Nato troppo lento

On 27/10/2021 by alecascio
Sono nato con una grave malattia, la sindrome da lentezza cronica. In un mondo in cui tutto corre spedito, io sono nato troppo lento. E’ un’invalidità permanente a cui non è ancora stato trovato rimedio.
Il mio medico si chiama Gianpaolo e me lo ha detto chiaramente: “Evita i posti che necessitano velocità d’azione, altro non posso fare per te in questo momento”.
“Cosa vuol dire?” gli ho domandato.
Si è voltato di scatto ed è saltato sulle punte.
“Mi ha detto che altro non può fare e che devo…”
“Cosa vuoi che ne sappia” mi ha risposto stupito che fossi ancora lì, “è una conversazione di un quarto d’ora fa, pensavo fossi andato via”.
E invece c’ero e stavo pensando a come sarebbe stata la mia vita senza un aiuto concreto. Mi disse di prendere la penna sul tavolo nel minor tempo possibile e di scrivere la frase “io non sono lento, è il mondo che è troppo veloce”. Poi puntò il cronometro del suo orologio e mi disse “via”.
“Cronometrerà solo il tempo che impiegherò a prendere la penna o anche quello che perderò a scrivere la frase?”.
“Tutto quanto, fammi vedere che sai fare”
“Ci sono due penne sul tavolo, presumo che lei voglia che prenda quella più vicina a me”.
“Cosa t’importa, prendine una e basta”
“Credo che prenderò la sua bic nera, ci ha appena scritto, vado sul sicuro, quell’altra potrebbe necessitare di una qualche alitata che mi rallenterebbe”.
La prendo, vado per scrivere ma mi accorgo che la frase è ambigua, così gli domando quale sia il senso.
“Ogni cosa è tale rispetto a qualcos’altro, non è forse vero?”
Mi avverte che è già passato un minuto e mezzo e io non ho ancora terminato il test.
“Sa che le formiche del Sahara sono venti volte più veloci dell’uomo più veloce al mondo? Questo rende le formiche troppo veloci e l’uomo troppo lento? Forse dovrei aggiungere che il mondo è troppo veloce rispetto a me, non crede anche lei?”
Si siede, tira dentro un gran respiro e mi guarda attendendo che faccia quel che mi ha detto e di congedarmi.
“La mia scrittura s’è fatta più piccola col tempo, è come se volessi nascondere i miei pensieri, da ragazzino scrivevo grandi lettere, ero più fiero di me, ogni parola era un monolito, invece guardi qui, il “non” si legge a malapena e la N è così tirata via che …”
Mi toglie il foglio da sotto il naso e dichiara il fallimento del test con un “hai fatto del tuo meglio” che sa di medaglia di legno.
La mia ex ragazza era una scheggia, preparava il pranzo quando ancora stavo facendo colazione. In quei due anni non sentii mai veramente il sapore del caffè se non quella volta in cui partì per lavoro e decisi che in realtà a me il caffè non piaceva affatto.
Lei faceva tutto in poche ore e il resto del tempo lo passava a rilassarsi, io invece spalmavo il mio rilassamento durante tutto il giorno, tra una cosa e l’altra e quel che rimaneva lo facevo l’indomani o il giorno dopo ancora, che tanto più cose fai più ne trovi da fare.
“Hai mai mangiato un pasto caldo?” mi domandò una volta.
“Certo, tutti i pasti solo caldi quando inizio”.
“Riformulo la domanda. Hai mai finito un pasto caldo?”
“Non mangio per riscaldarmi, lo faccio per saziarmi.”
Lo leggevo nei suoi occhi che stava per finire. Sapete, tutti pensano che inseguire chi è veloce sia difficile perché non hanno mai provato a stare dietro a un malato di lentezza.
Facevo le pulizie in un vecchio ristorante, lì da generazioni, avevo raggiunto un buon accordo col titolare, lui mi avrebbe dato le chiavi alla chiusura e io glielo avrei fatto trovare splendente l’indomani. Mi piaceva lavorare da solo, mettevo su la mia musica preferita e passavo lo straccio piastrella per piastrella contandole da destra a sinistra. La notte tutto scorre lento, la notte è come me, è da sempre una mia amica. Anche lavare i pavimenti può essere piacevole se lo fai con calma, sciacquare i piatti sotto l’acqua calda, godersi l’odore del detersivo al limone, completare l’opera osservando le posate un centimetro per volta per assicurarsi che nessun rimasuglio sia rimasto attaccato.
