, culo di marmo, mi chiede: “Tu ci crederesti? Michael morto. Secondo te lo hanno già cremato?”
“No” le rispondo: “Credo che l’abbiano riciclato”.
Mi prende per mano, me la stringe e “chissà qual è la verità” mi dice.
La verità le sta preparando un bloody mary al bancone. La ragazzina, come tutti, non sa di starle stringendo la mano, alla verità. Proprio adesso la verità si è molto, molto eccitata. Poco distante, l’altra metà della verità le ha appena sputato nel bicchiere.
Io sono la verità, Catarina è la verità.
*****
Il Banana Chic era il miglior locale di Los Angeles una volta, prima di diventare quello che è adesso. Avevo una casa sull’Ackerfield e una dozzina di tessere di circoli che non frequentavo, ero il classico figlio d’immigrati ancora in cerca della sua fetta d’America e io, quella fetta, l’avevo quasi trovata, almeno fin quando Michael Jackson non decise di uscire dalla scena.
“Meglio delle star originali” recitava l’insegna luminosa del Banana.
Sette giorni su sette, sedici ore al giorno, i sosia più maledettamente somiglianti che il mondo avesse mai conosciuto, ballavano, cantavano e recitavano per il nostro pubblico.
Insegna eccessiva, direte voi, ma piuttosto veritiera visto che il 90% delle star originali erano sepolte da decenni. Almeno loro camminavano sulle loro gambe, avevano spalle abbastanza larghe da sopportare vistose giacche gold lamè e ancora tanta forza da tirarti un pugno sulla mandibola mentre ordini un altro Southern a Catarina.
“Avevamo detto Mercoledì!”
Elvis era la vera star lì dentro. Nonostante ce ne fossero mille simili a lui, nessuno era come lui. Ogni angolo del suo viso era simile all’originale di Blue Hawaii.
“E oggi è Venerdì”, risposi lubrificando le giunture della mandibola bevendo un sorso.
“E’ Venerdì, appunto”.
“Allora cosa vuoi da me, ritorna Mercoledì”.
“Questo è il Venerdì dopo, non il Venerdì prima”.
“C’è un Mercoledì dopo ogni Venerdì come ce n’è uno prima! Non ti ho detto quale Mercoledì ti avrei pagato, ho solo detto Mercoledì”.
Gli affari non andavano alla grande neanche allora, andavano come dovevano andare, alti e bassi, non facevamo faville, così per pagarmi le spese avevo investito qualcosa in un’altra piccola attività affine.
Ad alcuni isolati dai Capitol Studio di Hollywood sorgeva “Preziosi scarti di Knock O’Donnel”. Knock era un irlandese alla ricerca anche lui della sua fetta d’America. Il vecchio negozio di “introvabili” era un rinvigorente naturale per quelli che credevano che gli Stati Uniti fossero un menage di pistole, pellicole e concerti. Era un buco, nient’altro, ma dentro quel buco potevi trovare degli oggetti d’inestimabile valore perché appartenuti alle migliori star di tutti i tempi. I vinili, le pellicole e le musicassette che riempivano gli espositori in legno sulle pareti erano poca cosa se paragonati a ciò che si trovava nella “stanza dei cimeli”, un altro buco, un buco nel buco, ma che attirava a Yucca Street migliaia di persone ogni anno.
In vetrina c’era il vestito che Marilyn Monroe rifiutò di comprare al Jardin du tissu, durante una visita a Roseville nel ’59. Marilyn non adorava le gonne lunghe, lei non aveva nulla da nascondere oltre alle orge coi Kennedy, i coca party agli Studios, le relazioni omosessuali, la dipendenza da psicofarmaci …
Ok, diciamo che aveva tutto da nascondere quindi le ginocchia, almeno quelle, voleva poterle mostrare ancora. Così, semplicemente, quando il vestito le fu posato sul bancone, lo scostò. Non c’è dato sapere se l’avesse toccato o avesse semplicemente sovrapposto un altro capo a quello che si presentava come un vestito da damigella, solo un po’ più sposa che zitella, ma di certo un suo gesto aveva contribuito allo spostamento di un brutto capo d’abbigliamento divenuto di colpo un cimelio da quindicimila dollari da scontare.
Knock vendeva l’aria dell’ufficio di Rob Gardner della Paramount imbottigliata durante una conversazione tra Tarantino e lo scenografo di Pulp Fiction. Quelle che si presentavano come semplici bottiglie d’acqua vuote e tappate si erano trasformate per Dean Renzones, un gringo di Escondido addetto alle pulizie degli studi, in una fonte di reddito.
Nel reparto “cimeli low price” c’era una bottiglia di vermouth vuota da cui aveva bevuto un nervoso Michael Douglas, ce n’erano altre tre di acqua gasata a basso contenuto di sodio su cui aveva posato le labbra Jennifer Aniston e una, d’inestimabile valore, che Cameron Diaz aveva usato durante le riprese di “In her shoes” per tamponarsi un gonfiore all’occhio destro causato da un maldestro movimento durante l’apertura dell’anta sinistra dell’armadio delle scarpe di Toni “Rose” Collette.
Per un cinico come me, Knock vendeva bottiglie vuote, per uno star hunter, vendeva pezzi di storia.
Ovviamente, come per qualsiasi altra roba presente da Preziosi scarti, non c’era dato sapere se quelle bottiglie fossero state comprate da Dean e poi rivendute a Knock come fossero sindoni portatrici dei sudori e della saliva delle celebrità, non c’era dato sapere se davvero esistesse un Dean Renzones, ma gli star hunter (feticisti, collezionisti, adoratori degli oggetti appartenuti alle celebrità), non volevano realmente sapere la verità, perché non vivevano di verità, loro.
“Non credi che su quell’insegna andrebbe scritto anche il mio nome?”
“No” rispose Knock impacchettando in buste trasparenti le cicche di sigarette lasciate sul set di Lost in traslation da Scarlett Johansson: “Non credo”.
In un piccolo frigobar, dieci fazzoletti di carta congelati e usati da Bridget “Renée Zellweger” Jones durante una delle sue crisi di pianto erano la chimera di un giovane sceneggiatore polacco arrivato a Hollywood per sfondare nel mondo del cinema.
“Mille dollari” gridò Knock senza neanche guardarlo in faccia, “con tutta la borsetta refrigeratrice”.
“E senza?” chiese il ragazzo.
“Mi spiace amico, tornatene da dove sei venuto.”
Knock vendeva soltanto a chi comprendeva le vere virtù dei preziosi scarti, a chi capiva che il muco era ciò che davvero aveva valore in quei fazzoletti, che un oggetto appartenuto a una celebrità non varrà mai quanto un suo fluido organico.
“Abbiamo la forfora di David Letterman per cinquanta dollari al milligrammo se vuoi” cercai di darmi da fare per guadagnarmi il mio nome sull’insegna, ma il giovane mi mostrò una smorfia e continuò a fissare il frigo rassegnato a doversi masturbare su scontati porno amatoriali, privato ormai del sogno di consolare la sua triste Bridget sul divano del suo disordinato appartamento.
Chiesi: “Perché mai non posso avere il mio nome su quell’insegna? E’ anche mio questo posto!”
“Perché vieni qui solo per chiedermi dei soldi, perché non hai la minima idea del valore spirituale della merce che vendiamo, perché non hai mai passato più di dieci minuti qui dentro e perché il tuo nome non suona bene come il mio”, fu la risposta.
Knock avrebbe potuto vendere mosquitos ai messicani se solo avesse voluto, ma aveva deciso di dedicare tutta la sua vita a una causa più grande: mantenere il suo nome in quell’insegna fino alla fine dei suoi giorni.
Del resto il mio nome sarebbe andato bene per una pizzeria o un deposito d’armi da fuoco.
“Scommetto” mi chiese, “che sei qui per chiedermi dei soldi”.
“Affatto” risposi e non appena lasciò la stanza per vendere qualche vinile di Lennon a una coppia di sposi hippie, aprii il frigobar e chiesi al ragazzo polacco di darmi cinquecento dollari e scappare con quel suo agognato cimelio. Presi il denaro, il ragazzo prese il suo muco e io mi ritrovai con un problema in meno con Elvis.
Sputai s’un clinex e lo sistemai nel frigo, poi mi avvicinai al mobiletto in noce che non mi era concesso aprire e chiesi a Knock di darmi la chiave altrimenti lo avrei sfondato con un pugno. Mi rispose che non lo avrei mai fatto perché sapevo che quello da solo valeva la mia pensione. Amanda Lear, una giovane modella francese che abitava nella casa di Parigi di Jim Morrison, c’aveva inciso sopra le proprie iniziali e quelle del Re Lucertola, poi lo aveva scaraventato fuori dalla finestra presa da una raptus di follia d’amore.
“Dimmi cosa c’è dentro almeno, altrimenti io …”, agitai il pugno e digrignai i denti.
Mi spostò dal mobile e mi allungò una manata sul braccio.
“Ho qualcosa per te”, disse.
“Sì?” risposi: “Soldi, spero!”
“Lavoro. Degli uomini sono venuti a chiedermi di te e del sosia di Michael Jackson. Tu hai quella ragazza al bancone, no?”
“Catarina? Fa la barista. A nessuno serve Michael Jackson, serve più qualcuno che faccia bene i cocktail! Non so neanche se sia abbastanza somigliante.”
“A quegli uomini serviva Michael Jackson, ma anche un cocktail distensivo, a mio avviso. Mi hanno chiesto di te e ho dato loro l’indirizzo, spero che non ti dispiaccia”.
Il secchio pieno dei cocci delle porcellane e delle cristallerie frantumate durante la furibonda lite domestica tra Barbara e Oliver ne La guerra dei Roses mi ricordò che avevo ancora un debito con Hendrix, Tupac e tutti e sei i Village People.
“No” risposi, “non mi dispiace, per niente”.

 

 

3.

