Megalomania e altri formidabili racconti di uno dei più grandi geni della letteratura contemporanea

On 12/05/2023 by alecascio

Mi sveglio presto, quando ancora un opaco mattino porta con sé un filo di tenebra. Di fronte lo specchio mi dico: “Sai che c’è, Shov? Non sarai Richard Gere ma poteva finirti peggio” e temprato dal mio primo pensiero positivo mi siedo al tavolo da pranzo e trangugio la mia macedonia come fosse un banchetto vichingo.
Non penso a nulla, la viva morte che è l’umano sonno me la trascino dietro per un paio d’ore, senza pormi degli obiettivi se non quello di rimanere vivo.
C’è silenzio, assoluto silenzio, non c’è una lei a darmi il buongiorno senza permesso. Chi mai ti dice che non voglia crogiolarmi nel dolore e nella disperazione per ritrovare una passione primordiale o per provare un’emozione vigorosa che mi dilani l’anima e mi risvegli dal torpore di un pensiero troppo a lungo protratto?
Perché dev’essere un buon giorno quando abbiamo una così vasta possibilità di scelta, una scala di stati emozionali tanto ampia da renderci affini al divino?
Soltanto i solitari sperimentano fino in fondo quella chimera millenaria che chiamiamo libertà, quel senso di onnipotenza, di onnipresenza che ti fa sentire al tempo stesso un pianeta, una galassia e un universo.
Allora casa non è più in disordine, è una destrutturazione dell’ordine imposto da una consuetudine ancestrale dettata da un comportamento animale insopprimibile.
Allora dormire al pomeriggio non è pigrizia ma libero abbandono.
Puoi essere chi sei senza nessuno a chiederti: cos’hai?
Ho carne, ossa, sangue, terminazioni nervose sotto ogni centimetro di pelle, questo è quel che ho e che hai anche tu, ma mentre io comprendo pienamente che la mia mente è l’alfa e l’omega, tu credi che ci si debba ingabbiare in una porzione di sentimento e perseguire la costanza. Non sei umano, allora, sei un segmento di umanità.
Il mio cellulare né suona né vibra, semplicemente ha uno schermo che si accende e spegne quando qualcuno a mè vicino o vagamente attiguo crede che ci sia un’imminenza che non possiamo ignorare.
Se stessimo tutti immobili, da questo momento al giorno a venire, il mondo rimarrebbe mondo, le stelle continuerebbero a brillare, il sole a bruciare, i fiumi a scorrere e gli alberi a fiorire.
“Pronto?”
“L’ho chiamata quattro volte questa settimana” mi dice la mia psichiatra, Elenoire Bornet Bertrand. Ha deciso di mantenere i cognomi sia del padre che della madre e le ho chiesto se un solo fardello non fosse già più che sufficiente.
“Ho avuto molto da fare, sto scrivendo la più grande storia che sia mai stata scritta, al pari della Bibbia ma senza inesattezze storiche e scientifiche. Aprirà le menti, porterà a una nuova consapevolezza, probabilmente anche all’estinzione dell’umanità ma non prima che venga tradotto in tutte le settemila lingue esistenti”.
“Mi fa piacere che si stia tenendo impegnato ma dovrebbe rispettare gli appuntamenti altrimenti crea caos nei mie programmi”.
“Il programma stesso è un caos”
“Cosa”
“Dico che se prova a programmare l’imprevedibile per forza di cose si ritroverà nel caos”.
Sbuffa. Ripete una lunga “e” che le dà il tempo di rielaborare i suoi pensieri, la vedo intenta a scrivere, controllare appunti, troppe cose tutte insieme, finirà per essere lei la “e” un giorno, una sospensione perenne.
L’aiuto.
“Potrei essere da lei tra le quattro e le sette”.
“Deve darmi un orario preciso”.