Era un bel lavoro, il mio, ero ogni giorno fiero del risultato e il titolare mi trattava come un nipote. La figlia era la diretta ereditiera, non l’avevo mai vista se non stanca e con la divisa da lavoro, ma la bellezza non è un pregio facile da celare, non importa quanto una donna sia stanca, la pelle si aggroviglia ai nostri nervi ma i tratti rimangono inviolati.
Un giorno mi disse: “Sai, io t’invidio”.
Passarono trenta secondi almeno prima che continuasse la frase, pensai che forse avrei dovuto domandare perché ma era implicito nell’affermazione che ci sarebbe stato un seguito, ma quell’attimo di silenzio fu comunque piacevole perché fuori, a pochi metri di distanza, un vagabondo con l’ukulele suonava cover jazz con una voce calda per pochi spicci.
“Tu hai capito tutto della vita. Non serve affannarsi, non serve svegliarsi presto al mattino, non è il numero delle cose che facciamo a renderci migliori, ma il modo in cui le facciamo. Ogni giorno entro in questo locale che sa di bomboniera appena scartata e so che ovunque metterò mano, non ci sarà un solo granello di polvere. Io invece ho fatto sempre tutto di fretta e a volte mi domando cosa mai mi sia persa della vita”.
“I fiori, gli alberi, i ricordi spensierati di quando era bambina” dissi “la gente veloce perde di vista tutto ciò che è immobile”.
C’era un giardino con dodici tipi di rose differenti poco prima di svoltare per Via Taranto, con una di quelle, la centifoglia, le donne in età vittoriana adornavano i loro vestiti per indicare ai potenziali partner di essere disposte a sposarsi, se qualcuno le avesse amate.
“Era un modo per dire a chi le desiderasse, di farsi pure avanti.”
“Come fai a sapere tutto questo?” mi domandò sorridente, sicura che non fossi un esperto di fiori perché a suo dire, non ne avevo l’aspetto.
“La donna che le coltiva non so bene che faccia abbia, tra gli arbusti non ho mai potuto vederla come si deve, ma ha una voce rassicurante, materna. Dice che sono l’unico a fermarsi qualche minuto per osservare le sue rose e ogni giorno me ne regala una per ricompensarmi”.
La invitai ad alzarsi, ci mise un po’, a volte anche i più veloci rallentano di fronte a un’incognita.
La portai al bancone, proprio accanto la cassa e le mostrai una rosa gallica.
“Ogni giorno te ne porto una, saranno anni ormai e alla sera la sostituisco”.
Passò le dita sui petali ancora rigogliosi, si rese conto di non averlo mai notato, un po’ se ne vergogna ma io lo sapevo già, un atto d’amore non è tale se vuol esser ricambiato, perciò avevo continuato ad adornare la sua cassa, perché certi gesti sono necessari all’equilibrio dell’universo, non alla persona alla quale sono diretti.
Mi guardò negli occhi, saremmo andati a vivere in una piccola baita in montagna di pochi metri quadri ma confortevole in cui tutto è immobile e io non sarei stato l’ultimo in classifica tra gli esseri più veloci che si potessero incontrare. Il camino alla sera, una libreria antica piena di storie meravigliose, l’odore dei pini in primavera.
Poi però entrò il primo cliente e il mondo cominciò a girare vorticosamente attorno a lei e i miei sogni rimasero alla cassa, posati bruscamente s’una rosa antica.
Il mio dottore è uno degli uomini più veloci che abbia mai incontrato. E’ andato via per delle visite ed è tornato in un batter d’occhio che lì per lì ho pensato che non gli fosse partita l’auto.
“Sa, dottore, credo che scrivere che il mondo è troppo veloce rispetto a me sia un errore, aveva ragione lei, la sua frase voleva aiutarmi ad accettarmi come sono e io l’ho rovinata pretendendo che si osservasse una realtà alternativa a quella che voleva indurmi ad accettare.”
Mi guarda, prende il foglio e legge la frase per intero.
“Cosa hai fatto mentre ero via?” mi domanda.
“Ho pensato al mio lavoro, alle rose e ho scritto la sua frase due volte perché nella prima copia i caratteri erano troppo piccoli. Lei invece, come mai già di ritorno? Se ha un problema con la sua auto posso darle uno strappo.”
“Sono stato via un’ora intera” mi risponde, “non ho bisogno di alcun passaggio”.
AC
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