 

 

 

 
“Mi dispiace” dissi agli uomini con gli occhiali scuri alla porta, “stiamo per chiudere”.
“Le dobbiamo parlare Signor Giancana, è importante!”
“Abbiamo già i sosia dei Blues Brothers!”
Non risero, credo fossero stati addestrati a non ridere ascoltando le battute di Bill Cosby.
“Lei ha bisogno di soldi, non è così signor Giancana? Vogliamo solo parlare con lei e … Catarina”.
Uno dei due si tolse gli occhiali e mostrò il viso di …
“Woody, ‘Larry Flint, Natural Born Killer, Ray Pekurney’ Harrelson!? Non posso crederci!”
“Sono solo il suo sosia, signore!”
“Entra, cazzo, io sono il tuo più grande fan”, gridai entusiasta.
“Sono solo il suo sosia, signore!”
“Tutti siamo il sosia di qualcuno” e l’invitai nuovamente ad entrare tirandoli entrambi per la giacca.
“Ci sono altre sei persone al mondo uguali a noi, lo sapevi? Ma io, Cristo Santo, ho la sfortuna di somigliare a uno che mi somiglia. Tu invece sei Woody, tu sei Woody, amico mio!”
Mi voltai verso Catarina contento di mostrargli il mio ammazzazombie preferito, ma lei non fu felice quanto me. Si asciugò le mani e posò la pezza sul tavolo.
“Come mi avete trovata?” chiese.
“Non ti abbiamo mai persa” rispose l’altro, che non somigliava a nessuno, anonimo come una chiamata sbagliata.
Pensai a uno scherzo, pensai che stesse per succedere qualcosa, pensai di chiederlo a Woody ma di colpo sentii un dolore alla nuca diramarsi per tutta la testa, mi mancarono le forze e caddi tramortito. Mi avevano detto che pensare troppo facesse male, ma non credevo che ti facesse anche perdere conoscenza.
*****
Non sono ancora pronto a scoparmi la nuova Catarina. Lei lo è, me lo ha detto più volte, ma io preferisco portarmi in auto fino a Inglewood le teenager ubriache del Banana e sfogare i miei istinti prima di fare il grande salto e testare la mia ambiguità.
Mentre la scopo da dietro, la ragazza mi urla “ancora!”
“Non posso, più di così” le rispondo.
“No” ansima lei, “raccontami ancora di Michael, ti supplico, voglio sapere tutto e ti giuro che domani te la darò ancora se sarò abbastanza ubriaca”.
Domani. Mai parlare del domani mentre scopi, il domani è l’unico inconveniente del sesso.
“Chi vuole tutto scorda che il niente ha notevoli potenzialità” rispondo: “Sei sicura di volerlo?”
Mi dice di sì ed io ho ancora bisogno di tempo, quindi le do quel che vuole.
*****
Non coltivavo talenti d’avanspettacolo ma carne da macello. Knock mi aveva portato Catarina appena ventenne, strappata a un destino che l’avrebbe presto o tardi consegnata alla storia nonostante la storia non l’avrebbe mai nominata né ricordata. Mi disse che era la miglior sosia di Michael Jackson che avesse mai visto, ma io odiavo Michael e le superstar, l’odiavo come lo odiano tutti quelli che amano il blues così come il diavolo l’ha fatto, l’unica vera musica. Così la misi al bar, le diedi in mano il libro dei cocktail e me ne innamorai tra una sbronza e un’altra.
Percorrevamo la Sunset Boulevard verso Holmby Hills su una Aston Martin Vintage del ’72 in cui Clint Eastwood aveva poggiato il suo culo secco il giorno della prima del Texano dagli occhi di ghiaccio fuori da un cinema di Santa Monica.
“Ho letto di loro nel diario di Jones” mi disse Knock che mi aveva raccolto dal pavimento del Banana dicendomi che avrebbe fatto qualcosa per me se io avessi fatto qualcosa per lui.
“Bridget?”
“No, idiota, Brian Jones. Sapevo che sarebbero venuti fuori un giorno permettendomi di rivelare la mia vera vocazione”.
“Vendere secrezioni di facoltosi tossicomani di Hollywood?”
“No” rispose inferocito, “essere testimone del passaggio delle celebrità su questo pianeta e difendere il loro ricordo”.
Si chiama RSD, sta per Recycling Stars Department e si occupa di rimpiazzare i famosi quando diventano troppo famosi, quando decidono di uscire dalle loro routine per tornare alla vita vera.
“I sosia” mi disse Knock, “sono la parte essenziale del riciclaggio, vengono custoditi, allevati come polli in batteria e usati al momento opportuno per rimpiazzare i personaggi reali. Lo hanno fatto con Paul McCartney nel ’65, con Bob Dylan, con Sting e Bruce Springsteen. Nessuno di loro adesso è realmente … loro”.
Cercai di tirarmi su massaggiandomi la testa, ma poi cedetti alle proprietà medicinali del mio Southern da asporto. Non ero sicuro di aver capito, erano leggende metropolitane come i coccodrilli nelle fogne e lo Yeti: che invidiabile fantasia ha la gente che viaggia in metropolitana.
“E’ una buona cosa” risposi, “i sosia possono finalmente essere ciò che hanno sempre sognato!”
Knock posteggiò proprio dietro a una collinetta che dava sulla lussuosa villa in cui alloggiava Michael Jackson e mi chiese di scendere. In realtà non me lo chiese, me l’ordinò, così io ci misi un attimo prima di muovermi, per fargli capire chi comandasse.
“E Lennon, Cobain, Bob Marley, Janis Joplin? Non è una bel mestiere quello dei sosia, specie quando la celebrità decide di morire”.
E Michael aveva deciso di morire nel modo più stupido possibile, con un avvelenamento da Propofol, un anestetico. Questo noi non lo sapevamo ancora, lo avremmo scoperto più tardi.
Due delle prove inconfutabili che l’accusa di Conrad Murray, il medico di Michael Jackson, ha presentato per dimostrare che la star è stata in realtà assassinata sono: il singolare licenziamento di tutto il personale della casa il giorno prima della morte e la distruzione dell’impianto di sorveglianza per cui il proprietario di Holmby Hills chiese un risarcimento di duecentosessantamila dollari. Proprio quei due particolari permisero a me e Knock di entrare nel giardino e di arrampicarci sulla grondaia fino alla finestra che dava sul corridoio per poi nasconderci in uno degli sgabuzzini in cui la servitù teneva le scope di emergenza nel caso un po’ di polvere di stelle cadesse sui tappeti magici imbrattando il mondo incantato della celebrità.
“Cosa vuoi?” chiesi a Knock pressato nel metro quadro del camerino.
“Chi ha detto nulla?”
“Devi dirmi cosa vuoi in cambio. Mi hai detto che vuoi qualcosa in cambio per salvare Catarina, no?!”
“Non credo sia il momento giusto!”
“Credo che sia il migliore invece. Potremmo non avere più occasioni. C’è Woody fuori da questa porta e se hai visto Natural Born Killer, puoi immaginare cosa ci farà quando ci scoprirà!”
“Quello non è il vero Woody, è un sosia!”
“Non ci giurerei, ormai non so più quale sia la realtà e quale la finzione. Tu, per esempio, potresti essere il sosia di Knock”
“Perché mai dovrei avere un sosia e perché mai un sosia dovrebbe fingere di essere me?”
“Per ottenere qualcosa da me. Dimmi cosa vuoi!”
“Voglio il Preziosi scarti, voglio che tu esca fuori dalla società, voglio per sempre il mio nome su quell’insegna!”
“Lo sapevo, bastardo di un irlandese, mi hai portato qui e mi hai fatto una richiesta assurda nel bel mezzo del più irreparabile casino. Sei un …”
“Sei stato tu a chiedermelo! E non è una richiesta assurda, sto rischiando la vita per te”.
“Sei uno sporco irlandese ubriacone!”
“Ma se non bevo quasi nulla”.
Dicono che siamo fatti per il settantacinque per cento d’acqua: gli irlandesi invece …
“Allora sei il peggiore degl’irlandesi perché non hai neanche una scusa per i tuoi comportamenti bizzarri”:
*****
C’è una sola lingua mondiale che seppur poco usata, ci accomunerebbe tutti: il silenzio. Ciò che l’uomo fa di più grande e concreto lo fa in silenzio. Ma la piccola puttana che ho tra le braccia non smette di chiedermi cosa sia successo dopo ed io non so tenere la bocca chiusa, così le racconto di come abbiamo colpito alla testa il vero Michael sul corridoio pensando che fosse Catarina, di come lo trascinai fino alle scale e lo lasciai cadere attirando Woody, il dottor Murray e Jermaine Jackson.
“Woody?” mi chiede la mia dose di amore in pillole cercando le sue mutande in un mucchio di straccetti rosa shocking fluorescenti e tempestati di brillantini: “Era davvero così terrificante?”
L’aiuto. Le mutande sono quel piccolo spazio buio nel bagliore dei suoi vestiti.
“Tu non conosci Woody” le rispondo, “ha venduto sua moglie per una notte a un ricco miliardario di Las Vegas, è il vero inventore della pornografia: lui e una sua amica hanno ucciso un mucchio di gente in quel bar sulla Route”.
Ma lei non sembra conoscere la potenza distruttiva di quell’uomo, così la bacio per farla star zitta e la mia lingua le annega nella saliva le parole. Baciarla non mi fa schifo come pensavo.
Woody, ti strapperò gli occhi e li renderò a Will Smith!
*****
Riuscimmo a entrare nella stanza da letto, Catarina travestita da star era davvero somigliante all’originale ma la preferivo con un Betty’s Suicide tra le mani che con una parrucca in testa. La presi in braccio e scesi le scale uscendo dalla porta sul retro, corsi come se non avessi una donna in spalla, corsi come se non avessi spalle, non avessi gambe e corpo, corsi come corre il più antipatico dei venti quando vede un buffo cappello sulla testa di un uomo che va di fretta.
Sentivo nella mia testa il dialogo tra Mickey Knox e Wayne Gale in Assassini nati.
“Come fa a decidere di ammazzare un innocente?”
“Un innocente? Chi è innocente Wayne? Tu lo sei? Un sacco di gente là fuori è già morta e non lo sa, ha bisogno di essere liberata … e a questo punto arrivo io, il messaggero del destino”.
Woody, il messaggero del destino, con una pistola tra le mani stava venendo a prendermi, così dissi per la prima volta a Catarina che l’amavo, ma lo avrei detto a chiunque, perché se l’amore apre le porte del Paradiso, per la vita che avevo condotto fino ad allora avrei avuto bisogno di un Black and Decker.
Aprì gli occhi e sorrise.
“Lascia che il mio destino si compia, Shaun, te ne prego” mi disse.
“No” le risposi, “il tuo destino questa volta ha avuto una pessima idea”.
Fece per liberarsi ma aveva in corpo troppo anestetico per smaltirlo in dodici secondi di dialogo.
“Non sono le mie idee a doverti piacere, ma la convinzione con la quale le porto avanti”, mi disse.
“Non è il momento di fare poesia” risposi, “non sai quello che dici, sei fatta come una groupie degli stones”.
Odio la poesia. Quanti alberi salveremmo, quante case per i senzatetto e capanne per il terzo mondo, quant’ossigeno in più avremmo, quante meno frane sulla terraferma se i poeti smettessero di scrivere in colonna.
Arrivato a uno degli alberi secolari piantati nell’immenso giardino la posai sul selciato, al sicuro dietro una cespuglio.
Sentii un rumore, poi un barbagianni cantare, collegai il rumore all’animale e mi dissi che non era nulla. Si mossero dei ciottoli poco distanti da me.
“Chi c’è?” chiesi scioccamente.
Non avevo altra scelta che sperare che fossero quegli strani uccelli con il becco in giù e lo sguardo pensoso e serio come chi ha qualcosa da nascondere.
“Stai qui, Catarina, devo fare una cosa, poi ti prometto che mi occuperò di te”.
Non avrei mantenuto quella promessa e mi sarei tormentato per quello, la mia gastrite sarebbe peggiorata e mi sarei riempito lo stomaco di diazepam per quietarla. Avrei dovuto dirle che avrei fatto il possibile, questo dovevo dire.
La lasciai sola qualche minuto, il tempo di tornare indietro, salire la grondaia e convincere Knock a lasciar perdere il suo folle piano di tagliare una ciocca di capelli dalla testa di Michael.
“Non saranno neanche i suoi” dissi, “sono sicuramente fatti di lana merino, puoi prendere l’imbottitura di un cuscino e tingerla, è lo stesso”.
“Da domani varranno milioni di dollari” mi rispose scacciandomi con un piede come fossi un cane.
“Non esistono soldi in Paradiso amico mio, la chiesa li spende in affreschi e crocifissi prima che possano arrivare a Dio”.
Mi scalciò via la testa e mi urlò che era l’unico modo per tenere in vita Michael Jackson: “Bisogna dare alla gente una prova del suo passaggio!”
“Ce l’abbiamo già, Knock, sono tutte depositate in tribunale”.
Non avrei mai potuto convincerlo, così decisi di andarmene via senza di lui.
Tornai al cespuglio, ma avevo dimenticato di lasciarmi dietro le molliche di pane. Bisognerebbe sempre portarsi un tozzo di pane quando si fa irruzione in una villa di Los Angeles per salvare il sosia di una rockstar di successo, dovrebbe essere scritto in tutti i manuali di sopravvivenza.
“Catarina!” chiamai, ma rispose un barbagianni.
“Ti chiami Catarina, tu, stupido animale?” gridai in preda a una piccola punta d’isteria che mi tramutò di colpo in un malvagio Dottor Dolittle: “Dimmi dove l’hai nascosta o farò abbattere ogni albero della California e ti costringerò a volare fino alla morte in cerca di un punto d’appoggio.”
Sentii una voce provenire da uno dei cespugli più avanti, tutti uguali, ognuno il sosia dell’altro: ottimo giardiniere non c’era che dire.
Catarina era riversa a pancia in giù. Mia piccola Houston Baby, non si può andare lontano con tutta quella droga in corpo.
Se la metà della gente che fugge trovasse il tempo di fermarsi e voltarsi indietro, si accorgerebbe che nessuno lo sta inseguendo.
L’altra metà quasi certamente verrebbe raggiunta e con tutta probabilità acciuffata: è per questo che nessuno si ferma e si volta indietro.
Io a Caterina proseguimmo di corsa per tutta la notte. Ci fermammo nel deserto a contemplare il niente colorato con un po’ di steppa e fiori selvatici per farlo apparire più appetibile a turisti e fuggiaschi.
“E’ un sogno” sentii una voce fioca e sfiancata alle mie spalle: “Il mondo dovrebbe comprendere quanto si sta perdendo con la sua inutile rincorsa al progresso”.
Mi accesi una Marlboro e pensai a uno dei padri fondatori seduto in una latrina che mi tirava per la camicia con la forza che la tisi gli aveva concesso di tenere e che nella polvere chiedeva: “Hey, amico, che ne dici di fare a cambio?”
Con le nostre toilette lucidate che sanno di campo fiorito, le nostre medicine che curano la morte e le nostre nevrosi alla moda? Coi Coffee Shop e i caffelatte di Starbucks? Col 3D e l’alta velocità?
Diedi un calcio a quella porzione di spettacolare niente che mi circondava e dissi al mio immaginario amico moribondo di vivere il proprio tempo, così come stavo facendo io col mio.
Poi una mano mulatta mi strappò la sigaretta dalla bocca, la spense nel terriccio e avvolse la cicca in un foglio di plastica.
“Grazie per avermi salvato la vita” mi disse e mi allungò un piccolo pezzo di carta con poche righe scritte di fretta.
Iniziai a fumare a dodici anni. A tredici scatarravo già come Tom Waits.
Quando mio nonno, contadino da tre generazioni, mi scoprì, mi tolse il ciuccio di catrame e paglia che avevo in bocca e mi portò al pascolo, su una collina che annunciava le immense distese coltivate a grano come un sipario annunciava le gambe snelle delle ballerine del Cocteau.
“Questa roba ti uccide, figliolo”, mi disse: “Respira quest’aria invece, ce l’ha mandata Dio, questa ti apre i polmoni”.
Credo sia stato quello il momento in cui smisi di confidare in Dio, nell’istante esatto in cui vidi il nonno tirare su col naso e allargare il petto.
Pensavo a quale orribile creatura potesse rendere il fetore di sterco un toccasana e quell’elegante calumet per signori che rotolava in terra, la causa di laceranti malattie, a quale ignobile e indisponente divinità potesse costringere un vecchio laborioso come mio nonno a sniffare per settantacinque anni la merda delle proprie bestie considerandola una benefica esalazione mandata dal cielo.
“Puoi leggermele tu?” chiesi.
“Posso fare di meglio” rispose.
E cominciò a cantare. Non avevo mai sentito nulla di simile. La sua voce, in quel momento, mi sembrò la migliore alternativa possibile al silenzio.

