Toxic

On 21/02/2022 by alecascio
Siamo tutti tossici a nostro modo. Passiamo l’intera vita a cercare scariche di dopamina che ci diano un momento di sollievo. Le cerchiamo in ogni piccolo gesto quotidiano, nella sigaretta, nel cibo, in un film o una canzone, in una o più persone, in un like su Instagram, in un acquisto su Amazon, nel nostro animale domestico, nel porno, qualunque cosa faccia secernere dopamina al nostro cervello, per noi è difficile da abbandonare.
Siamo dipendenti da tutto ciò che ci rende felici e non importa se sia deleterio o meno, la parte non senziente del nostro cervello non fa distinzioni.
Perciò compriamo il nuovo iPhone e vendiamo il vecchio, non perché ci sia una logica nell’acquisto, ma per la dopamina. Perciò ci piace la considerazione degli estranei, non perché siano davvero importanti, ma per la dopamina.
Così decisi un bel giorno di eliminare dalla mia vita ogni cosa che allietasse quel mostro che avevo nella testa, smisi di mangiare ciò che mi piaceva perché non piaceva a me, ma a lui, smisi di fumare, di bere, di masturbarmi, di ascoltare musica.
“E adesso come la metti?” gli ripetei allo specchio cosciente che potesse sentirmi: “Qual è la tua prossima mossa?”
Mi diede un pugno allo stomaco, per giorni avvertii crampi e digerii a fatica, ma continuai a nutrirmi d’insalata verde, carciofi e finocchi, tutta roba che lui odiava. Mi chiedeva un bicchiere ogni tanto, una Marlboro nel cuore della notte, ma gliela negavo e per dispetto mi tolse il respiro.
“Soffocheremo insieme, se vuoi ammazzarci fa pure” gli dissi, “ma so che non lo farai, è un gioco che ti ho visto fare spesso bello mio”.
Conoscevo il suo punto debole, conoscevo quella parte fragile di lui che lo avrebbe tenuto attaccato alla vita e sì, so cosa state pensando, che in fondo eravamo la stessa persona.
Se fossimo stati tali, non mi avrebbe imbarcato in relazioni impossibili con donne impossibili, non mi avrebbe portato a vomitare da un ponte in piena notte per smaltire la più grande sbornia della mia vita, non mi avrebbe chiesto di spingere sull’acceleratore per provare l’ebrezza della velocità facendomi quasi ammazzare.
“Sei deviato, privo di senno, non voglio più avere a che fare con te, mai più” e ad ogni morso a quel sedano che sapeva della merda dei sorci che l’avevano calpestato dalla semina alla raccolta, sembravo vederlo, incazzato e spogliato di ogni sua arma.
Claire bussò alla porta che erano le tre del pomeriggio, uno di quegli orari di transizione in cui non è mai successo nulla d’importante: nessuna guerra alle tre del pomeriggio, nessuna canzone scritta, nessun quadro dipinto, nessuna grande idea è mai arrivata a quell’ora. Quindi sapevo già che Claire non avrebbe portato nulla di buono e infatti:
“Sono venuta a prendere i miei vestiti, sei in casa?” urlò.
“Quali vestiti” risposi da dietro la porta.
“Se non hai iniziato a indossare gonne e tailleur, quelli dovrebbero essere i miei. Ecco quali vestiti”.
Già, forse gli abiti che indossavo piacevano al mio cervello, lo scolpivano, lo facevano apparire possente e in forma, avrei dovuto portare gonne e cappellini strani.
Aprii la porta per fargli un dispetto, Claire non era più tra i suoi passatempi preferiti.
“Dio mio” disse Claire.
“Cosa c’è”.
“Che è successo qui dentro?”.
“Ti piace? Ho preso l’idea da una rivista New Age”
“Tu odi le piante da interni”
“Esatto e odio anche l’azzurro, ricorda le stanze d’ospedale. Ti va un po’ di finocchio fresco?”.
“No, mi andrebbero due caffè, entrambi doppi”.
“Noi non beviamo caffè”
“Noi chi?”
“Io e il mostro”.