“Un ottavo di un’intera giornata è una frazione più che precisa, matematicamente ineccepibile, il 12,5% della…”
“L’aspetto” ripete glaciale e chiude.
[…]

Citofono. Salgo le scale. Trentasei scalini esatti. Chissà se i costruttori abbiano stabilito quel numero o se semplicemente si siano detti: siamo arrivati, il trentaseiesimo è l’ultimo, adesso aprite i vostri contenitori Tupperware e consumate scomodi il vostro pasto in un angolo tra l’impastatrice e il vuoto delle vostre misere esistenze.
I soliti volti smorti in sala d’attesa: Marcel, Sandra, il signor Roche e una nuova arrivata, cavallina ed elegante, con degli occhiali da sole di marca e le gambe sovrapposte che esaltano un retto femorale che suggerisce un passato da sportiva.
“Alors, mon amis, sembrate dei cambogiani sotto il fuoco dei Khmer. Liberatevi dall’oppressione, non combattete, deponete le armi, noterete che siete nati morti e fuggiranno non appena vedranno le pallottole attraversarvi”.
La mia breve oratoria non ha sortito alcun effetto, mister Roche ha sorriso dietro ai suoi enormi baffi o almeno così è sembrato giacchè quelli si sono prima compressi e poi distesi.
“Shovinskij” mi chiama Elenoire, “entri e lasci stare i pazienti”
Chissà perché non osa mai chiamarli clienti.
Uno dei motivi per cui non ho ancora smesso di andare da lei è l’essenza di vaniglia del suo meraviglioso studio, quella luce soffusa, quella libreria antica completamente restaurata e così appariscente. E anche perché un tribunale ha stabilito così.
Megalomania, la chiama, sostiene che io sia affetto da una malattia e non la biasimo, Cristo, Ghandi, Martin Luther King vennero assassinati, io me la sono cavata con poco.
“Sto bene” l’anticipo prima che me lo chieda.
“Questo lo stabilirò io”
E poi sarei io il megalomane.
“Vedi, a me non preoccupano i tuoi alti, mi preoccupa il momento in cui ti accorgerai di essere solo un uomo e cadrai”.
“Solo?” dico, “lei ha una pessima stima degli uomini”
“Ciò che credo è che nella vita nessuno ti è stato vicino veramente e hai perciò alimentato il tuo ego a tal punto da credere di non aver bisogno di nessun altro oltre te stesso”.
“Dovrebbe essere più concreta”
“Che vuole dire”
“Ha detto ‘credo’, lascia presagire un’indecisione e non può rivolgersi a dei matti in questo modo. Più concretezza, più enfasi”.
Mi alzo e le faccio vedere come si fa.
“Lei, Shovinskij, è assolutamente fuori di testa. Affermo con assoluta certezza che tutta la sua vita interiore è una menzogna”.
Prendo fiato, non ho il gobbo devo darci sotto d’improvvisazione.
“Poi però, dovrebbe spiegare ai matti perché la sua vita non lo è, su quale monte e a quale altezza la divinità a cui dovremmo credere le ha rivelato la verità assoluta, giurare su una reliquia sacra d’Ippocrate salvatore che lei non vive nella menzogna”.
“Siediti”
Al contrario di quanto possiate pensare dal nome da diva e dai due cognomi, Elenoire non è affatto una bella donna, è piuttosto scialba, ha dei capelli lisci e unti, la sua forma fisica è ovoidale ma se dovessi sottolineare il suo miglior pregio, ha buon gusto in fatto di occhiali.
Li posa sulla scrivania con delicatezza e mi chiede se ho mai pensato al suicidio.
“Una volta stavo per accettare un posto da ragioniere, ma poi ho desistito”.
“Mi prometti che verrai Lunedì?”
Le afferro le mani, la guardo negli occhi, le dico: “Sì, Elenoire, io te lo prometto”.
“Mi prometti che mi aiuterai a risolvere i tuoi problemi?”
Le stringo le mani quanto basta per non farle male.
“Non preoccuparti per me, Elenoire, avrò pure un sacco di problemi ma almeno non confino con la Russia”.
All’uscita la donna con gli occhiali da sole è ancora nella stessa posizione, intrappolata nel suo magnifico aspetto.
Mi avvicino a lei, si irrigidisce, la tranquillizzo dicendole che:
“Vivo non è chi sa camminare, vivo è piuttosto chi sa dove andare; vivo non è chi arriva e dimora, vivo è piuttosto chi si alza e riparte; vivo non è chi ha da mangiare, vivo è chi sa assaporare; vivo non è chi vaga ammansito, vivo è chi brama, chi insegue; vivo non era chi morì all’arrivo, ma chi se ne andò lungo il tragitto.”

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