“Tu non sei solo
Io sono qui con te
Sebbene tu sia lontano
Sei sempre nel mio cuore
Tu non sei solo”.

Ed io da quel momento mi sentii più solo di quanto non mi fossi mai sentito in tutta la mia vita.
Mi avvicinai e “non ti lascerò mai sola, Catarina!” dissi: “Da oggi io mi occuperò di te”.
“Mi chiamo Michael”, rispose.
Gli aggiustai un po’ la frangetta, gli lisciai i capelli e gli tirai un po’ su le guance.
Con un po’ di chirurgia e un po’ di sport …
“Benvenuta nella tua nuova vita, Catarina!” lo abbracciai.
*****
Si chiama Miriam ed è bella come qualsiasi altra donna quando sei eccitato.
Sa bene che Woody e quel suo amico anonimo vogliono uccidermi e non perché gliel’ho detto io. Hanno già ammazzato Knock. Non c’era motivo, quell’uomo meritava di vivere, vendeva escrementi di celebrità e dischi usati: aveva tutto ciò che si potesse desiderare dalla vita.
Mi spiacque parecchio di non averlo potuto salvare. Era un tipo simpatico, allegro, di bella presenza, l’unico suo difetto era che non c’aveva la fica: un difetto molto comune tra gli uomini.
Miriam mi chiede se mi sono mai sposato, dice che lei ha sempre desiderato un uomo pieno di fascino e cinismo come me.
“Non legalmente, ma la mia anima è sposata con tutte le donne del mondo”, le rispondo: “E le tradisce tutte!”
Matrimonio: che party strepitoso, che modo elegante e sfarzoso per chiudere in bellezza un grande amore.
Guarda dietro di sé a ogni auto che passa come se aspettasse qualcuno.
“Nessuna donna potrà mai superare la tua Catarina, non è così?”
Mi piacciono le donne consapevoli e sincere, ti fanno risparmiare la cena quando vuoi andare a letto con loro e le scuse quando vuoi fuggire via.
“E’ così”.
Miriam: se la conosci non puoi fare a meno di ritrovarti in ginocchio di fronte a lei.
Mentre lei è a quattro zampe.
“Non farmi male” mi chiede acconsentendo alla mia richiesta finale prima che le nostre strade si dividano.
Lei sta offrendomi qualcosa di piccolo, stretto e delicato, io qualcosa di grosso, largo e duro: basta conoscere le nozioni basilari della fisica per capire che quella è una richiesta assurda.
“Cosa vuoi che ti faccia” rispondo: “Un’anestesia locale?”
Bevo sempre un po’ di whisky dopo aver fatto sesso, dicono che amplifichi la godibilità dell’eterno.
Si tortura gli alluci sul freno a mano per qualche minuto, poi mi chiede cosa mi piaccia di Catarina.
“La sua faccia” le dico.
“Sì, ma cosa ti piace della sua faccia?” chiede ancora.
“Non è che se guardi Guernica dici che ti piace il toro, dici che ti piace Guernica. A me piace la sua faccia”.
Guardo Miriam e penso.
“A cosa pensi?” mi chiede giocando col mio pene vagabondo, tramortito e barbuto come uno straccione ubriaco che passeggia per i marciapiedi di notte.
“Penso che il tuo pappone s’incazzerà parecchio quando scoprirà di avere per le mani un altro sosia, un’altra bugia”.
Già, perché se Michael ha tanti sosia, altrettanti ne hanno i suoi sosia e sarei capace di trovare la copia esatta di ogni essere umano sulla terra, per amore o per denaro.
Lo stringe tra le mani, tira forte come Artù con la sua spada nella roccia.
“Ti paga parecchio per scoparmi?”
“Non sarebbe mai abbastanza”, risponde.
Non metterei mai il mio cazzo tra le mani del mio aguzzino a meno che non sapessi di averlo reso completamente innocuo.
Prendo la mia bottiglia d’asporto e bevo un sorso. Le dico che quelle come lei non fanno altro che rovinare il mondo.
Mi guarda come si guarda un uomo in mutande e con un cappello a punta che piscia in una tazzina di caffè al bar cantando “Chim Chim Cher-ee”.
“E tu?”, mi dice: “Tu cosa fai per migliorare il mondo?”
La guardo come si guarda un cane in bicicletta che discute di politica al telefono.
“Bevo” le rispondo, e bevo.
Woody, ti sei già preso la mia Catarina una volta, non ti permetterò di fregarmi ancora: ti ucciderò più in fretta di quanto ha fatto quel vecchio pazzo di Anton Chigurh.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
4.