Si sedette sulla sedia color legno chiaro, di un chiaro che non esiste in natura, un chiaro che era un affronto al legno stesso, come i carciofi sono un affronto al cibo e le tre del pomeriggio un affronto a tutto il resto della giornata.
Guardò la mia cucina, sembrava un giardino pensile. Mi chiese se fossi a dieta e risposi che quello era il cibo che il mostro odiava e che ce n’era uno anche dentro di lei.
“Dimmi qualcosa che ti piace”.
“Il… caffè?”
“Male”
“Non so, le patatine fritte?”
“No, no, no” risi.
“Si può sapere cosa ti prende?”
“Grasso uguale colesterolo, cioccolata uguale obesità, fumo infarto, alcol cirrosi epatica, sesso legami conseguenze emotive”.
Prese il suo PC e mi disse di farmi vedere da uno psichiatra.
“Spesa eccessiva, andare dallo psichiatra crea malessere”.
Guardai il suo culetto sodo allontanarsi quando una voce dietro di me mi disse di farla finita.
Mi avvicinai a quella sagoma scura che si celava dentro lo specchio, gli mancava un dito, un orecchio, ma in gran parte mi somigliava.
“Sei tu ad avermi cresciuto così” mi disse, “dovresti prenderti le tue responsabilità”.
Ora che ero impazzito del tutto, potevo finalmente avere un interlocutore da insultare senza sambrare un matto che parla da solo.
“Hai preso tu il primo bicchiere, tu hai fumato la prima bionda, hai sbirciato i porno di tuo padre a tredici anni se non sbaglio, ma ora è tutta colpa mia, non è così?”
Presi un disco degli Anthrax che il mio vicino mi regalò quando decise di traslocare e lo misi sul giradischi a volume intermedio.
“Schifoso pezzo di merda, togli quella roba o…”
Mi piegai in due, avvertii una fitta al petto.
“So che non credi nell’anima, per te sarebbe finita, per me ci sarebbe una speranza” gli dissi ghignando.
“Meglio scomparire che ascoltare speed metal, ma ti porterò con me all’Inferno”.
Il naso gli si staccò dal volto, s’infuriò anche se era solo un naso a patata qualunque.
Iniziarono a tremarmi le gambe, non riuscivo a stare in piedi, ma mentre Neil Turbin abbaiva su chitarre collegate a reattori nucleari, lui si piegò con me.
“Hear the screams, feel the bite, we ride with death tonight”.
Un braccio gli si polverizzò e volò via nell’immagine speculare del mio salottino da fricchettone.
“Questa non è musica” disse, “è come ascoltare la lama affilata di un coltello su un fondo di bottiglia”.
“E adesso viene l’acuto” risposi, “senti Neil in tutta la sua magnificenza”.
Aprii le braccia al cielo con quel po’ di forza che avevo in corpo e di lui rimase solo la mano destra che alzò il dito medio e lo tenne eretto fin quando non mi avvicinai alle gallette di riso. Ne presi una e la mostrai allo specchio. La mano si aprì come a chiedere perdono e al primo morso si volatilizzò.
Sputai sul pavimento i rimasugli di polistirolo non ancora inghiottiti. Presi fiato e mi addormentai.
Le sei del pomeriggio, un orario splendido per svegliarsi. La dichiarazione d’indipendenza fu scritta a quell’ora, Hitler si sparò in testa alle sei del pomeriggio.
Sentii sorridere un bambino. Lo vidi, non era un’ombra ma era chiaro e bello come io non ero mai stato in vita mia.
“E tu chi saresti?” gli chiesi.
Mi sentivo bene, pieno di energie, calmo e disteso e più lo sentivo ridere, più il mio cuore si liberava da ansie, paure e preoccupazioni.
Appoggiai la schiena alla mia orribile sedia e spinsi via con un calcio il portello del comodino.
Presi una sigaretta, l’accesi e respirai fino in fondo.
“Non sapeva che le avessi nascoste, piccoletto” dissi: “Ce la siamo meritata”.
Battè le mani, gli promisi che d’ora in poi la sua vita sarebbe stata splendida.
Tossì, forse un rigurgito non andato in porto.
Che gran bel bambino.
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