 

 

 

 

La piccola sgualdrinella l’ho scopata e poi rimandata col culo largo dal suo pappone. Mentre lo facevo, Woody è entrato al Banana Chic e ha rapito Gardenia, una delle tante sosia di Michael che ho chiamato per un appuntamento.
“Ora che Michael è morto” mi ha detto Gardenia al telefono, “di colpo dici che ti servo. Beh, devi pagarmi un mucchio di soldi, sono piena così di richieste”.
Ma era solo piena così di chiacchiere visto che mi ha aspettato al locale ormai vuoto per due ore senza muoversi se non per fumare diciannove sigarette e mezza sull’uscio. Di solito le tira su fino al filtro e non lascia neanche un goccio di catrame a marcire sui marciapiedi, ma alla ventesima sigaretta Woody l’ha scambiata per il vero Michael e se l’è portata via pensando di avermela fatta. Gardenia deve avergli mostrato la fica per convincerlo a liberarla perché quando entro al Banana e mi vedo una Smith & Wesson puntata alla tempia, mi chiede dove sia il vero signor Jackson.
“Non ti arrabbiare Woody, tu offri una donna a me ed io ne offro una a te, è l’ospitalità tipica siciliana questa, non hai visto i Soprano in Tv?”
Mi spinge con un gomito mantenendo la canna dell’arma ben pressata sulla mia morbida testa e mi dice che non vuole uccidermi, ha solo bisogno di sapere dove ho nascosto Michael prima che lo trovi Escobar.
“E se ti troverà lui, amico mio, non si limiterà ad ammazzarti come un cane, prima ti farà camminare a quattro zampe, ti costringerà a mangiare croccantini e portargli le ciabatte e dopo averti castrato, allora sì, per lui sarai pronto a morire come un cane”.
Cerco un modo per guadagnare tempo, non mi sembra un tipo cattivo, almeno non più cattivo di questo fantomatico Escobar.
“Possiamo metterci d’accordo, Woody” gli dico, “sto per diventare milionario con una sensazionale scoperta”.
“Di che si tratta?” chiede, ammaliato dall’effetto che fa la parola “milionario” accanto alla parola “scoperta”.
Mi preme sulla parete. Cattiva mossa.
Lo tengo occupato con la storia della pillola magica.
“Ieri sera ho finalmente fatto la scoperta che mi farà diventare ricco. Ho inventato la pillola della salute, fa dimagrire velocemente e ti mantiene in forma”.
Ci sono dei chiodi arrugginiti sulla copertura in legno delle pareti, la muffa ha reso il muro friabile e se solo riuscissi a giocarci un po’, potrei tirarne fuori qualcuno.
“Di cosa è fatta?” chiede Woody interessato.
Tiro via mezzo chiodo senza muovermi troppo e dopo qualche secondo riesco a farlo venir via interamente.
“E’ fatta più che altro di farina, acqua e zucchero, ma va presa prima dei pasti e dopo due ore di jogging”.
E senza neanche dargli il tempo di stupirsi per il mio proverbiale ingegno, gli pianto il piccolo ferro puntuto s’una gamba procurandogli un quarto del dolore di un Cristo ma sufficiente a fargli bestemmiare il cielo e lasciare la presa. Gli assesto un calcio nelle palle e lo tiro indietro. Lui non pensa a nient’altro che ai suoi gioielli, come se in tutto quel casino, fossero la cosa più importante, anche più della sua vita.
Catarina, ogni volta che uno scienziato studia il modo per raggiungere un altro pianeta, mi chiedo se sia più una voglia di fuga che di conquista. Questo mondo marcio ha perso le lucciole: che fine hanno fatto le lucciole Houston Baby? Non so cosa ho sbagliato per finire nel mirino del mio attore preferito e dei suoi amici incravattati, ma forse il più grande sbaglio della vita è non sbagliare e credo che tutto questo mi porterà nuovamente da te, in un modo o nell’altro.
Chiedo a Woody come mai un attore del suo livello si sia prestato a quello sporco gioco.
“Ti ho detto mille volte che io sono solo un sosia” mi risponde.
Ci sono due cose che odio da morire: i bugiardi e le modelle di Calvin Klein nude e con in mano una coppa di champagne che vengono a svegliarmi ogni mattina con un bacio sulle labbra.
Woody, maledetto impostore, hai rovinato la vita a Will & Grace per una intera stagione …
Non era stato il barbagianni a rumoreggiare tutto il tempo nel giardino dei cespugli gemelli, ma era Woody. Mi aveva seguito e mi aveva portato via per sempre la mia Catarina.
“E’ stata lei a chiedermi lo scambio” mi dice, “proprio sotto i tuoi occhi”.
Ride come di solito usa ridere lui, con quella faccia di chi se ne frega della vita e della morte, di chi ha conosciuto tante vite da dover morire mille volte per poterle portare tutte a termine.
Dice: “Tu non hai idea di cosa ci sia in ballo, amico, non ne hai idea”.
Ma non lascio che aggiunga altro. Non posso permettere che qualcuno venga a sapere di me, di Michael e della vita che ho in serbo per noi. Ho un’attività da mandare avanti io … e poi c’è quella muffa nelle pareti che va tolta prima che crolli tutto durante un pienone e lasci Los Angeles vergine delle sue migliori attrazioni da circo.
Gli punto la pistola in faccia, ma prima lo tranquillizzo.
“La morte non dev’essere poi così male” gli sussurro a un orecchio: “Morire in fondo è un po’ come addormentarsi …
… in autostrada
… a centosessanta chilometri orari
… s’un tir che trasporta gasolio”.
L’ho sempre amato e forse questo è il mio ennesimo atto d’amore, perché porre fine a une leggenda vivente equivale a crearne una nuova e più duratura.
Dopo aver sparato a Woody mi sento come se avessi ammazzato Topolino. Non un topolino, ma Topolino. Ne ho ammazzati tanti di topi io, ma se avessero indossato delle braghe rosse e dei guanti bianchi, forse quelle bestie sarebbero ancora vive a giocherellare sul mio bancone. Ed io avrei la peste.
Tiro fuori dalla giacca del mio esanime amico un distintivo: Agente Topolino, c’è scritto, e c’è la faccia di Woody con un grosso paio di orecchie sullo sfondo del magnifico castello della bella addormentata a Disneyland.
Il mio stomaco s’è svegliato, comincia a martoriarmi di domande: perché diavolo ha una sua foto con le orecchie da topo? Cosa si fa di un cadavere a quest’ora del giorno? E’ tutto qui Shaun, è questa la tua vendetta?
Le campane della chiesa avvertono i fedeli di fare in fretta, che Dio sta per andare in scena. Decido di ascoltare le mie argute viscere in ordine e cerco di trovare risposta alla prima domanda.
Così chiamo Miss Lilly Princess, quella splendida bionda sulla 5th, e le chiedo se può sistemarmi la faccenda.
Mi risponde sorpresa e felice, mi dice: “Sono calda che non immagini”.
“Bevi tanta acqua e stai sotto le coperte”, le rispondo: “Dobbiamo smaltire almeno settantacinque chili di carne”.
Ansima, ha il fiato corto e più balbetta il mio nome più capisco che ha un gran bisogno che io corra da lei.
Quieta i bollenti spiriti e li mette a mollo nel ghiaccio per qualche secondo: “Non te lo sto chiedendo, Shaun, tu hai un problema da risolvere e anch’io ne ho uno”.
E’ il tipico comportamento di una donna di quell’età al primo cambio di stagione, ma è un buon prezzo per un servizio di smaltimento.
Miss Lilly Princess è una famosa cantante jazz, suonava anche piuttosto bene quand’era ancora una teenager, ma dopo un incidente le dovettero amputare due dita della mano destra. Gliene rimasero abbastanza per contare quante dita avesse, ma non per suonare il piano nei club di Los Angeles. La sua attività principale a Los Angeles è quella dello smaltimento rifiuti per i Gambino, gli amici che proteggono la mia baracca per una parte dei profitti delle serate importanti.
“Servono per le arance, ai nostri parenti in carcere piacciono le arance e noi raccogliamo i soldi perché non manchi loro la vitamina c”, mi hanno detto.
Le carceri sono piene di spifferi, troppo spazio tra una sbarra e un’altra e il governo americano investe troppo nelle guerre nei paesi arabi e troppo poco nell’aria condizionata nei penitenziari.
I servizi di Miss Lilly sono compresi nel prezzo, quelli di smaltimento intendo.
“Ho cambiato casa”, mi dice, “e non conosco nessuno in zona”.
Una donna mutilata, storpia o ammalata può spesso sembrare goffa, ma sa più della vita di qualsiasi altra donna. L’ignoranza, la codardia e la stupidità sono un batterio maligno che spesso alberga nella buona salute ed è un bene per alcuni liberarsene. A volte quel batterio si accasa nelle arterie del cuore o mette su famiglia nello stomaco e sfrattarlo vuol dire morire, ma i più fortunati, come Miss Lilly Princess, se lo ritrovano spesso in una gamba, in un occhio o in paio di falangi e restano al mondo, ma da persone migliori.
“Vive sulla 5th?” le chiedo.
Lei sembra essersi sciolta.
“Da quando Frank mi ha lasciata vivo sulla 7th, sono da sola e ho …”
La fermo, le dico di non andare oltre che ho capito e che …
“Sarò subito da lei”.
E così ci diamo appuntamento di fronte alla vetrina appena lucidata e pronta per la giornata del Singapore Strip. Vesto Woody con un paio di eleganti sacchi di plastica, lo metto nel bagagliaio e faccio strada.
Lei è vestita a malapena. Le chiedo se posso offrirle qualcosa da bere, ma mi risponde che non le va di perdere altro tempo, mi tira per un braccio e m’invita a salire a casa sua.
Io ho il mio pacco con me, pesa ma a tirarlo riesco a fare la rampa di scale senza troppa fatica.
“Lascialo lì” mi dice Miss Lilly, “lo farò a pezzetti più tardi, c’è stato un altro ospite ieri notte e devo ancora confezionarlo”.
Entriamo nella sua stanza e trovo dei drink sul tavolo, per lo più cocktail alla frutta a base di volgare vodka, ma che con un po’ di ghiaccio si bevono che è un piacere, perciò la signora è disinibita abbastanza da togliersi le scarpe e gettarsi sul letto. L’atmosfera si era surriscaldata parecchio già prima che entrassi.
Miss Lilly Princess è lucidata dal proprio sudore come una Mustang appena uscita dal concessionario. Non ho idea di con chi sia stata prima di chiamarmi, ma non m’importa poi tanto, ci tornerà presto non appena uscirò da lì.
Non è male per l’età che ha, manca qualche pezzo ma per il resto, ciò che conta è lì dove deve trovarsi. Una volta finito la guardo per compiacermi del suo appagamento.
Chiude gli occhi, distende il viso, sorride e mi dice:
“E’ fantastico, Shaun, sei un Dio”.
“Già”, rispondo, “è un vecchio condizionatore del ’93, ma sa che le dico, non ho mai incontrato macchine migliori di queste”.
“E’ da tanto che ripari impianti, Shaun?”
“Lo facevo un tempo, Miss Lilly. Mio padre era un generale dell’esercito dalla disciplina ferrea, per lui dovevo partecipare alle spese di famiglia lavorando, così finita la scuola mi davo da fare con i condizionatori e altri piccoli lavori per i vicini. Ne ho incontrati parecchi di questi affari.”
“Come mai proprio questo mestiere? Non potevi falciare l’erba nei loro giardini?”.
“Avevo bisogno di molti soldi e i prati non fruttavano tanto. Mi piaceva entrare nelle case della gente, molti mi offrivano una merendina e mi parlavano della loro vita, mi raccontavano delle storie”.
Mi si avvicina parecchio, tanto d’accarezzarmi il collo con quel che rimane della sua mano.
“E tu vuoi che ti racconti una storia e che ti offra un Southern lime and orange, Shaun, o vuoi scoparmi?”
Mi strizza l’occhio e sorride al mio sorriso:
“Credo che lei, Miss Lilly, mi conosca abbastanza per sapere già la risposta”.
Ho un nodo allo stomaco e uno alla gola che sembra che abbia ingoiato un boyscout. Sorseggio il mio drink e per godermelo meglio mi fermo da Billy Vanilla giù al Singapore.
Quello, senza troppo tirarla per le lunghe mi chiede:
“Sei stato da lei, Giancana?”
“Non fare domande stupide, mi hai visto uscire appena adesso dalla porta d’ingresso.”
E’ innervosito da qualcosa, si sistema la cravatta come se gli si stesse stringendo al collo.
“Allora? Scopa da Dea come si dice in giro?”
“Non so” rispondo sorseggiando la vita condensata e invecchiata che c’è dentro a un whisky.
Mi si scaglia contro e mi afferra per la bretella facendomi rimbalzare come un yo-yo.
“Non fare il furbo”, mi sputa addosso gocce d’odio, alcol e saliva in eccedenza: “Io possiedo uno dei migliori locali della città, sono pieno di soldi e vesto da Moncler ma non sono mai riuscito neanche a toccarla, Miss Princess: e tu vuoi convincermi che un misero idiota mal vestito che guida una compagnia d’imbecilli mascherati è riuscito ad andarci a letto?”
Cerco di non far cadere il Southern dove non potrei leccarlo.
“Perché no” rispondo senza troppo scompormi: “In fondo il principe azzurro s’è scopato tutte le principesse delle fiabe e andava in giro in calzamaglia!”
Torno al Banana Chic e busso alla porta di Michael.
“Catarina” chiamo prima di entrare.
Ma con del nastro adesivo sulla bocca e legata come un vitellino non può rispondermi, lo faccio solo per educazione.
Quando la libero mi urla che sono uno stronzo, che non si lascia qualcuno legato per tutto quel tempo, dice che mi odia, che non può andare avanti così, che sono come tutti gli altri e … che lui si chiama Michael, non Catarina.
“Non chiamarmi più quel nome” dice.
“E tu non comportarti come lei” rispondo.
Non ribatte, respira profondamente e cerca di calmarsi. Potrebbe fuggire se usasse l’ingegno, potrebbe rivelare la sua identità, potrebbe chiamare gli sbirri, potrebbe farlo, ma nonostante tutto sa bene che fuori qualcuno lo vuole morto, non c’è persona al mondo di cui potrebbe fidarsi eccetto me.
Io non pretendo poi tanto, solo che rassodi un po’ quei glutei e che porti i tacchi con più disinvoltura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5.

 

 

 

 
Mio padre era un ex generale dell’esercito addestrato a mentire, a shakerare le teste dei combattenti di Kabul per far sputare loro quanto possibile sulle milizie irachene. Era in pensione perché la guerra gli aveva causato strani sogni, riusciva a dormire solo con l’aiuto delle sue pillole.
Era un peso, era ingombrante nel fisico e nella personalità, ma lo rispettavamo perché aveva compiuto il proprio dovere senza richiedere alcun diritto in cambio se non quello di rimanere seduto a guardare il camino e continuare a chiamarsi Francesco.
Era emigrato nella città degli angeli dalla Sicilia quando aveva ancora nove anni, ma aveva mantenuto quel temperamento austero e cinico di alcuni siciliani di scoglio.
Quand’ero piccolo un giorno mi portò a La Mirada e puntando col dito una delle signorine sulla strada mi disse “Shaun”, così mi chiamavo e mi chiamo ancora, “oggi imparerai a trattare con le donne”.
“Quanto?”, gridò dal finestrino e la ragazza bianca con la gonna a tubo rispose: “Cinque carte”.
“Con quel culo posso darti quello che vuoi ma devi chiamarmi amore”.
E quella gli rise dietro e disse: “Va bene, cucciolotto”.
Lui non si fermò, piuttosto urlò “hey tu” a una quarta abbondante di Tijuana: “Quanto, mammina?”
“Quaranta per te, papino”.
“Te ne do trenta a tetta, se li meritano tutti, ma devi anche chiamarmi amore”.
“Non pensarci neanche”.
Fermò l’auto di colpo e scese.
Mi lasciò ad aspettare in macchina e quando tornò dalla sua gita in Messico m’intimò di non dire nulla a nessuno altrimenti avrei indossato una gonna, mi avrebbe cambiato il nome in Shoanna e mi sarei guadagnato da vivere facendo marchette per dieci dollari.
Tornammo a casa, mia madre lo salutò mostrandogli la pianta della mano e chiedendogli venti carte grosse per andare al bridge.
Lui non disse una parola, si sedette e tirò fuori un mazzo accartocciato.
“Grazie amore” disse la mamma.
E così imparai come trattare le donne.
“Se nella vita vuoi davvero risparmiare con le donne” mi disse mio padre, “mai prendere a bordo una puttana che ti chiama amore”.
Il generale mi dette questo cazzuto nome americano per farmi scordare le mie origini, diceva che la Sicilia era come un Van Gogh, bella da guardare se la guardi da lontano. Ma non puoi chiamarti Giancana, fartela coi Gambino e pretendere che la gente smetta di chiamarti “picciotto”. Nonostante fosse entrato nell’esercito e svolgesse quasi impeccabilmente il proprio lavoro, lui Frank Gambino lo amava e Frank amava lui, ma non voleva che facessi stronzate, non voleva che mi guadagnassi da vivere imbracciando un’arma, sia che giocassi coi buoni, sia che giocassi coi cattivi. Così un Natale mi portò da Silver&Gold, un vecchio negozio di strumenti a Glendale. Fosse stato per me non sarei entrato in quel posto neanche se fossero piovuti cocci di vetro, ma il generale mi forzò spingendomi con un dito dal marciapiede, attraverso la porta, fino alla stanza dei pianoforti.
Disse: “Devi avere una qualche cazzo di dote nella vita, perché i bambini come te la società non vuole vederli in strada, ma in galera, in un manicomio o sopra un palcoscenico”.
Mi chiese di sedere e rimase a braccia, pensieri e sopracciglia conserte aspettando che da un momento all’altro suonassi come Sugar Chile Robinson.
“Picchia quel piano se proprio ti va di picchiare qualcuno, immagina che sia la persona che più odi al mondo”.
Compresi quasi subito che sarebbe stato più facile picchiare un piano pensando che fosse mio padre che picchiare mio padre pensando che fosse un piano, almeno fin quando le sue ossa non si fossero fatte più tenere e le mie più doppie e forti.
Bisogna avere qualcosa da odiare se si vuole davvero suonare il blues, bisogna desiderare di scoparsi qualcosa se si vuole arrivare alle viscere degli altri passando per le orecchie.
Ed io da quel giorno non ho mai smesso di suonare per mio padre e per tutte le donne del mondo.
Il mio unico obiettivo era quello di dimostrargli che sapevo fare di meglio e non importava che fosse morto qualche anno dopo, perché era come se il generale si fosse reincarnato in tutti gli sguardi inquisitori dell’umanità.
Iniziai come tutti, cantando per le chiese del posto, ma la mia famiglia era cattolica e l’unica passione che la musica cattolica conosceva riguardava il dolore, la pena, il tormento. La chiesa protestante invece, loro sì che Dio l’avevano capito, si liberavano dei loro pesi con appassionati gospel, sembravano volerselo scopare quel cristo in croce. Ma non potevo che mettermi in un angolo e ascoltare, nascosto, senza partecipare. Se mio padre fosse venuto a sapere delle mie scappate tra quei negri senza pudore cristiano, mi avrebbe costretto a sottostare a una delle sue imbarazzanti torture.
Alla Grace Community Church c’erano un gruppo di suore con una voce così potente da far tremare le mura delle chiese cattoliche adiacenti. Credevo che un giorno le avrebbero abbattute tutte con uno dei loro spiritual.
Tutti le chiamavano sorelle Sheppard, ma non erano sorelle e neanche si chiamavano Sheppard. Una di loro un giorno si staccò dal coro e mi disse di pregare con lei.
“A me non interessano queste cose su Dio, signorina, a me interessa la musica” le dissi.
“E cosa credi che sia Dio?” rispose.
Si chiamava Keira. Da quel giorno non smise mai di provare a portarmi con lei, senza però mai riuscirci.
Avevo bisogno di un trampolino di lancio e c’era solo una donna in città che conosceva l’ambiente e che fosse alla mia portata. Io ero piuttosto belloccio, un ottimo nuotatore oltre che eccellente suonatore e intrattenitore, sapevo che non mi avrebbe mai rifiutato.
Io e Betty Collins avevamo una storia terribilmente complicata. Vivevamo molto lontani l’uno dall’altra, suo padre era ricco, io venivo da una famiglia povera, lei amava quel rozzo country contadino, io avevo un amore viscerale per il blues, lei amava girare il mondo, io ero convinto che se il mondo girava da solo da milioni di anni, ci doveva pur essere un motivo.
Poi, ovvio, c’era anche il fatto che non ci conoscevamo neanche, che è uno delle cause principali per cui molte storie non vanno avanti.
Fuori dal cinema la fermai e le dissi che lei era la ragazza con gli occhi più belli che avessi mai visto.
“A giudicare da cosa stai guardando adesso”, rispose, “non credo che tu ne abbia visti tanti”.
Non era colpa mia, c’ho la cifosi cervicale, ma non poteva saperlo.
“Dì un po’” mi chiese, “ti piace il country?”
“Ovvio” mentii, “io amo quelle stupide zotiche ballate per trogloditi illetterati”.
“Bene” sorrise, “c’è un concerto di Zio Buck and the Chickens al Texarcana Factory stasera”.
Passai a prenderla a casa la sera e assieme ci dirigemmo verso la ventinovesima, a piedi, era a pochi metri.
“Allora, cosa fai nella vita?” domandò interessata.
Cercai d’infinocchiarmela pensando che se le avessi detto che suonavo il blues forse non mi avrebbe mai più rivolto la parola.
“Suono il country, lo trovo … umh, io adoro quei due accordi arpeggiati che ti permettono di suonare migliaia di becere canzoni senza dover conoscere un briciolo di tecnica”.
“E prima di suonare, cosa facevi?”
“Donavo il seme. Brutta storia. Stavano per beccarmi ma riuscii a farla franca!”
“Perché mai? E’ una cosa assolutamente legale!”
“No, non quando non te lo hanno chiesto.”
Fuori dal Texarcana Factory due ubriaconi senza stile ballavano dei balli senza stile battendo i tacchi delle loro lerce Lumberjack.
Ne spinsi via uno e aprii la porta alla mia splendida Betty che mi ringraziò.
“Sei davvero cortese, oltre che simpatico”.
“Grazie”, risposi, “è una delle poche cose che quella povera anima di mio nonno mi ha insegnato nella vita”.
“Doveva essere un gentiluomo”, domandò senza punto interrogativo.
“No, era portiere di notte al Diamond Hotel. Brutta paga, ma gran bella gente!”
Sorrise, aveva un bel sorriso, sembrava una di quelle dame che negli anni cinquanta sponsorizzavano bevande alla frutta nei cartelloni pubblicitari per le strade.
“Avresti dovuto fare il comico” disse.
“Ho provato anche quello” risposi, “una star dev’essere poliedrica, deve conoscere i tempi di ogni arte al mondo”.
“Ti sei esibito da qualche parte qui a Los Angeles?”
Il mio primo monologo comico lo feci a Pico Rivera.
Me ne stavo seduto ad ascoltare come tutti gli altri quando d’un tratto mi chiamarono al microfono e mi dissero: “Tu, vieni fratello, coraggio, c’è posto per tutti quassù.”
Ero spaventatissimo, non avevo mai calcato la scena prima d’allora, ma accettai l’invito. Così salii, salutai il pubblico e iniziai:
“Sapete quella sensazione che si prova quando avete una carota su per il culo e le mollette che avete nelle palle si attaccano ai peli del cazzo facendovi scoreggiare?”
Ci fu un imbarazzato silenzio in sala.
Fu’ lì che imparai i tempi comici: mai iniziare lo spettacolo con argomenti pesanti … specie subito dopo l’eucaristia.
“Prima di esibirmi suonando uno di quegli strumenti ricavati dagli scarti di maiale e dagli zoccoli delle vacche che noi suonatori country amiamo usare per esprimere la nostra incantevole e scriteriata arte” rispondo a Betty tutto d’un tiro, “recitavo qualche battuta per scaldare il pubblico. Niente di che, giusto un po’ di umorismo all’inglese”.
“Del tipo?”
“Lo sai perché Pinocchio non c’aveva il cazzo?”
“Perché?”
“Si faceva le seghe!”
Mi mollò uno schiaffo leggero, fece il gesto, nient’altro, mi disse che quello non era il modo di parlare a una signora.
Così’ decisi di parlarle come meritava una donna del suo calibro.
Le dissi che l’amavo, le dissi che stare con lei mi faceva sentire bene e che era la prima volta che sentivo quella sensazione, avevo creduto di sentirla in passato, ma adesso capivo che era stata solo un’illusione. Le dissi che lei era in grado di cambiarmi, di farmi sentire migliore o meglio, di farmi notare i miei limiti così da poterli superare e abbattere finalmente le barriere che mi avevano impedito di vivere come ogni uomo dovrebbe vivere: allucinato d’amore per la sua donna. Le dissi che non avrei voluto essere da nessun’altra parte, che nessun’altra donna riusciva a interessarmi come m’interessava lei e … tutta quell’altra roba che noi uomini diciamo quando vogliamo farci una scopata e prenotarne almeno un’altra per la settimana dopo.
L’amore, che cosa fantastica. Nel senso che nella fantasia nasce e nella fantasia alberga, dura fino a quando rimaniamo puri e capaci di sognare e muore, se muore, nel cinismo.
Così decise che avrei potuto suonare per dei suoi amici, tanto per iniziare. Non mi sentivo pulito a illudere una donna del suo calibro per raggiungere i miei scopi, ma Robert Johnson ha venduto la sua anima al diavolo per la musica, illudere una donna in confronto era come andare a messa.
Io e Betty Collins durammo il tempo di qualche serata fuori e di qualche concerto dei Crazy Pig, dei Fat Cow e dei Roosters Lovers, poi ci lasciammo.
Pianse quando le dissi che non volevo più scoparmela.
“Puoi sempre invitarmi a cena, se vuoi, non dobbiamo per forza scopare!”
“Non so se è legale, insomma, credo che sia da deviati invitare una donna a uscire e non scoparsela!”
“E’ legale invece, ti dico”
“No, io credo di no.”
“Invece ti dico che è legale!”
Ma io ne ero convinto: quella cosa della cena senza scopata può farti finire in manette.
Lei si trovò finalmente uno a posto, un nobile olandese di nome Würth, che tu non sapevi mai se stava ruttando o stava presentandosi: molta gente stringendogli la mano rispondeva con un “salute” invece che col solito “piacere”.
Würth era un vero gentiluomo, non come mio nonno che lo faceva per soldi. Lui apriva la porta a Betty, le cedeva il passo, le porgeva la sedia, metteva il tovagliolo sulle ginocchia e le faceva il baciamano.
Chissà perché i ricchi fanno tutte quelle cose che un povero trova terribilmente noiose.
Pensavo spesso a come si sarebbe sentito Würth in una di quelle case giapponesi senza porte. Avrebbe dato di matto, ne sono convinto. Avrebbe cominciato ad anticipare Betty in tutti i suoi gesti, le avrebbe aperto le scatole dei biscotti, le ante dell’armadio. Se si fosse trovato con una donna di fronte a una porta già aperta avrebbe girato in tondo come un autistico.
Però a tutti servirebbe un apritore di porte professionista, può farti risparmiare un sacco di tempo, specie se svaligi appartamenti di mestiere.
A conoscerlo prima, Würth …
Io glielo dissi a Betty: “Guarda che quello è un po’ troppo servizievole, non mi convince. Secondo me cerca qualcos’altro.”
Ma lei si alzò dal tavolo e: “Würth”.
“Salute”.
“No, dicevo … Würth non ha nessun secondo fine, non è come te!”
Ma come al solito avevo ragione io e il gentiluomo olandese la portò fuori, s‘inginocchiò, le porse un cofanetto e le chiese di aprirlo. Gli tremavano le mani, era tentato di aprirlo lui, ma trovò la forza e rimase perfettamente immobile.
Tutta eccitata Betty finì il suo champagne e mise la mano sul cuore.
“Oh Würth!”
“Salute.”
“No, dicevo … oh Würth, non so che dire, sono estasiata!”
Prese il cofanetto, lo aprì e dentro ci trovò una chiave.
“Tu, Betty” le disse il gentiluomo, “sei l’unica che abbia mai aperto una porta per me, la porta più importante, quella del mio cuore”.
Lo so, lo so che state vomitando l’anima, vi capisco, lo so bene, ma vi assicuro che questa è l’unica cosa romantica nella storia tra me e Betty Collins ed io, come sempre, non ne sono il protagonista, anche se occupo per esteso la maggior parte di una favola che non mi appartiene.
Per me la vita è un locale hard, un concerto blues, una “Casa del sole nascente”, non una capanna sull’albero.
Lasciata la Collins continuavo a farmi bello sui palchi speranzoso di poter suonare un giorno come Sugar Chile nei locali americani, viaggiando in aereo privato tra un palazzetto e un altro. La sera giravo per le strade ubriaco nella terra che più delle altre era stata capace di mostrare al mondo che i sogni si possono anche mangiare, se hai fame. Ero appena entrato in un locale sotterraneo dove la gente bianca si mischiava con quella nera come se la musica fosse di tutti, come se la notte fosse di tutti, ma gli occhi del gestore e i suoi sorrisi con gli amici al bancone lasciavano intendere che no, lì la musica e la notte erano roba per neri. Ma anche i bianchi, in fondo, se pagavano …
Con la faccia scavata come quella di un contadino ungherese raccontai qualche storia al mio nuovo amico nero con gli occhi fuori dalle orbite per le troppe birre, gli parlai del generale e del mio progetto di diventare famoso.
Ma quello non aveva la minima idea di cosa gli stessi dicendo, agitava la testa e rise al suono dell’armonica. Mi alzai, ballai e mi lasciai trasportare, poche canzoni ed era già tutto finito.
Mi avvicinai al palco, strinsi la mano al cantante e gli dissi che gente come lui avrebbe dovuto essere famosa e suonare al Madison Square Garden, non in quelle caratteristiche bettole, che al Madison c’avevo visto un concerto dei Phish giorni prima e loro suonavano meglio dei Phish. La donna più bella che mi abbia mai preso per il culo, mi guardò e rise come se volesse portarmi a letto … rimboccarmi le coperte, darmi un tonico per farmi passare la sbornia e andarsene a casa sua a farsi scopare con il suo amante bello, laureato e multimilionario.
Chiesi loro di suonare qualcosa, feci vedere come barcollando e fingendo di tenere una magica stratocaster.
Il tipo trasandato che cantava con la voce di Johnny Cash canzoni che Cash avrebbe odiato mi disse: “Suona tu qualcosa, il palco è tuo se vuoi”.
Era ancora pieno così di gente, io non riuscivo a distinguere la prima corda dalla sesta, ma avevo la musica in mente e poi ultimamente componevo brani facili per sfondare nel mondo della mediomusic.
Mi sedetti e suonai la mia “Morning Catz”, orecchiabile e senza troppe pretese tra gli “yeah” del pubblico e del gruppo che era rimasto ad ascoltarmi e a sistemarmi i volumi.
Non avevo mai visto una puntata dei Soprano, perché nelle storie di mafia ci marcivo da quando ero un mignolo d’uomo. Ero a Malibu per incontrare una mia vecchia fiamma e stavo sbattendo i piedi sull’uscio perché un cavallo da cocchio aveva deciso di cagare s’una zebra che avevo attraversato sulla Bluewater road per tornarmene in Hotel, sull’altro lato del marciapiede.
Mtv stava trasmettendo il video della colonna sonora della serie e la receptionist ballava divertita e ammaliata da quella seducente musica che io conoscevo bene.
Sfumò il video e sotto lessi “Alabama 3”.
Era passato un anno e io avevo scoperto di avere stretto la mano a un certo Rob Spragg dicendogli che gente come lui non avrebbe dovuto suonare negli stessi locali in cui suonavano i Beach Boys. Zoe Devlin mi aveva regalato la sua compassione. Erano inglesi, non avevano nulla a che vedere con l’America, ma l’avevano conquistata con una mia creazione, avevano avuto la formidabile idea di mettermela al culo in quel modo e avevano intitolato la mia splendida “Morning Catz”: Woke up in the morning.
Per giorni smisi di suonare, mi mangiai lo stomaco cercando un modo per riprendermi ciò che era mio, ma non avevo nulla che dimostrasse la paternità di quella canzone. Non mi restava altro da fare che prendere il telefono e chiamare.
Frank Gambino raccontava sempre la storia di Anton Serrano, la raccontava da anni lo fa ancora: ride sempre come se l’ascoltasse per la prima volta.
“Anton!”, gli dice il gangster, “parliamone”.
Tony gli spara.
“Hey amico, non c’è niente di meglio delle parole per mettere a posto le cose, non fare così”, ma sbam, sbam, Tony lo fredda con due piombi.
“Allora ragazzo, dimmi quello che vuoi, ascolterò ogni tua richiesta, ma ti prego non spararmi” e sbemsbemsbem, fuori il terzo.
Frank si piegava in due, la storia di Anton il muto era uno dei suoi pezzi migliori, con tutti quegli effetti speciali stile agente Jones di scuola di polizia.
Ero molto attaccato alla mia vita, ma come una mosca alla tela di un ragno. Frank questo lo sapeva, lo aveva visto nei miei occhi, nelle mie pupille avide di luce anche di giorno.
“Non pensare a quella stupida canzone, ragazzo, non si ammazza un personaggio famoso per una canzone. Dovresti smettere di rincorrere i tuoi sogni e guardare quanto è bella la realtà. Guarda questo posto, cade a pezzi e neanche tu sei messo bene.”
Diede un pugno sul muro e fece venir via un pezzo d’intonaco.
“Ho un progetto, ma aspetto il momento giusto”.
Si agitò come un Manhattan se vuoi che il vermouth ammorbidisca il whisky e mi disse che la cautela non è per gli eroi.
“Sei tu a scegliere se un momento è giusto o sbagliato” disse: “Il momento giusto è solo una nostra convinzione”.
L’alcol dimostrò, tramite la mia quiete, il suo amore malato per il mio sangue: è un legame perfetto, un idillio romanzesco che terminerebbe nella disperazione, nella morte e nella follia se solo venisse spezzato.
“Un solo momento giusto”, disse Frank: “Non vale affatto la perdita di migliaia di momenti sbagliati”.
Presto o tardi avrei creato il Banana Chic, avrei fatto soldi scimmiottando le star, ma prima mi serviva la testa di Rob Spragg.
“Lo sai che poi rimarrai legato a noi per tutta la vita, ragazzo? Lo sai questo? Cosa penserebbe tuo padre?”, disse Frank.
“Sì che lo so!”.
I Gambino non imponevano nulla a nessuno, la loro era un’agenzia di servizi e se ne avevi bisogno loro c’erano, non rifiutavano nessun cliente. Non si servivano della legge per le mancate riscossioni, ma per il resto sembravano essere del tutto legali. Offrire protezione in cambio di denaro è quello che fanno i governi.
Frank mi chiamò un giorno, mi disse che l’amico mio era uscito da un localino ubriaco, se n’era andato in spiaggia con delle amichette e aveva pensato bene di fare il bagno.
Rob Spragg era annegato qualche giorno prima, morto accidentalmente come tutte le vittime dei Gambino.
“E com’è che io sto guardandolo in TV adesso?”
“Sarà registrato”.
“C’è scritto Live”
“Ti sbagli ragazzo, dovrebbe esserci scritto Dead”.
“Hanno appena suonato al Madison di New York!”
“E sarà una minchia di sosia, vuoi mettere per caso in dubbio la mia parola?”
Avevo dubitato di Frank Gambino anche se la sua parola valeva più di una Bibbia, poi Knock non mi ha detto quell’affare dei sosia.
Uccidere una star è impossibile, a meno che non lo vogliano le major.
Knock o uno che gli somiglia è appena entrato dalla porta d’ingresso.
Gli dico: “Cristo Dio, Knock, sei tu? Pensavo fossi morto.”
Si volta e mi risponde come niente fosse: “Lo sono”.
L’Universo si è mostrato finalmente chiaro come mai prima e per una frattura temporale o uno scherzo del divino, il confine tra eterno e terreno si è sfaldato di fronte a me, novello veggente inconsapevole nel vortice dell’ignoto.
“Lo sei? Sei morto?”
“No, idiota, lo sono, sono Knock.”
Poi si accascia al suolo, proprio laddove Woody ci ha lasciato l’anima.

 

 

 

 

 

 

 

 

6.

 

 

 

 
Un gruppo di ricercatori dell’università dell’Iowa ha scoperto che parlare poco rallenta il processo d’invecchiamento e migliora l’assorbimento dei grassi. Non è vero, ma se lo direte alla vostra donna durante la partita, lei smetterà di parlare a vanvera per qualche ora. Ed è giustappunto quest’ultima, la reale scoperta dei ricercatori.
Michael ha cominciato a comportarsi da vera donna, è diventato invidioso, possessivo, protettivo, logorroico come mai nella sua vita da rockstar.
“Non hai sentito cosa ha detto Woody? E’ un tipo pericoloso”.
“Anche Woody lo era, ma hai visto come l’ho fatto fuori?”
Mimo passo per passo un omicidio da Oscar, io con le spalle al muro, io che gli ficco il chiodo in una gamba e … insomma, il resto lo sapete. Ma la mia nuova Catarina ha il tremore alle ginocchia, crede che Escobar la troverà, non posso uccidere tutti quanti, non con i chiodi almeno, non ce n’è abbastanza al Banana.
Cristo Dio, questa baracca cadrà a pezzi se non mi deciderò a sistemarla come si deve.
Knock è rimasto nascosto per quasi quattro giorni dentro una crepa sul muro della stalla della residenza Jackson senza né bere né mangiare, lui è uno che non ci tira tanto per il cibo, non dev’essere stato un dramma, ma senza l’acqua, dannata droga che accomuna ogni essere sulla terra, si è ridotto uno straccio e adesso caca duro e sembra aver perso vent’anni di vita.
Non aveva preso nessuna ciocca di capelli, nessun oggetto o brandello umano da feticista malato qual è, ma un taccuino dalla tasca di Will Ferrell.
Ecco a chi somigliava quell’altro, a Will “Ron Burgundy” Ferrell.
“Lo chiamavano Pluto” mi dice Knock senza ridere neanche un po’ di quel nome bizzarro, io invece una risatina me la faccio, una cosa leggera, non voglio spezzargli il ritmo.
“Dirigeva tutti come un vero professionista, sapeva quel che faceva, ma viveva nell’ombra di …”.
“Topolino”.
Gli mostro la foto di Woody con le orecchie da topo e mi vanto di aver ucciso il mostro.
“Non hai ucciso nessun mostro, Shaun, Woody non era uno di loro”.
Sono il nuovo Mark Chapman del cinema. Non avevo mai preso sul serio la scritta Kill your idols nella mia maglietta prima di adesso. Sento il mio stomaco aggrovigliarsi al fegato, ho voglia di vomitare, l’aria s’è fatta pesante nei miei polmoni e tra pochi secondi diventerò pallido e sverrò.
Siamo tutti delle comparse nella vita delle star, insignificanti figuranti che adornano le scene di chi ha un progetto più grande a questo mondo, ma a volte alcuni tra noi si ribellano e scelgono d’impadronirsi del palcoscenico senza meritarlo.
Woody, perdonami, come potevo sapere. Se avessi somigliato più a Pirulon di Austin Powers che allo scoppiato Ernie Luckman forse ti avrei lasciato andare, ma ti ostinavi sempre a fare la parte del duro fuori di testa. E’ stata solo colpa tua, hai tirato fuori il tuo lato peggiore, in fondo sappiamo tutti che avevi un cuore d’oro.

*****
Downtown. Ho avuto i miei venti minuti di pace: ma cos’è la pace se non una breve pausa tra una guerra e un’altra?
Ho appena mangiato hamburger e patatine e qualcosa, ingerendo, deve aver perso la strada infilandosi in un polmone.
Si dice che Eleonore Lucy Taylor scopi da Dio ed è per questo che busso alla porta di fronte con tanta energia.
“Cerco Eleonore, è una puttana di colore che presta servizio qui intorno”.
Il prete si mette una mano alla fronte e risponde che: “Questa è la casa di Dio, figliolo”.
Mi hanno detto la stessa cosa il rabbino e l’ayatollah prima di lui: o Dio è un ricco impresario immobiliare o qualcuno sta cercando di fottermi. Gli chiedo se sa qualcosa riguardo a una certa Lucy, è questo il suo nome d’arte da troia di Cow Street.
“Chi vuole saperlo?”
“FBI” dico e tiro fuori la carta sconto del fast food.
“Quello non è un distintivo!” mi urla l’uomo o quel che ne è rimasto dopo i voti, con la voce strozzata dalla timidezza.
Metto il broncio come un vero duro e ripongo il bigliettino come fosse una mostrina reale: “Sì che lo è e adesso lei sa tutta la verità sull’agenzia governativa Mc Donalds. Le rimangono due possibilità: dirmi quello che sa su Lucy o seguirmi nelle cucine del quartier generale qui di fronte”.
Indica col dito un vecchio locale, di quelli dove di solito andrei a cercare le puttane se solo non fossi così impegnato con il mio ruolo da detective. E un detective prima di trovare cerca, se trova senza cercare si potrebbe dire che ha culo e basta.
“Il suo nome?” mi chiede il vecchio timoroso di Dio ma abile conoscitore di prostitute.
“Caesar Mac Flurry”, dico: “Ma tutti mi chiamano Big Mac. Chieda di me se ha bisogno e non si dimentichi di farsi dare il ketchup in omaggio. Tentano sempre di fotterti, sa com’è fatto il governo.”
Ancora Downtown, dieci minuti dopo. Il locale si chiama Bar. Nome insolito per un bar da queste parti.
Lucy mi aspetta o aspetta chiunque le voglia parlare.
Mi spingo a stento fino al suo tavolo, mi siedo e perfino lo stare seduto mi stanca.
“Allora, Lucy, come stai?” le chiedo.
Mi offre una sigaretta, ne tiro fuori una giusto un centimetro per ricordare cosa si prova.
“Accenditene una”.
“No, ho smesso”.
“Se vuoi te l’accendo io allora”.
“No, ho smesso di fumarle, non di accenderle”.
Incendia la Marlboro che ho messo fuori posto e prima della boccata sbocca: “Lavoro dodici ore al giorno, il mio capo mi sfrutta, i clienti m’insultano, mio marito mi picchia e mi violenta ogni santo giorno. La sera quando vado a dormire penso sempre a come farla finita.”
“Beata te che riesci a dormire”, rispondo e scaccio il fumo col palmo a Gesù Cristo: “Io sono tre giorni che non chiudo occhio!”
Ordino il mio drink, l’unico che vale la pena d’essere bevuto e chiedo di dirmi qualcosa di un certo Escobar, individuo pericoloso quanto misterioso e che non ho la minima idea di come sia fatto.
Esco fuori il taccuino che Knock ha fregato a Will e gli mostro i nomi della gente con cui se la faceva lei quando ancora le si drizzavano i capezzoli.
“Non so chi sia questo Escobar, ma posso dirti chi è questo” punta il dito s’un nome tra i tanti: “Il matto”.
Le prostitute migliori sono quelle che non si aspettano nulla da un incontro, quelle che comprendono il tuo bisogno d’amore tanto quanto tu comprendi il loro bisogno di contanti.
“Ho visto più teste di cazzo entrare negli studi della Philles Record di quanti ne abbia visti entrare nella mia fica in quarant’anni”, mi dice.
Eleonore Lucy Taylor negli anni precedenti ai Bed In di Yoko Ono e al flower power aveva riprodotto, con delle live performance, l’arte d’amare raffigurata nelle stampe cinesi della dinastia Qing e negli affreschi di Pompei.
Il suo scopo non era quello di arrapare i repressi, ma di riportare in vita le perversioni della storia.
“Ma basta un solo simpatizzante in più per tramutare il club privè dell’anticonformismo in una dozzinale parata conformista”, tronca la biografia della sua vita con una frase d’effetto.
Tira una boccata di sigaretta e mi chiede se ho voglia di fare uno strappo alla regola.
“Così un gruppo di europei mi rubò l’idea, la privò della sacralità degli incisori del ’600 e la sostituì alla solita scena del bacio nelle loro pellicole scadenti. Lo chiamarono porno”.
Rifiuto il primo tiro dell’eroe alla sua Marlboro, quello che noi tossici in gergo chiamiamo “domino piece” perché ricorda la reazione a catena dell’effetto domino, poi prendo carta e penna come un vero detective, scrivo a me stesso l’appunto “ricorda ai tuoi figli che la storia può essere divertente” e gli chiedo del tizio della Philles.
“Lo chiamavano Spector” mi risponde, socchiudendo le palpebre in un misto tra relax da nicotina e fastidio da fumo negli occhi.
“Come mai?”, chiedo scrivendo nervosamente.
“Perché si chiamava così”, dice e vedendomi teso come una corda di violino montata s’un violoncello, mi alita in faccia la boccata seducente della morte.
“Con lui c’era sempre un altro tizio, credo lo chiamassero Bob”.
“Era questo il suo nome? Bob?”, disegno una B in un pessimo corsivo, sembrano un paio di enormi tette su una schiena piatta.
“No, Bob era un soprannome”, ridacchia lei alla vista della mia calligrafia infantile: “Era un austriaco amante degli slittini, ma non so il suo vero nome quale fosse”.
Mi tremano le ossa, ho amato le droghe tanto che a pensarci mi esce il sangue dal naso. Mi rifugio nell’ultimo appiglio che mi è rimasto, l’unico che mi rasserena. I sognatori hanno mille vie per spingersi fin dentro le proprie fantasie: i miei sogni galleggiano perpetui nella calma superficie di due dita di Southern.
“Phil era un tossico e un depravato”, Eleonore si versa un bicchiere per farmi compagnia: “Ma aveva il pregio di trovare una soluzione a tutto. Un giorno mi chiamò e mi disse che mi avrebbe tolto dalla strada una volta per tutte”.
“Lo fece?” le domando e poi mi tiro indietro sulla sedia, soggiogato dal rinculo della calma dopo un lungo stato di tensione.
“Sì”, risponde lei: “Mi mise su un marciapiede”.
Si circonda di fumo come a volerci scomparire dentro.
“Tu sai come si sopravvive all’esistenza?”, chiede, dolce e infantile come lo zucchero filato rosa. Trascina la sua mano sul tavolo fino alla mia certa che la pagherò per quello che sta dicendomi. Mi guarda come se fossi il primo dei suoi clienti, leggo nei suoi occhi che la scopata è in omaggio.
“Ho come l’impressione che tu sia diverso. Fino ad ora tutti coloro che ho incontrato si sono solo limitati a dirmi che ho io la chiave della mia vita. Se è così, qualcuno deve aver cambiato la serratura” dice, ma sta solo mendicando un amore attribuendomi un’importanza che non ho.
“Dove posso trovare questo Phil?”
“In galera, ha ucciso un’attrice di nome Lara Clarckson. Lo troverai libero nel 2028 ”.
Scrivo l’anno nel mio taccuino e le chiedo se sa anche a che ora.
Lucy è l’unica che sa tutto di tutti in questa città, si è sempre trovata laddove le cose succedono, tutti l’hanno sempre ricercata per la sua classe, cosa che credo abbia perso strada facendo.
Comincia a grattarsi il muco che ha in gola con gorgheggiamenti degni di un vecchio armonicista di New Orleans e lo sputa sul pavimento.
“Hai mai sentito nominare un certo Jesse Garon?” le indico il primo nome della lista che ho nelle mani. Tossisce e imbratta il nome di sangue rosso vivo.
“Elvis, quello è il” dice, ma il suo viso si fa paonazzo e quando sgrana gli occhi smette di parlare proprio sul più bello.
“Stai bene?” le chiede Gustav il proprietario.
“E’ il ritratto della salute, non vedi?” grido e l’adagio in terra sperando che qualcuno mi sollevi dal peso di doverle salvare la vita baciandola.
“Chi ha avvelenato il drink” dice Gustav: “E’ stato lei?”.

“Cristo Dio, se fossi stato io credi che te lo direi?”
Preferirei sparare a qualcuno piuttosto che rovinare un whisky, per chi mi conosce basterebbe questo per scagionarmi, ma lì non sembrano avere idea di chi io sia. Così comincio a correre verso l’uscita lasciandomi dietro gl’insulti e i lamenti della povera donna agonizzante, ma quando giro l’angolo sento una fitta alla gola, di quelle che non scordi per tutta la vita, che ti fanno andare il cibo di traverso quando le riporti alla mente.
“Fai troppe domande amico” mi dice l’uomo che mi ha quasi fatto restituire alla natura il pomo d’Adamo.
Woody, figlio di puttana, credevo di averlo ammazzato e che Miss Lilly Princess lo avesse fatto a pezzi.
Catarina, la morte non abbraccia dolcemente come scrivono sui libri, ma ti strozza il collo con mani pesanti e ti costringe a osservare il mondo con occhi spalancati. Ti libera per un attimo di ogni inibizione così che tu possa vedere la vita priva di timore e vergognarti per non aver compreso quant’è bella. La morte non è un soffio come scrivono, no, se lo fosse io starei volando ma invece cado giù, cado giù, cado giù. E adesso chi si prenderà cura di te?

 

Fine primo episodio.

Alessandro Cascio è nato a Palermo. Ha studiato sceneggiatura cinematografica presso la BC Network di Roma con docenti come Mario Monicelli, Francesca Marciano, Gino Capone, Suso Cecchi D’Amico e Daniele Costantini. Ha studiato fumetto presso la Scuola Internazionale Comics e collabora con UT Magazine (Ediland Edizioni). Ha pubblicato i romanzi: Touch and splat (con la prefazione del maestro del cinema Ernesto Gastaldi, sceneggiatore del film C’era una volta in America), Noi sotto il sole di Santiago (prefazione del giornalista Rai Vincenzo Mollica) e Splatter Baby (Il Foglio). Uno dei capitoli del suo romanzo ‘Ditemi tutto sui baci’ è stato pubblicato nel 2008 nella raccolta Il cagnolino rise (Nicola Pesce Editore, con gl’interventi di Lawrence Ferlinghetti e Fernanda Pivano). Altri suoi racconti si trovano nella raccolta Cronache d’inizio millennio (Historica Edizioni, presenti anche Barbara Garlaschelli, Danilo Arona, Maurizio De Giovanni e Gianluca Morozzi) e Autori per Magma presentato al teatro madre di Napoli.

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